Ha 32 anni, è sardo. Ha le idee chiare, il carisma e la stoffa di un vero meneur du jeu. La sua scuola è il cinema : Scorsese, Fellini, Leone, Cassavetes, Chaplin sono i modelli che ha fatto suoi, non in maniera superficiale e ossequiosamente debitoria, ma assimilandoli perfettamente e instaurando una filiazione ideale coi Maestri.
Quel che è certo è che questo fuoriclasse che si chiama Bonifacio Angius farà molta strada.
Il suo primo lungometraggio, Perfidia, selezionato al festival del film di Locarno, non ci consegna solamente un desolante e verace spaccato di provincia sassarese, ma anche un ritratto potente della relazione padre/figlio, della desolazione di un’intera generazione (quella dei trentenni italiani) spazzata via dalla storia, e della progressiva perdita di riferimenti istituzionali e spirituali nella vita del singolo.
Alla morte della madre, il trentacinquenne Angelino si ritrova tutto solo col padre Peppino. Quest’ultimo sembra accorgersi, forse troppo tardi, dello stato di assoluta catatonia in cui è immerso il figlio. Si adopera allora per trovargli un lavoro coi soli mezzucci di cui dispone, rivolgendosi a qualche vecchia conoscenza o affidandosi al favoritismo clientelare.
Ma Angelino non è fatto per lavorare, è un emarginato, un ‘alieno’ o, come lo definisce lo stesso Angius, “un personaggio buttato nel mondo, che non capisce e non viene capito”. Angelino parla a monosillabi, nel suo sguardo si coglie, di volta in volta, lo stupore di un bambino, la gravità del profeta, l’imperturbabilità dello stoico.
L’atmosfera cupa, desolante che aleggia nel film ed è mutuata da una prodigiosa luce metallica, viene stemperata dalle gags dei due compagni di ventura (che non cadono mai nel bozzettismo), dalla loro becera ignoranza, dalle azioni maldestre e goffe di Angelino e dalla sfortuna che lo perseguita. Il film non è giocato, cioè, sul tasto monoemozionale di una tristezza disperante ma è felicemente contrappuntato da schegge di tragicomicità che obbligano le labbra dello spettatore ad incresparsi in un sorriso ironico.
Si esperisce così, in questo film, l’esperienza del male come perversione: Perfidia ci dice (nel discorso del catechista alla radio che attraversa in filigrana tutto il film) che il Diavolo esiste, è dappertutto e ha un ghigno, si beffa di noi e mescola volentieri le carte, insinuando il Male laddove pensavamo ci fosse del Bene.
In questo film, dove ogni inquadratura è meditata, giusta e ottenuta attraverso un lavoro di sottrazione, anche quando indugia in una sorta di rêverie felliniana, il racconto dei singoli casi umani è talmente potente ed evocativa che attinge ad uno spessore universale.
Il cast del film è misto, formato da non attori, attori di teatro e semiprofessionisti, capeggiati dallo straordinario Stefano Deffenu (“la prima era quasi sempre buona”) e dal pregevolissimo Mario Olivieri.
Bonifacio Angius è prolifico, sta già lavorando alla sceneggiatura di un altro film, una storia d’amore tra tre reietti della società: lui è violento, pieno d’amore ed alcolizzato, lei è stralunata, internata in un ospedale psichiatrico ed è perseguitata dall’idea che qualcuno le abbia rapito il proprio figlio, una sorta di ‘pinocchietto’ costretto in un centro di accoglienza per minori. È con impazienza che attendiamo di vedere la storia di questi tre outsiders sul grande schermo.
Anche Stefano Deffenu lavora dietro la cinepresa e sta attualmente preparando un documentario a partire da alcune riprese che ha fatto in India e il cui soggetto è un gruppo di bambini indiani.
Il mostro sacro del cinema horror nostrano, Dario Argento, è stato invitato alla Sessantasettesima edizione del festival del film di Locarno, in occasione della Retrospettiva Titanus. Una bella opportunità per ripercorrere la vita e la carriera del Maestro attraverso il suo primo film L’ uccello dalle piume di cristallo (1970) e una serie di brevissimi e allucinatissimi Incubi di Dario Argento, suite di nove cortometraggi di due tre minuti l’uno, realizzati per il programma Rai «Giallo» nel 1987.
Uno di questi cortometraggi, la cui scena clou è l’autosbudellamento della protagonista, fu censurato dalla stessa Rai e miracolosamente sopravvissuto grazie ad un estimatore di Dario Argento che ne filmò una copia pirata prima che l’originale fosse fatto sparire.
L’intento di Dario Argento? Quello di «dare degli sberloni agli spettatori» inoculando nelle case degli italiani «dei piccoli film feroci, politicamente scorretti, al limite del razzismo»: sullo schermo assistiamo a stupri, massacri perpetrati da colf di colore o da non meglio precisati ‘stranieri’, epidemie di vermi sottocutanei e giochi infantili che si avvalgono di braccia e teste mozzate. Insomma un profluvio di schizzi di sangue e orrori indicibili, il tutto confezionato in maniera volontariamente amatoriale, low-fi, kitsch, scampoli di veri B-movies accompagnati da un sound track che attinge ai suoi film precedenti piuttosto che a Michael Jackson o ai Sex Pistols.
In sala, tra risate e mancati conati di vomito, i film sono stati accolti in maniera giubilatoria da un pubblico giovane che, secondo Argento, è in grado di apprezzare la sua «sincerità».
A ottobre verrà edito il libro autobiografico del regista in cui racconta la propria vita senza fatti inediti perché ormai della mia vita si sa già tutto, non c’è piu nulla da scoprire visto che è già stato scritto molto». Ciò che, invece, rimarrà per sempre un mistero è la sua doppia identità, «quel Dario Argento che non conosco bene e che ogni tanto apre la sua parte oscura e ci guarda dentro».
A chi gli domanda quale sia la ricetta per incutere paura, il regista risponde che non lo sa, sarebbe troppo facile: «è una predisposizione dell’animo, io racconto le profondità della mia parte oscura e, fortunatamente, ho il privilegio di avere un buon dialogo con essa. Quelle che racconto sono storie terribili che non turbano la mia coscienza. La mia paura è sempre stata quella di avere un vaso di Pandora con dentro tutte queste mostruosità e che, un giorno si sarebbe rotto davanti ai miei occhi. Ma questo non è successo, il vaso è infrangibile».
Il regista rievoca la propria giovinezza e ci racconta di quando, bambino, si ammalò di una febbre reumatica che lo costrinse a letto per diverso tempo. In quella circostanza fece l’incontro con le opere di Poe e di Lovecraft: un mondo di figure bizzarre, strane, cominciò a popolare il suo immaginario per poi prendere vita, più tardi, nei suoi film, in Profondo Rosso (1975), poi in Suspiria (1977) e in Inferno (1980).
Argento non manca poi di omaggaire il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che lo ha aiutato a «dialogare» coi propri sogni e senza il quale «non ci sarebbe nulla; non ci sarebbe l’arte, il cinema, la musica; senza Freud vivremo ancora come dei selvaggi medievali».
Ed infine, a questa lunga schiera di padre putativi, s’aggiunge l’«architetto» Michelangelo Antonioni da cui ha ereditato «l’importanza della casa», di volta in volta «casa filosofale» e «casa alchemica».
Per quanto riguarda i progetti futuri, il regista resta vago, ci dice che deve «interrogare» la sua parte oscura ma apre qualche spiraglio quando ci rivela di riservare interesse per l’occultismo e «la ferocia in famiglia» perché «tutto nasce lì, quando si è fragili e bambini».
Ciò che, malauguratamente, è certo è che i suoi prossimi film, alcuni episodi per una serie televisiva, non verranno realizzati in Italia ma negli Stati Uniti, perché là « c’è più libertà di raccontare, più soldi, più apertura a tematiche e generi diversi mentre in Italia è sempre la commedia che comanda ».
Il festival del film di Locarno riserva, come al solito, nella sezione « Cineasti del presente », delle belle sorprese. È il caso del piccolo gioiello di rohmeriana memoria Un jeune poète di Damien Manivel.
Il film del giovane cineasta francese racconta, in una cinquantina di scene, le erranze del flaneur e poeta diciottenne Rémi Taffanel nella cittadina marittima di Sète con rare freschezza e levità.
Rémi ricerca, insegue, provoca l’ispirazione : lo cogliamo in biblioteca mentre punta a caso il dito nel dizionario per trovare la parola d’oro che gli evochi nuovi orizzonti immaginativi ; si immerge in mare per domandare l’arcano ad un polpo di passaggio ; interroga i passanti o si attarda con gli avventori di un bar ; nomina le farfalle e gli oggetti del mondo con lo sguardo primigenio di un fanciullino pascoliano ; Rémi sogna, si innamora, si strugge per una cocente delusione amorosa e, allora, si rifugia nell’alcol o va a meditare, romantico giovane Foscolo, sulla ‘tomba del poeta’.
Questo piccolo capolavoro è stato girato in fretta e furia l’estate scorsa. Un mese prima delle riprese Manivel ha scritto una cinquantina di ‘situazioni’ eppoi, arrivato sul posto, ha lasciato che il caso e l’improvvisazione prendessero il sopravvento. E ciò nonostante, il film è di un rigore impressionante. Costruito alternativamente su piani fissi (alcuni dei quali sprigionano un magnetismo alla Kaurismaki) e sui piani sequenza, risponde alle necessità imposte dal film, e nella fattispecie, « al soggetto del film, Rémi, alla sua gestualità e a quel poco di denaro di cui disponevamo ».
Autoprodotto con un budjet ridotto all’osso e una équipe formata da quattro persone (tutti compresi) questa piccola meraviglia è nata grazie ad una videocamera, una pertica, dei microfoni cravatta e la luce di una calda estate mediterranea.
Manivel può vantare un indubbio talento, confortato da un occhio coltivato (ha frequentato il Fresnoy, istituto dedicato alla crezione artistica audiovisiva) e rivolto verso l’Oriente, in particolare ai cineasti taiwanesi Tsai Ming Lian e Hou Hsiao Hsien, o al cinema americano underground del primo Jim Jarmusch: Manivel dice di essersi ispirato a Permanent Vacation , non tanto sul piano artistico ma relativamente al procedimento adottato: «volevo fare un piccolo film modesto, dove non succedono tante cose ma che, tuttavia, rimangono bene in testa».
« Il tesoro dell’alba è la sapienza » è scritto su un frammento etrusco tradotto dall’ Archeologo, uno dei pensionanti di Villa Medici nel film di Eugène Green La sapienza.
Con forza il passato irrompe nel presente ma il senso di quelle parole non è fatto per essere compreso con il solito armamentario intellettuale. La Sapienza non è un film per saccenti ‘farisei’ ; questi ultimi tenteranno con ogni mezzo di demolirlo con la ragione condannandone l’estetismo, la vacuità, se non addirittura la futilità e l’intellettualismo.
La Sapienza è un percorso di iniziazione e per intraprendere questo cammino è necessario un atto di fede da parte dello spettatore, anche nel senso più laico del termine, e cioè la predisposizione ad un totale abbandono.
D’altra parte è questa la condizione dello spirito cui Eugène Green si predispone quando stende la sceneggiatura di un libro o di un film : « l’idea per un romanzo o una sceneggiatura mi viene di grazia, come un’illuminazione », « Comincio a stendere la storia lasciandomi andare », « La struttura a cui si può ricondurre il mio pensiero è il mito: gli elementi narrativi sono una verità in sé, solo in un secondo momento ne capisco il senso » , e « La sapienza è una storia che parla di una separazione, di un sacrificio e dell’amore ».
Lo stesso percorso di ‘purificazione’ viene richiesto agli attori che, più che interpretare una parte, donano la loro interiorità, « per questo non voglio che gli attori mettano delle intonazioni psicologiche, che sono sempre codificate ; abbiamo finito col considerarle come vere e autentiche ma non lo sono », « richiedo agli attori un rifiuto della ricerca intellettuale, li invito a pronunciare le battute come se parlassero a se stessi, solo cosi emerge l’interiorità ».
Per Fabrizio Rongione e Christelle Prot è fondamentale, per svincolarsi dalle maglie dei condizionamenti psicologici, imparare perfettamente a memoria il testo e « lavorare sulla musicalità e la fluidità del fraseggio, utilizzando le liaisons per evitare i tic psicologici ». Rongione dichiara che quando lavora con Eugène Green, « si ha l’impressione di essere come Gesù sulla croce, nel senso che si risvegliano delle emozioni che non si vivono quando l’interpretazione è psicologica : Green obbliga l’attore a trovare un vuoto dal quale sorgono le emozioni ».
L’idea de La Sapienza è nata dalla fascinazione del regista per l’architetto barocco Borromini, sul quale aveva già svolto degli studi negli anni Settanta. A quell’epoca già meditava di fare un film storico ma poi, praticando il cinema, si accorse che ciò che gli interessava veramente era il rapporto tra passato e presente. Di qui nasce il personaggio principale, Alexandre (Fabrizio Rongione), un affermato architetto parigino che attraversa una crisi esistenziale che risolverà attraverso un viaggio in Italia, accompagnato dalla moglie Aléonor (Christelle Prot) e poi da Goffredo (Ludovico Succio), uno studente di architettura con il quale riscoprirà a Roma le architetture di Bernini e Borromini. A contatto con il giovane ed entusiasta Goffredo, Alexandre riscopre la ragione profonda del suo mestiere : « l’architettura è la creazione di uno spazio, di un vuoto riempito di gente e di luce ».
La Sapienza è un film letteralmente inondato di una luce pomeridiana calda, confortante e serena. I dialoghi sono cesellati con una punta di diamante e interrotti sapientemente per lasciare il posto alla scintilla di un’intuizione. Le frequenti e inattese sortite di humour contribuiscono anch’esse all’atmosfera sospesa e carica di significato del film. Il cammino di conoscenza che intraprende Alexandre è scandito da ‘vuoti pieni’ all’immagine dei volumi perfetti disegnati dalle cupole barocche. La riconciliazione con gli affetti, il mondo e la vita, che si materializza nell’abbraccio sensuale della compagna nell’ultima scena, testimonia del suo approdo alla “sapienza”, uno stato di grazia che alla conoscenza delle cose ne unisce la saggezza, ovvero la capacità e l’equilibrio nel giudicarle.
Il film di Eugène Green è un invito a predisporsi a questa nuova condizione dello spirito donandocene l’atmosfera, l’architettura e l’incanto.
Il film di Olivier Assayas, presentato nella scorsa edizione del festival di Cannes e a Locarno per il premio Excellence award Moet & Chandon a Juliette Binoche, è stato qualificato dalla critica come, tutto sommato, un “buon film”. Nonostante la tiepida accoglienza che gli è stata riservata, non si può non ammirarlo per la grande intelligenza con cui è stato concepito e confezionato e per il sorprendente trio al femminile formato da Juliette Binoche, Kristen Stewart e Chloë Grace Moretz.
Il soggetto del film è stato suggerito ad Assayas dalla stessa Juliette Binoche e mette in scena la crisi di identità, sia sul piano esistenziale che professionale, di un’attrice quarantenne, Maria Enders, interpretata dalla stessa Binoche che, all’apice del proprio successo, si trova a dover fare i conti con l’età e le giovani leve dello star system hollywoodiano. L’istanza diegetica trova riscontro ideale nella scelta del cast: da una parte troviamo un’acclamata attrice francese, la Binoche, quintessenza del cinema d’autore europeo (premiata a Cannes, Venezia e Berlino, è passata davanti la cinepresa di registi del calibro di Godard, Kieslowski, Haneke, Dumont), dall’altra le due attrici statunitensi Kristen Stewart, portata alla ribalta per la sua interpretazione nella saga Twilight, e Chloë Grace Moretz, nel film l’antieroina Jo-Ann Ellis, che soffierà subdolamente alla Enders/Binoche il ruolo di vedette nella pièce teatrale Maloja Snake, decretando così l’ineluttabile declino della rivale. Quest’ultimo personaggio, interpretato dalla Moretz, è verosimilmente ispirato alla vita e alla carriera della giovane attrice americana, vero e proprio camaleonte artistico e mediatico: si è destreggiata nei ruoli e nei generi più diversi, passando dai film horror e di supereroi alle serie tv fino alle vette del cinema di Scorsese e Tim Burton, sempre, ben inteso, posando per la press people internazionale, in uno spasmodico quanto strategico desiderio di fagocitare lo spazio mediatico.
Ed è proprio questo uno dei tasti su cui preme, in maniera convincente, il film di Olivier Assayas: la carta del successo si gioca sul piano della popolarità mediatica, anche di bassa lega. Memorabile è la sequenza in cui le due attrici comprimarie e il regista della pièce si incontrano per un confronto professionale che, infine, non avrà luogo perché vanificato dall’emergenza dello scandalo amoroso originato dalla relazione segreta tra Jo-Ann e il suo amante: un’orda di paparazzi sorprende la giovane coppia clandestina, mentre Maria assiste alla scena ignorata da tutti e all’ombra del successo suscitato dalla sua rivale.
Ciò che interessa al pubblico è la notizia shock, ad effetto, la rivelazione di relazioni intime illegittime o poco ortodosse. Ed è così che Assayas asseconda il nostro desiderio, per poi sconfessarlo, attraverso un trailer che costituisce un intelligentissimo contrappunto al film. Nel trailer vengono suggeriti una relazione omosessuale tra la matura Maria Enders e la giovane assistente Valentine (“Ciò che ti tiene sveglia la notte è il desiderio per me”) e un atteggiamento sfrontato quanto ostile da parte di Jo-Ann nei confronti di Maria (“Te ne vai come se io non esistessi”, “E allora?”). In realtà ci si accorge, vedendo il film, del travisamento della realtà: le battute pronunciate da Maria e Valentine sono quelle del copione di Maloja Snake mentre, nel secondo caso, la risposta arrogante di Jo-Ann a Maria è di natura professionale e non personale.
Assayas ci invita a squarciare il velo delle apparenze e a decomporre la ‘fiction’ confezionata nel trailer, per scoprire la realtà e complessità delle relazioni umane in un progetto che lui stesso ha definito come “un documentario in forma di fiction”. Ciò che avviene nelle coulisses del mondo dello spettacolo sarà allora più banale di ciò che il trailer dava ad intendere ma, non per questo, meno drammatico e crudele. Secondo questa nuova prospettiva, la porta che si schiude sulle natiche di Valentine dormiente non traduce il desiderio sessuale di Maria ma l’infrazione dell’intimità di una giovane assistente defraudata della propria vita privata per assistere, sostenere e compiacere l’ego di una celebrità, servendo, alternativamente, da confidente e capro espiatorio, fino al crudele epilogo: Valentine sparisce e viene sostituita da una nuova assistente. Non diversamente, Jo-Ann non è la ragazzina ribelle e apparentemente immatura che Maria scopre in rete o in tv, ma una scaltra ‘trasformista’ in grado di interpretare nell’arte come nella vita i ruoli più diversi alternando, a suo vantaggio, sfrontatezza, audacia e aplomb politicamente corretto.
Insomma, un film che merita plausi per la sorprendente interpretazione del trio femminile e la sua capacità di sedurre il pubblico in maniera sapiente, lenta ma efficace come quelle nuvole di Sils Maria che, come un serpente, si avviluppano attorno alle montagne svizzere e si impadroniscono del paesaggio fino a cancellarlo.
Il film uscirà nelle sale francesi il 20 agosto e sarà distribuito in Italia dalla Good Films in date ancora da definire.
Si è inaugurato ufficialmente il 6 di agosto il festival del film di Locarno. L’emozione si poteva toccare con mano in Piazza Grande, gremitissima di gente che ha accolto, trepidante, la voce rauca e la silhouette hitchcockiana di Jean Pierre Leaud, ospite d’onore della serata a cui è stato consegnato il Pardo alla Carriera. Sul palco anche Melanie Griffith, protagonista del cortometraggio Thirst della regista debuttante Rachel McDonald.
Grande attesa anche per Lucy di Luc Besson, con cui la critica non è stata affatto generosa visto che ha bocciato all’unanimità la sua ultima fatica, ed effettivamente non le si puo dare tanto torto. Lucy è uno strano ibrido, a metà tra fantascienza, film d’azione, thriller e, perché no, il documentario naturalista. Senz’altro è originale il tentativo di ibridazione dei generi e apprezzabile lo sforzo di rinnovarsi sempre: “la mia grande paura è di fare sempre lo stesso film ed è una cosa che non mi interessa”, ma l’ambizione alle volte non paga e Lucy è pretenzioso e grossolano nonostante il messaggio cyberspirituale suggerito nell’ultima sequenza: “parliamo sempre di Dio da ma non lo abbiamo visto, in Lucy cerco di spiegare la religione: se possiedi il tempo sei dappertutto, la definizione di Dio è che è ovunque”.
Nonostante gli evidenti rimandi a film cult come Matrix e 2001: Odissea nello spazio e le citazioni colte (la Creazione di Adamo di Michelangelo), Lucy è un film debole, scarso di intuizione e dei necessari voli dell’immaginazione. Il genere umano utilizza solo il 10% delle potenzialità del proprio cervello: cosa succederebbe se si avesse accesso al 100%? Facile: si potrebbero sgominare orde di malviventi coreani scaraventandoli a destra e a manca o facendoli cadere come mosche con la sola forza del pensiero, guidare in controsenso in rue de Rivoli a Parigi come su una banalissima console Nintendo, viaggiare per il mondo in un nanosecondo comodamente seduti sulla propria poltrona ed, infine, attraversare le epoche dell’umanità (ordinate in maniera rigorosamente cronologica come su un sussidiario delle scuole medie) con un semplice gesto della mano, proprio come se sfogliassimo le pagine di un tablet. Insomma, sorge pure il dubbio che l’intera operazione sia frivola e canzonatoria e non manca, in effetti, qua e là, uno humour grossolano e distensivo: come interpretare altrimenti la summa della conoscenza che Lucy consegna agli emeriti scienziati e che è condensata in una ridicola chiavetta usb?
Se il fascino di una grande opera d’arte deriva anche dalla sua capacità di essere profetica, di anticipare i tempi, è facile misurare il ritardo che sconta il film di Besson rispetto alla tecnologia attuale e ai relativi assunti filosofici.
Se Lucy non è un film visionario, chiaroveggente, avveniristico (tanto che alla fine alla protagonista non resta che fare marcia indietro e andare a visitare la sua antenata) anche sul piano dell’intrigo secondario non funziona, con grande delusione per tutti gli amanti dei film d’azione. Lucy, una ragazza semplice, “fragile”, “nella media”, viene rapita da un gruppo di narcotrafficanti coreani e, per errore, assorbe una droga potentissima che aumenta esponenzialmente la sua attività neuronale. Ben presto diviene invincibile, tanto che nessuno è in grado di contrastarla, neppure i malavitosi asiatici; eppure Besson glieli mette tra i piedi fino alla fine del film facendo credere che possano costituire una reale minaccia: evidentemente ha deciso di ripiegare sull’azione per non affrontare la vera questione in gioco, sicuramente più complessa ma anche più avvincente.
Besson si è affidato alla Industrial Light and Magic di George Lucas per la concezione e realizzazione degli effetti speciali, rivendicando, con questo film, il “controllo e potere assoluto del creatore sulla propria opera”. Tuttavia, pare piuttosto che il demiurgo si sia fatto accecare dai propri superpoteri, confezionando un film che, nonostante il maquillage spettacolare, poco ci dice circa la “trasmissione della conoscenza”, il funzionamento del nostro cervello e il destino del genere umano.
Besson ha dichiarato di volersi sempre rinnovare ed è per questo che, a quest’ora, non è al suo Nikita n.8, o Léon n.12; ecco, speriamo che onori tale proposito anche per Lucy, una è piu che sufficiente.
Tutto sommato, pero, Besson non ha di che preoccuparsi, il suo film sarà un blockbuster: gli strali che la critica gli ha scagliato contro non sono che punture di zanzara per un colossal che si è assicurato la distribuzione in un’ottantina di paesi, primo tra tutti gli Stati Uniti: insomma, più che Dio è Hollywood che è ovunque.
In occasione della Giornata mondiale del rifugiato dello scorso 20 giugno, la Cinémathèque Française ha omaggiato il regista cambogiano Rithy Panh con la proiezione del suo film L’image manquante, vincitore, nel 2013, della sezione “Un certain regard” del festival di Cannes. La proiezione è stata seguita da un incontro tra Rithy Panh e l’artista visivo Christian Boltanski che si sono interrogati sul ruolo delle immagini nella trasmissione della memoria collettiva e nella lotta contro l’oblio.
«Da diversi anni cerco un’immagine mancante: una fotografia scattata tra il 1975 e il 1979 dai Khmers Rossi quando governavano la Cambogia. Una sola immagine non prova un crimine di massa ma dà a pensare, fa meditare, e serve da fondamento alla storia». Queste sono le parole d’esordio pronunciate ne L’image manquante, l’opera cinematografica di Rithy Panh che racconta il genocidio della popolazione cambogiana perpetrato quarant’anni fa dal partito comunista di Kampuchea.
All’inizio del suo lungo progetto Rithy Panh era alla ricerca dell’immagine di una esecuzione che potesse testimoniare del genocidio. Durante una decina d’anni ha condotto delle inchieste in Cambogia, interrogando la popolazione e gli stessi Khmer Rossi ottenendo poco più del silenzio in un paese non ancora pronto ad ammettere l’esistenza di tali massacri. Le uniche immagini sopravvissute, e in abbondanza, erano quelle di propaganda, che i Khmers Rossi avevano abbandonato nelle fogne o tra le rovine all’indomani dell’invasione vietnamita. Il materiale sarebbe poi stato recuperato e conservato, in condizioni precarie, nella sede della direzione del cinema di Phnom Penh e, infine, digitalizzato in Francia ad opera del regista.
Dopo un anno e mezzo di riprese, il regista si decise a visitare la sua casa d’infanzia, nella quale non aveva più messo piede dall’età di dodici anni, epoca in cui, assieme alla famiglia, fu deportato nei campi di lavoro forzato. L’interno della casa era stato trasformato in una sorta di bar karaoke. Talmente forte era la voglia di fantasticare dell’infanzia che il regista domandò ad uno scultore di ricreare un modellino della casa e di popolarlo di qualche statuina in argilla, materiale con cui era solito giocare da bambino. Alla vista della statuina che prendeva corpo nelle mani dello scultore, i ricordi d’infanzia sono risorti in tutta la loro purezza e vitalità. In quel momento è stato evidente che i protagonisti del film sarebbero state queste statuine venute dall’acqua e dalla terra, depositarie dell’anima dei testimoni e, come quest’ultimi, destinati a scomparire e a ritornare alla terra.
È attraverso la naïveté dello sguardo di un bambino che il film ha trovato la sua ragion d’essere e, allo stesso tempo, la sua carica drammatica: le statuine sono gioiose, colorate e individualizzate e costituiscono un potente contrappunto alle immagini di massa, ‘totalitarie’, della propaganda Khmer, che mostrano uomini e donne grigi, uguali e alienati. Attraverso questo gesto di ricostruzione dell’ “immagine mancante” e di riappropriazione delle immagini di archivio il regista ha voluto non solo far rivivere la memoria del popolo cambogiano, ma anche smascherare il messaggio di propaganda del partito comunista.
L’immagine mancante risiede, dunque, nella memoria individuale del regista, nei ricordi della sua infanzia che, grazie al mezzo cinematografico, si caricano di un afflato universale capace di nutrire la memoria collettiva, unico baluardo nella lotta contro l’oblio. A mano a mano che il lavoro di ricostruzione trovava il suo fondamento nell’animazione del popolo d’argilla, divenne chiaro al regista che la ricerca documentaria dell’immagine iniziale, quella d’archivio, perdeva di senso perché la “morte in diretta”, come l’ha definita André Bazin, è oscena, non mostrabile.
Per Christian Boltanski la necessità di servirsi di un filtro tra la realtà e ciò che si mostra nasce dalla necessità di preservare la dignità delle persone. Mostrare le immagini del genocidio o di una sola esecuzione significherebbe partecipare al crimine, esserne complici e indurre lo spettatore a partecipare della fascinazione per esso. L’artista francese, la cui opera offre una riflessione sullo statuto dell’immagine e dell’arte attraverso materiali semplici come indumenti e fotografie, ha spesso lavorato con immagini di archivio facendo rivivere il ricordo delle grandi tragedie del XX secolo, ma non ha mai mostrato immagini di cadaveri. Singolare eccezione è Scratch (2002), un libro le cui pagine sono interamente ricoperte di una pellicola d’argento che cela immagini di cadaveri spagnoli. Tuttavia, l’atto di raschiare la pellicola per portare alla luce le macabre vestigia dipende dalla volontà del fruitore dell’opera e non dall’artista che sceglie, volontariamente, di non mostrare tali immagini.
Come ne L’image manquante, anche Boltanski ha lavorato sui temi dell’infanzia, dell’identità e della morte nel tentativo reiterato di promuovere l’incontro tra la memoria individuale, quella che l’artista chiama “piccola memoria”, fatta di eventi ed immagini minori che spariscono con l’individuo, e la memoria collettiva, che fonda la storia del genere umano ed è conservata nei libri.
Tutto il suo lavoro è teso a scandagliare e a preservare dall’oblio la “piccola memoria” di ciascun individuo, mettendone in evidenza l’unicità e la fragilità.
Tuttavia, per Boltanski, ogni operazione di salvataggio dall’oblio è intrinsecamente votata al fallimento perché nell’atto stesso del ricordo è la sua negazione ed è proprio questo sentimento di lacerazione e mesta malinconia che trasuda nelle sue opere, dove ogni presenza si converte in assenza. È il caso, per esempio, dell’installazione Archivi del cuore di Christian Boltanski, allestita sull’isola giapponese d’Ejima. Il visitatore è invitato a lasciare la registrazione delle pulsazioni del suo cuore in una cabina apposita, poi la visita prosegue in un corridoio buio dove si odono le pulsazioni di altri cuori, provenienti dal mondo intero. Al centro del soffitto pende una lampadina che lampeggia al ritmo dei battiti cardiaci illuminando la silhouette dei visitatori riflessa negli specchi appesi alle pareti. Si esperisce così, ossessivamente, nell’alternanza tra luce e tenebre, la natura transeunte dell’uomo.
Totalmente all’opposto è l’atteggiamento vitalistico di Rithy Panh rispetto ai temi della morte e della scomparsa. Per il regista cambogiano il senso della propria vita è immanente a questo mondo: ciò che gli interessa affermare attraverso il cinema non è il progressivo e inesorabile dissolvimento delle cose nell’oscurità e nel silenzio ma la lotta contro l’oblio. Anche la relazione coi morti è differente: le statuine che rappresentano i defunti non sono fantasmi perché i fantasmi terrorizzano, ma anime benevole che ci accompagnano durante il corso della vita. Lo stesso regista si rappresenta tra i morti come statuina ed è lieto e a suo agio insieme a loro. Come non pensare allora al film Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti del regista tailandese Apichatpong Weerasethakul? Durante la cena in veranda compaiono, all’improvviso, la moglie e il figlio defunti dello zio Boonmee e con essi egli intrattiene una serena quanto malinconica conversazione. L’incontro con le anime dei morti non ha nulla di inquietante ma è reale e fa parte della vita quotidiana.
Serge Toubiana ha commentato gli esiti estetici diversi, seppur complementari, dei due invitati proponendo una spiegazione socio-antropologica dell’arte: il pessimismo malinconico di Boltanski si spiegherebbe con la pratica di un’arte solitaria mentre il carattere engagé del cinema di Rithy Panh deriverebbe dal fatto che un’opera cinematografica è, prima di tutto, il risultato di un processo collettivo. Si tratta sicuramente di un’interpretazione interessante ma ciò che non si può in alcun modo ignorare è la grande differenza del loro background culturale.
All’incrocio delle tradizioni cristiana ed ebraica, Christian Boltanski si compiace nel tratteggiare un nuovo “cristianesimo” di cui sarebbe il solo aderente. La sua opera sarebbe allora abitata, se non dalla nozione di un Dio personale, dalla persona umana che conserva, in ogni modo, la nozione di trascendenza, per la netta separazione tra la parte unica ed inafferrabile della persona, di natura quasi divina, e la parte effimera che le serve da supporto.
Nel film di Rithy Panh la nozione di immanenza prevale su quella di trascendenza, manifestando un profondo radicamento ad un pensiero di matrice buddista: il soffio vitale divino è presente nella materia del mondo e la scomparsa non è vissuta come perdita lacerante ma premessa di un futuro incontro.
Bruno Dumont, l’autore de L’Humanité (1999) e Hors Satan (2011), non si smentisce e continua a stupire con la sua ultima opera, P’tit Quinquin, selezionata alla Quinzaine des réalisateurs dell’ultima edizione del Festival di Cannes.
Coloro che sono abituati a godersi l’opera del cineasta ‘bressoniano’ in piccole sale d’essai, saranno spiazzati nell’apprendere che Dumont si è cimentato, questa volta, in una commedia poliziesca realizzata per Artè e concepita come una miniserie per la televisione francese, costituita di quattro episodi di cinquantadue minuti l’uno. Ma il cineasta francese fa presto tabula rasa dello snobismo intellettuale di bassa lega: «per me non c’è nessuna differenza tra cinema e televisione: in entrambi i casi c’è una videocamera, degli attori e qualcuno disposto a guardare. C’è del buono e cattivo cinema come della buona e cattiva televisione. Sono quindi lieto che si possa apportare del valore alla televisione».
Il film è stato girato in otto settimane nel villaggio di Audresselles, nella regione natale del regista, nel Nord-Pas-de-Calais. P’tit Quinquin, un ragazzino dal volto deformato e leporino, è a capo di una banda di teppistelli che trascorrono le vacanze estive a colpi di petardi e corse in bicicletta. Un delitto efferato mette fine alla calma apparente della cittadina: del sangue umano viene ritrovato all’interno di una mucca (“è la bestia umana, comandante! – Non siamo qui per filosofeggiare, Carpentier!”). Si avvia così una strampalata inchiesta poliziesca condotta da una coppia di improbabili commissari: il comandante pare uscito da un film di Tati, è totalmente strambo e pieno di tic mentre il suo assistente Carpentier è un essere linfatico e filosofo, con la passione per le due ruote. Al primo delitto ne seguiranno altri e, mentre le vicende dei due poliziotti si incrociano con quelle dei ragazzini, vengono messe allo scoperto aberrazioni e nefandezze della cittadina: crimini di sesso, inquietanti consanguineità, razzismo, rivalità intestine. Si prendono di mira, a colpi di gag, anche le istituzioni, la polizia, l’esercito e la religione: «è un film totalmente irrispettoso, penso che ci faccia bene, che ci liberi e ci faccia sopportare ciò che è difficile tollerare. E d’altronde, non c’è giudizio, nessuno mi ha contestato nulla, perché siamo al di là di una qualsivoglia critica politica o sociologica, siamo all’interno della natura umana».
L’idea di fare una commedia è nata dalla voglia di lavorare su un film di genere e dalla riflessione sulla sua opera precedente: «io amo il film di genere, quando ho avuto voglia di fare un film horror ho fatto Twentynine Palms, quando ho fatto Flandres pensavo al film di guerra. Poi mi son reso conto che, nei miei film, la commedia è sempre stata presente là dove c’era la tragedia. Così ho deciso di tornare sui miei passi, di fare la parodia di me stesso, e sono approdato al tragicomico perché è più pieno, mi consente di toccare in profondità le cose. Se ne L’humanité abbiamo tutti i colori dell’umanità, tuttavia si resta nella tragedia. In P’tit Quinquin, invece, c’è la comicità, che fa veramente parte della vita. Continuerò a lavorare nel senso della tragicommedia».
Alla frustrazione di coloro che vorrebbero sapere chi è il colpevole dei crimini, Dumont risponde con un invito a elevarsi dalla ‘realtà’ del film offrendoci la chiave filosofica e metacinematografica per la sua comprensione: «siamo al di là di questa questione, siamo passati oltre la colpevolezza e l’innocenza, la razionalità esplode, niente è serio nel film, non c’è un’interpretazione sociologica da decriptare. Tutto è talmente artificiale e teatrale che una ricerca della verità sarebbe ipocrita: è per questo che l’inchiesta non mena a nulla e i due commissari non fanno che girare in tondo. Ciò che mi interessa, però, è che tale ricerca avvenga in una forma assolutamente accessibile: il filosofo che ricerca la verità non mi interessa, bisogna trovare delle forme terra terra alla metafisica».
L’aspetto assolutamente irreale e fantastico del film è assicurato dalle stravaganti performances degli attori: «i personaggi che popolano P’tit Quinquin sono delle astrazioni. La dimensione dei personaggi è sproporzionata, inumana, perché è questo che ci consegna il cinema: dei personaggi di una grande alterità».
È sorprendente come Dumont sia riuscito ad assemblare un cast tanto eccezionale affidandosi esclusivamente ad attori di associazioni amatoriali o a perfetti sconosciuti di cui intuisce il potenziale drammatico. Per citare due esempi: P’tit Quinquin è stato recrutato mettendo un annuncio su un giornale per il casting di bambini tra gli otto e i dieci anni, mentre il comandante e il suo assistente sono dei giardinieri. Il comandante è forse il personaggio più strabiliante: «È un interprete intrigante, mi ascolta docilmente ed interpreta le mie indicazioni in una maniera fuori dall’ordinario, facendo dei gesti smisurati. Insieme siamo andati in cerca del burlesque. La camminata a falcate, per esempio, è qualcosa che ha inventato dopo che gli avevo detto che una camminata normale mi innervosiva. È dissonante e misterioso, ed è questo che è straordinario».
La ricerca della stravaganza e della straordinarietà è un lavoro che Dumont ha fatto con tutti gli interpreti del film. Il suo metodo consiste nel creare un personaggio approssimativo e di costruirlo, poi, insieme agli interpreti, affinché appaia giusto, intonato alla persona.
Dopo l’esperienza cinematografica Camille Claudel 1915 (2013), Dumont ha deciso di continuare a lavorare con le persone handicappate e ha annesso nel cast il personaggio di Dany: «L’ho trovato in un centro specializzato. Gli ho spiegato il suo ruolo e lui mi ha detto che gli interessava partecipare. Abbiamo cercato insieme come interpretare il suo personaggio. Gli ho chiesto di fare qualcosa di un po’ strano e lui se ne è venuto fuori con le sue smorfie e la giravolta che vediamo spesso. Mi ha detto che gli piaceva farlo ed è così che Dany appare vero».
La serie televisiva uscirà in Francia il prossimo settembre, mentre l’intero film di ben duecento minuti potrà contare sulla distribuzione internazionale.
All’indomani della presentazione a Cannes del loro ultimo film, Due giorni una notte, la Cinemathèque Française omaggia i due cineasti belgi con una retrospettiva della loro opera e un incontro seguito alla proiezione del film Le fils (2002).
Un’occasione per riscoprire le origini del loro cinema, marcato dall’esperienza teatrale e dal genio di Armand Gatti, e approfondire, con la profondità e lo humour che li contraddistingue, le tecniche di regia adottate dai due cineasti, dalla direzione ‘bressoniana’ degli attori all’utilizzo privilegiato del piano sequenza.
Quali sono state le influenze nel vostro cinema? Siete passati per il genere documentario ma avete anche una formazione teatrale. Come siete approdati al cinema?
Jean-Pierre Dardenne: Siamo arrivati al cinema attraverso il teatro, grazie ad Armand Gatti. Abbiamo lavorato come assistenti, in realtà eravamo un pò dei tuttofare, avevamo diciotto e vent’anni. Gatti ci ha dato fiducia, è il nostro padre spirituale. Poi, naturalmente, ci si batte anche contro il proprio padre e noi, fortunatamente, eravamo in due!
Che cosa avete imparato da Gatti?
Luc Dardenne: Innanzitutto la precisione, il fatto che non esiste il pressapochismo. Con Gatti abbiamo fatto un film in Irlanda (Nous étions tous des noms des arbres (1982)). Abbiamo imparato osservando. I suoi attori non erano professionisti ma, per la maggior parte, irlandesi del luogo. Sul set ci è capitato uno che doveva interpretare un belligerante dell’IRA e doveva provocare un’esplosione con la dinamite. Ma questa persona, un vero sordomuto, si è rifiutato di girare la scena perché, sebbene irlandese e cattolico, era contrario a un tipo di intervento armato. Così Gatti si è trovato a dover riscrivere la scena: il film cambiava a seconda delle vite delle persone.
Lavorate spesso con gli stessi attori, con una coerenza quasi seriale, come in un’ ideale trasmissione dei ruoli. È il caso del “figlio” nell’omonimo film del 2002 (Le fils), che ritroviamo in veste di mafioso ne Le silence de Lorna (2008).
J.P.D: Spero che non ci sia troppa coerenza! Comunque avviene solo con gli uomini e non con le donne… Diciamo che questo tipo di scelta deriva dalla nostra formazione teatrale, e dal fatto che a teatro si lavora spesso con lo stesso gruppo di persone. E quindi cerchiamo di andare a ritrovare coloro con cui abbiamo già lavorato, anche se non si tratta che di una giornata di riprese.
Potete parlarci della direzione e della formazione degli attori?
L.D.: Con tutto il rispetto per la persona, noi consideriamo gli attori come della materia da modellare per diversi mesi. Lavoriamo con loro almeno quaranta giorni prima delle riprese. A seconda delle scene li guidiamo su come si devono sedere, cadere, correre, o azzuffare… così come i silenzi e i momenti in cui arriva la parola. Filmiamo tutto con la videocamera e, a fine giornata, guardiamo il materiale girato. In base a quello continuiamo il lavoro l’indomani. Eppoi li vestiamo tutte le mattine: il nostro principio è che quando un attore si trova bene in certi abiti, è bene cambiarli per rompere l’immagine di sé che si sono creati. Gli attori professionisti si identificano nelle immagini di se stessi come attori, mentre i non professionisti nell’immagine di sé come persone nella vita, soprattutto quando sono adolescenti. Per esempio, Emilie Dequenne, che interpreta Rosetta nell’omonimo film, non voleva camminare in strada con degli stivali in gomma. Ciascuno ha dei difetti o, meglio, qualcosa nel suo corpo che non vuole mostrare, questo vale soprattutto per gli attori non professionisti: bisogna fare tabula rasa di tutto ciò, solo così si è liberi. Ma questo vale anche per gli attori professionisti: è stato il caso di Cécile de France, che interpreta Samantha ne Le gamin au vélo (2011). Ad un certo punto lei non capiva più ciò che volevamo ed era vero, perché sia io che Jean-Pierre siamo in uno stato di perenne ricerca. Quando un attore non si pone più domande è un buon segno, vuol dire che è arrivata la libertà. Inoltre effettuiamo sempre le riprese nell’ordine della sceneggiatura proprio perché il personaggio è in divenire.
Immagino che l’utilizzo del piano sequenza nel vostro cinema richieda una coreografia molto precisa. Gli attori, colti nelle loro azioni e gesti, formano un balletto di energia.
J.P.D.: Ogni volta che cominciamo un nuovo film ci diciamo che non faremo più dei piani sequenza… ma alla fine non possiamo farne a meno, è più forte di noi. Forse è l’influenza del teatro. Ciò che ci interessa è registrare la presenza dell’attore ed è ottenibile facendo coincidere il tempo della ripresa col tempo della visione. Penso che il piano sequenza sia il nostro destino. Ad ogni modo so che bisogna cercare di evitare i pericoli insiti nel piano sequenza, ovvero l’ostentazione dell’abilità dell’attore, della prodezza, il virtuosismo.
Il piano sequenza registra il tempo ma anche lo spazio e la distanza tra i personaggi.
L.D.: Certamente… Le fils (2002) racconta proprio la distanza tra i due personaggi principali: il falegname Olivier e Francis, l’omicida del figlio d’Olivier. Abbiamo scritto la sceneggiatura attorno a questa distanza e, per le riprese, ci siamo serviti di una piccola cinepresa, maneggevole, leggera e dotata di bracci che ci ha consentito di distaccarci dai corpi e di dissociare l’occhio dalla visione. J.P.D.: Nel film viene registrata anche un’altra distanza, quella tra i personaggi e le cose. Olivier non tocca le cose che, poco prima, sono state maneggiate da Francis. Ciò che ci ha sorpreso è che Olivier si dimostrava distaccato nei confronti del ragazzo anche al di fuori delle riprese. Non voleva che si avvicinasse, lo evitava. Abbiamo poi capito che si comportava così per aiutare se stesso e il ragazzo nel lavoro d’interpretazione. Solo alla fine, coerentemente alla riconciliazione prevista nella sceneggiatura, Olivier propende per un riavvicinamento.
Uno dei pregi del vostro cinema è quello di presentare dei personaggi complessi, non univoci, non riducibili ad alcuna formula sociale. Come costruite i vostri personaggi?
J.P.D.: Li consideriamo più come delle persone che come dei personaggi. È come se la cinepresa entrasse ed uscisse da una storia che è cominciata prima del suo arrivo. E poi lasciamo a ciascuno la sua chance. Non sappiamo nemmeno noi ciò che guida i personaggi. Abbiamo voluto conservare questa opacità, lasciare il mistero di ogni individuo. Non vogliamo delle silhouettes portatrici di un discorso.
A proposito del mistero e dell’opacità dei personaggi, ciò mi ha fatto pensare ad alcuni metodi del cinema americano, e in particolare al genere poliziesco, per il modo di entrare in una storia attraverso l’azione, la prova fisica dei personaggi. C’è, nei vostri film, un’ idea di serie B, nel senso che il tempo conta, bisogna iniziare prima di tutto con l’azione.
J.P.D.: Quando costruiamo una scena pensiamo, innanzitutto, a ciò che vogliamo nascondere. Ciò che organizza il piano è la posizione della cinepresa nello spazio e ciò che nascondiamo. Per creare la tensione tra Francis et Olivier, per esempio, abbiamo deciso di nascondere alla vista Francis per diverso tempo. Non ne vediamo che dei dettagli, un’ombra, in modo da far crescere la tensione e stimolare la curiosità nel pubblico.
Penso che il pubblico sia molto frustrato per questa fine brutale, per il fatto che il rapporto tra i due personaggi non si chiarifichi. Non si capisce ciò che Olivier cerca nel ragazzo, che è l’assassino di suo figlio.
J.P.D.: Il film appartiene più allo spettatore che al regista. Molti film di genere sono basati sulla vendetta… basti pensare ai western, ai polizieschi… Il nostro film non è basato sulla vendetta. L.D.: Innanzitutto non si tratta di un assassino ma di un omicida. Premetto che non mi piace il perdono facile perché è inumano. Quando si incomincia a perdonare tutto non si sa più dove si è, non si sa più chi sono le vittime e i carnefici. Ma ciò che racconta il film è l’impossibilità dell’omicidio, della vendetta. Tale impossibilità rende Olivier un padre, perché è ciò che si insegna al proprio figlio: il divieto di uccidere. Il film racconta di come si può resistere alla vendetta.
Perché avete scelto questo attore dal volto angelico per interpretare un assassino? Non ne ha l’aspetto. L.D.: Non esiste un “aspetto” di assassino!
Il personaggio dell’omicida, Francis, non conosce l’identità del suo insegnante, mentre l’attore che lo interpreta sì. Come si concilia questa consapevolezza durante il lavoro di interpretazione di un attore non professionista?
J.P.D.: Quando si sta girando un film, che siate attori professionisti o debuttanti, sì è nel presente e nel presente Francis è l’apprendista che deve indossare la salopette che il suo maestro gli ha consegnato, e non deve manifestare nient’altro che questo. L.D.: Diamo delle indicazioni talmente precise all’attore, come “prendi quel bicchiere”, “conta fino a sei e siediti”, “alzati e poi girati” che lui è talmente assorbito dall’azione da eseguire che dimentica di essere un omicida. L’attore agisce senza memoria, ha la memoria di un pesce rosso!
Eric Lagesse è il direttore generale del gruppo Pyramide, società di distribuzione francese, e di Pyramide International, struttura di vendita all’estero, che ha come obiettivo di mettere in relazione i produttori con i distributori internazionali con cui Pyramide ha stabilito una partnership: sullo scacchiere internazionale la società diretta da Lagesse conta una decina di partners in Svizzera, sei in Belgio, quattro in Svezia, e una ventina sia in Giappone che negli Stati Uniti. L’estensione delle vendite al mercato internazionale è stata una scelta dettata dal fatto che in Francia l’attività di marketing è molto più onerosa che all’estero.
Per quanto riguarda, più specificamente, la distribuzione dei film in Francia, Pyramide ne assicura l’uscita in sala rivestendo la funzione di intermediario tra produttori, agenti intermediari ed esercenti. Una società di distribuzione controlla ogni singola tappa del processo di diffusione e presentazione di un’opera cinematografica, dai rapporti con la stampa alla locandina, dal trailer alla definizione del numero di copie del film fino all’individuazione del pubblico a cui l’opera è destinata. Decide ugualmente la data di uscita del film perché anche la scelta della stagione è importante per ottimizzare l’insieme delle operazioni di marketing.
Il distributore riveste un ruolo chiave per assicurare non solo il successo del film ma anche la sua realizzazione. Infatti, in Francia il produttore di un’opera cinematografica ha interesse a coinvolgere un distributore quando il progetto è ancora giovane, essenzialmente per due motivi: innanzitutto per ricevere un primo finanziamento dal distributore e poi per trovare altri partners finanziari, come CanalPlus, la televisione terrestre e le Sofica (Società di Finanziamento dell’Industria cinematografica e dell’Audiovisivo) che richiedono imperativamente il coinvolgimento di un distributore nel progetto. A volte è indispensabile la presenza di un distributore per chiedere fondi di sostegno a livello europeo (Eurimages).
Considerato il peso preponderante che riveste il distributore nella produzione del film e il rischio economico e finanziario che ne consegue, Eric Lagesse richiede di poter verificare con mano il valore dei progetti che gli vengono proposti dedicando, assieme al suo socio, una parte del tempo alla lettura diretta degli script: vengono vagliati ben trecento progetti all’anno di cui solo una dozzina vedranno la luce! Una terza persona seleziona i progetti che vengono dall’estero sottoponendo all’attenzione di Lagesse solo i più validi. La maggior parte dei progetti esaminati sono proposti da produttori con cui Pyramide ha già lavorato e che hanno dimostrato in passato serietà e concretezza. Tuttavia Pyramide accetta proposte anche da produttori e registi non conosciuti purché possano dimostrare di aver fatto un percorso di formazione adeguato. In ogni caso i requisiti essenziali sono la serietà del produttore e la qualità dello script, sui cui criteri Lagesse non si attarda troppo adducendo, laconico, che uno script convince quando si ha l’impressione che si tratti di un «vero film di cinema» e che, in fin dei conti, si tratta di una «questione di feeling». Tuttavia, questa formula non si rivela sempre vincente e così gli è capitato di rifiutare progetti di cui ha sottostimato la qualità, come il film Louise Wimmer (2013) di Cyril Mennegun, prodotto dalla Zadig Films e ricompensato da un César per il miglior primo lungometraggio. All’epoca non aveva voluto distribuirlo perché, nonostante lo script promettesse «molto cinema», la storia era troppo triste. Tuttavia Lagesse non si è fatto sfuggire l’ennesima occasione per lavorare con la Zadig Films e ha deciso di impegnarsi nella distribuzione del film Hope di Boris Lojkine, in competizione a Cannes.
L’impegno finanziario di Pyramide per la distribuzione di un lungometraggio varia, in media, tra i 150 e i 350mila euro ma può raggiungere anche i 600 o 700mila euro. Questa somma, senza considerare i fondi pubblici CNC (Centre National du Cinéma et de l’image animée) di sostegno alla distribuzione che devono comunque essere reinvestiti in opere cinematografiche successive, viene prelevata direttamente dalle casse della società senza nessuna garanzia di recupero di tale somma al box office. Il distributore deve dunque contare essenzialmente sulle sue forze e sui propri fondi che vengono alimentati, oltre che dalle entrate al box office, dalla vendita dei diritti sui film alle televisioni e da un catalogo di film venduti alla televisione via cavo.
Lagesse sottolinea come il margine di rischio per un distributore che decide di investire in un film sia molto superiore rispetto a quello di un produttore, il cui obiettivo è quello di raccogliere quanto più denaro possibile per assicurare la produzione del film e minimizzare eventuali perdite. In Francia, un produttore può costituire il proprio piano di finanziamento in diversi modi: c’è chi agisce in maniera selvaggia e decide di lanciarsi nella produzione anche se non dispone di tutto il budget, chi decide di restringerlo al minimo, chi ‘partecipa’ il proprio salario nella produzione, e coloro che accolgono diversi partner finanziari per pagarsi il film. In ogni caso, il produttore ha, da una parte, un preventivo di budget e, dall’altra, il denaro che è riuscito a recuperare. Se il preventivo di budget è stato calcolato correttamente, il rischio di un fallimento finanziario è ridotto al minimo: o il progetto non è attuabile o lo si realizza con gli introiti ottenuti. Se poi il film si rivela un successo, tanto meglio per il produttore, che intascherà un bonus sugli incassi.
Per un distributore, invece, prevedere il recupero del denaro investito attraverso i guadagni in sala, è assolutamente aleatorio. Non si può prevedere facilmente il successo che riscuoterà il film in sala. E nonostante ciò, la quota di guadagno spettante al distributore, al netto delle spese sostenute per la distribuzione (compreso un eventuale acconto versato al produttore all’inizio del progetto), corrisponde ad una commissione del 25%, mentre il restante 75% è percepito dal produttore.
Il rischio assunto dal distributore in termini economici e finanziari è talmente importante che quest’ultimo si arroga il diritto di intervenire nelle scelte artistiche del film al fine di garantirne il successo commerciale. Questo intervento non si limita alla realizzazione del trailer e della locandina. Lagesse, pur non avendo delle competenze artistiche, assiste e partecipa a tutte le fasi di produzione del film privilegiando la fase di riscrittura dello script e quella di montaggio e prendendo parte così, attivamente, a quella grande opera collettiva e polifonica che è il cantiere di un film.