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Locarno 2014: “Perfidia” di Bonifacio Angius

Ha 32 anni, è sardo. Ha le idee chiare, il carisma e la stoffa di un vero meneur du jeu. La sua scuola è il cinema : Scorsese, Fellini, Leone, Cassavetes, Chaplin sono i modelli che ha fatto suoi, non in maniera superficiale e ossequiosamente debitoria, ma assimilandoli perfettamente e instaurando una filiazione ideale coi Maestri.

Quel che è certo è che questo fuoriclasse che si chiama Bonifacio Angius farà molta strada.

Il suo primo lungometraggio, Perfidia, selezionato al festival del film di Locarno, non ci consegna solamente un desolante e verace spaccato di provincia sassarese, ma anche un ritratto potente della relazione padre/figlio, della desolazione di un’intera generazione (quella dei trentenni italiani) spazzata via dalla storia, e della progressiva perdita di riferimenti istituzionali e spirituali nella vita del singolo.

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Alla morte della madre, il trentacinquenne Angelino si ritrova tutto solo col padre Peppino. Quest’ultimo sembra accorgersi, forse troppo tardi, dello stato di assoluta catatonia in cui è immerso il figlio. Si adopera allora per trovargli un lavoro coi soli mezzucci di cui dispone, rivolgendosi a qualche vecchia conoscenza o affidandosi al favoritismo clientelare.

Ma Angelino non è fatto per lavorare, è un emarginato, un ‘alieno’ o, come lo definisce lo stesso Angius, “un personaggio buttato nel mondo, che non capisce e non viene capito”. Angelino parla a monosillabi, nel suo sguardo si coglie, di volta in volta, lo stupore di un bambino, la gravità del profeta, l’imperturbabilità dello stoico.

L’atmosfera cupa, desolante che aleggia nel film ed è mutuata da una prodigiosa luce metallica, viene stemperata dalle gags dei due compagni di ventura (che non cadono mai nel bozzettismo), dalla loro becera ignoranza, dalle azioni maldestre e goffe di Angelino e dalla sfortuna che lo perseguita. Il film non è giocato, cioè, sul tasto monoemozionale di una tristezza disperante ma è felicemente contrappuntato da schegge di tragicomicità che obbligano le labbra dello spettatore ad incresparsi in un sorriso ironico.

Si esperisce così, in questo film, l’esperienza del male come perversione: Perfidia ci dice (nel discorso del catechista alla radio che attraversa in filigrana tutto il film) che il Diavolo esiste, è dappertutto e ha un ghigno, si beffa di noi e mescola volentieri le carte, insinuando il Male laddove pensavamo ci fosse del Bene.

In questo film, dove ogni inquadratura è meditata, giusta e ottenuta attraverso un lavoro di sottrazione, anche quando indugia in una sorta di rêverie felliniana, il racconto dei singoli casi umani è talmente potente ed evocativa che attinge ad uno spessore universale.

Il cast del film è misto, formato da non attori, attori di teatro e semiprofessionisti, capeggiati dallo straordinario Stefano Deffenu (“la prima era quasi sempre buona”) e dal pregevolissimo Mario Olivieri.

Bonifacio Angius è prolifico, sta già lavorando alla sceneggiatura di un altro film, una storia d’amore tra tre reietti della società: lui è violento, pieno d’amore ed alcolizzato, lei è stralunata, internata in un ospedale psichiatrico ed è perseguitata dall’idea che qualcuno le abbia rapito il proprio figlio, una sorta di ‘pinocchietto’ costretto in un centro di accoglienza per minori. È con impazienza che attendiamo di vedere la storia di questi tre outsiders sul grande schermo.

Anche Stefano Deffenu lavora dietro la cinepresa e sta attualmente preparando un documentario a partire da alcune riprese che ha fatto in India e il cui soggetto è un gruppo di bambini indiani.

Locarno 2014, gli “incubi” di Dario Argento

Il mostro sacro del cinema horror nostrano, Dario Argento, è stato invitato alla Sessantasettesima edizione del festival del film di Locarno, in occasione della Retrospettiva Titanus. Una bella opportunità per ripercorrere la vita e la carriera del Maestro attraverso il suo primo film L’ uccello dalle piume di cristallo (1970) e una serie di brevissimi e allucinatissimi Incubi di Dario Argento, suite di nove cortometraggi di due tre minuti l’uno, realizzati per il programma Rai «Giallo» nel 1987.

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Uno di questi cortometraggi, la cui scena clou è l’autosbudellamento della protagonista, fu censurato dalla stessa Rai e miracolosamente sopravvissuto grazie ad un estimatore di Dario Argento che ne filmò una copia pirata prima che l’originale fosse fatto sparire.

L’intento di Dario Argento? Quello di «dare degli sberloni agli spettatori» inoculando nelle case degli italiani «dei piccoli film feroci, politicamente scorretti, al limite del razzismo»: sullo schermo assistiamo a stupri, massacri perpetrati da colf di colore o da non meglio precisati ‘stranieri’, epidemie di vermi sottocutanei e giochi infantili che si avvalgono di braccia e teste mozzate. Insomma un profluvio di schizzi di sangue e orrori indicibili, il tutto confezionato in maniera volontariamente amatoriale, low-fi, kitsch, scampoli di veri B-movies accompagnati da un sound track che attinge ai suoi film precedenti piuttosto che a Michael Jackson o ai Sex Pistols.

In sala, tra risate e mancati conati di vomito, i film sono stati accolti in maniera giubilatoria da un pubblico giovane che, secondo Argento, è in grado di apprezzare la sua «sincerità».

A ottobre verrà edito il libro autobiografico del regista in cui racconta la propria vita senza fatti inediti perché  ormai della mia vita si sa già tutto, non c’è piu nulla da scoprire visto che è già stato scritto molto». Ciò che, invece, rimarrà per sempre un mistero è la sua doppia identità, «quel Dario Argento che non conosco bene e che ogni tanto apre la sua parte oscura e ci guarda dentro».

A chi gli domanda quale sia la ricetta per incutere paura, il regista risponde che non lo sa, sarebbe troppo facile: «è una predisposizione dell’animo, io racconto le profondità della mia parte oscura e, fortunatamente, ho il privilegio di avere un buon dialogo con essa. Quelle che racconto sono storie terribili che non turbano la mia coscienza. La mia paura è sempre stata quella di avere un vaso di Pandora con dentro tutte queste mostruosità e che, un giorno si sarebbe rotto davanti ai miei occhi. Ma questo non è successo, il vaso è infrangibile».

Il regista rievoca la propria giovinezza e ci racconta di quando, bambino, si ammalò di una febbre reumatica che lo costrinse a letto per diverso tempo. In quella circostanza fece l’incontro con le opere di Poe e di Lovecraft: un mondo di figure bizzarre, strane, cominciò a popolare il suo immaginario per poi prendere vita, più tardi, nei suoi film, in Profondo Rosso (1975), poi in Suspiria (1977) e in Inferno (1980).

Argento non manca poi di omaggaire il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che lo ha aiutato a «dialogare» coi propri sogni e senza il quale «non ci sarebbe nulla; non ci sarebbe l’arte, il cinema, la musica; senza Freud vivremo ancora come dei selvaggi medievali».

Ed infine, a questa lunga schiera di padre putativi, s’aggiunge l’«architetto» Michelangelo Antonioni da cui ha ereditato «l’importanza della casa», di volta in volta «casa filosofale» e «casa alchemica».

Per quanto riguarda i progetti futuri, il regista resta vago, ci dice che deve «interrogare» la sua parte oscura ma apre qualche spiraglio quando ci rivela di riservare interesse per l’occultismo e «la ferocia in famiglia» perché «tutto nasce lì, quando si è fragili e bambini».

Ciò che, malauguratamente, è certo è che i suoi prossimi film, alcuni episodi per una serie televisiva, non verranno realizzati in Italia ma negli Stati Uniti, perché là « c’è più libertà di raccontare, più soldi, più apertura a tematiche e generi diversi mentre in Italia è sempre la commedia che comanda ».

Locarno 2014: le erranze di Un jeune poète

Il festival del film di Locarno riserva, come al solito, nella sezione « Cineasti del presente », delle belle sorprese. È il caso del piccolo gioiello di rohmeriana memoria Un jeune poète di Damien Manivel.

Il film del giovane cineasta francese racconta, in una cinquantina di scene, le erranze del flaneur e poeta diciottenne Rémi Taffanel nella cittadina marittima di Sète con rare freschezza e levità.

Rémi ricerca, insegue, provoca l’ispirazione : lo cogliamo in biblioteca mentre punta a caso il dito nel dizionario per trovare la parola d’oro che gli evochi nuovi orizzonti immaginativi ; si immerge in mare per domandare l’arcano ad un polpo di passaggio ; interroga i passanti o si attarda con gli avventori di un bar ; nomina le farfalle e gli oggetti del mondo con lo sguardo primigenio di un fanciullino pascoliano ; Rémi sogna, si innamora, si strugge per una cocente delusione amorosa e, allora, si rifugia nell’alcol o va a meditare, romantico giovane Foscolo, sulla ‘tomba del poeta’.

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Questo piccolo capolavoro è stato girato in fretta e furia l’estate scorsa. Un mese prima delle riprese Manivel ha scritto una cinquantina di ‘situazioni’ eppoi, arrivato sul posto, ha lasciato che il caso e l’improvvisazione prendessero il sopravvento. E ciò nonostante, il film è di un rigore impressionante. Costruito alternativamente su piani fissi (alcuni dei quali sprigionano un magnetismo alla Kaurismaki) e sui piani sequenza, risponde alle necessità imposte dal film, e nella fattispecie, « al soggetto del film, Rémi, alla sua gestualità e a quel poco di denaro di cui disponevamo ».

Autoprodotto con un budjet ridotto all’osso e una équipe formata da quattro persone (tutti compresi) questa piccola meraviglia è nata grazie ad una videocamera, una pertica, dei microfoni cravatta e la luce di una calda estate mediterranea.

Manivel può vantare un indubbio talento, confortato da un occhio coltivato (ha frequentato il Fresnoy, istituto dedicato alla crezione artistica audiovisiva) e rivolto verso l’Oriente, in particolare ai cineasti taiwanesi Tsai Ming Lian e Hou Hsiao Hsien, o al cinema americano underground del primo Jim Jarmusch: Manivel dice di essersi ispirato a Permanent Vacation , non tanto sul piano artistico ma relativamente al procedimento adottato: «volevo fare un piccolo film modesto, dove non succedono tante cose ma che, tuttavia, rimangono bene in testa».

Locarno 2014, “Sils Maria”: un formidabile trio al femminile

Il film di Olivier Assayas, presentato nella scorsa edizione del festival di Cannes e a Locarno per il premio Excellence award Moet & Chandon a Juliette Binoche, è stato qualificato dalla critica come, tutto sommato, un “buon film”. Nonostante la tiepida accoglienza che gli è stata riservata, non si può non ammirarlo per la grande intelligenza con cui è stato concepito e confezionato e per il sorprendente trio al femminile formato da Juliette Binoche, Kristen Stewart e Chloë Grace Moretz.

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Il soggetto del film è stato suggerito ad Assayas dalla stessa Juliette Binoche e mette in scena la crisi di identità, sia sul piano esistenziale che professionale, di un’attrice quarantenne, Maria Enders, interpretata dalla stessa Binoche che, all’apice del proprio successo, si trova a dover fare i conti con l’età e le giovani leve dello star system hollywoodiano. L’istanza diegetica trova riscontro ideale nella scelta del cast: da una parte troviamo un’acclamata attrice francese, la Binoche, quintessenza del cinema d’autore europeo (premiata a Cannes, Venezia e Berlino, è passata davanti la cinepresa di registi del calibro di Godard, Kieslowski, Haneke, Dumont), dall’altra le due attrici statunitensi Kristen Stewart, portata alla ribalta per la sua interpretazione nella saga Twilight, e Chloë Grace Moretz, nel film l’antieroina Jo-Ann Ellis, che soffierà subdolamente alla Enders/Binoche il ruolo di vedette nella pièce teatrale Maloja Snake, decretando così l’ineluttabile declino della rivale. Quest’ultimo personaggio, interpretato dalla Moretz, è verosimilmente ispirato alla vita e alla carriera della giovane attrice americana, vero e proprio camaleonte artistico e mediatico: si è destreggiata nei ruoli e nei generi più diversi, passando dai film horror e di supereroi alle serie tv fino alle vette del cinema di Scorsese e Tim Burton, sempre, ben inteso, posando per la press people internazionale, in uno spasmodico quanto strategico desiderio di fagocitare lo spazio mediatico.

Ed è proprio questo uno dei tasti su cui preme, in maniera convincente, il film di Olivier Assayas: la carta del successo si gioca sul piano della popolarità mediatica, anche di bassa lega. Memorabile è la sequenza in cui le due attrici comprimarie e il regista della pièce si incontrano per un confronto professionale che, infine, non avrà luogo perché vanificato dall’emergenza dello scandalo amoroso originato dalla relazione segreta tra Jo-Ann e il suo amante: un’orda di paparazzi sorprende la giovane coppia clandestina, mentre Maria assiste alla scena ignorata da tutti e all’ombra del successo suscitato dalla sua rivale.

Ciò che interessa al pubblico è la notizia shock, ad effetto, la rivelazione di relazioni intime illegittime o poco ortodosse. Ed è così che Assayas asseconda il nostro desiderio, per poi sconfessarlo, attraverso un trailer che costituisce un intelligentissimo contrappunto al film. Nel trailer vengono suggeriti una relazione omosessuale tra la matura Maria Enders e la giovane assistente Valentine (“Ciò che ti tiene sveglia la notte è il desiderio per me”) e un atteggiamento sfrontato quanto ostile da parte di Jo-Ann nei confronti di Maria (“Te ne vai come se io non esistessi”, “E allora?”). In realtà ci si accorge, vedendo il film, del travisamento della realtà: le battute pronunciate da Maria e Valentine sono quelle del copione di Maloja Snake mentre, nel secondo caso, la risposta arrogante di Jo-Ann a Maria è di natura professionale e non personale.

Assayas ci invita a squarciare il velo delle apparenze e a decomporre la ‘fiction’ confezionata nel trailer, per scoprire la realtà e complessità delle relazioni umane in un progetto che lui stesso ha definito come “un documentario in forma di fiction”. Ciò che avviene nelle coulisses del mondo dello spettacolo sarà allora più banale di ciò che il trailer dava ad intendere ma, non per questo, meno drammatico e crudele. Secondo questa nuova prospettiva, la porta che si schiude sulle natiche di Valentine dormiente non traduce il desiderio sessuale di Maria ma l’infrazione dell’intimità di una giovane assistente defraudata della propria vita privata per assistere, sostenere e compiacere l’ego di una celebrità, servendo, alternativamente, da confidente e capro espiatorio, fino al crudele epilogo: Valentine sparisce e viene sostituita da una nuova assistente. Non diversamente, Jo-Ann non è la ragazzina ribelle e apparentemente immatura che Maria scopre in rete o in tv, ma una scaltra ‘trasformista’ in grado di interpretare nell’arte come nella vita i ruoli più diversi alternando, a suo vantaggio, sfrontatezza, audacia e aplomb politicamente corretto.

Insomma, un film che merita plausi per la sorprendente interpretazione del trio femminile e la sua capacità di sedurre il pubblico in maniera sapiente, lenta ma efficace come quelle nuvole di Sils Maria che, come un serpente, si avviluppano attorno alle montagne svizzere e si impadroniscono del paesaggio fino a cancellarlo.

Il film uscirà nelle sale francesi il 20 agosto e sarà distribuito in Italia dalla Good Films in date ancora da definire.

Locarno 2014, “Lucy” di Luc Besson e lo spettacolo all’ennesima potenza

Si è inaugurato ufficialmente il 6 di agosto il festival del film di Locarno. L’emozione si poteva toccare con mano in Piazza Grande, gremitissima di gente che ha accolto, trepidante, la voce rauca e la silhouette hitchcockiana di Jean Pierre Leaud, ospite d’onore della serata a cui è stato consegnato il Pardo alla Carriera. Sul palco anche Melanie Griffith, protagonista del cortometraggio Thirst della regista debuttante Rachel McDonald.

Grande attesa anche per Lucy di Luc Besson, con cui la critica non è stata affatto generosa visto che ha bocciato all’unanimità la sua ultima fatica, ed effettivamente non le si puo dare tanto torto. Lucy è uno strano ibrido, a metà tra fantascienza, film d’azione, thriller e, perché no, il documentario naturalista. Senz’altro è originale il tentativo di ibridazione dei generi e apprezzabile lo sforzo di rinnovarsi sempre: “la mia grande paura è di fare sempre lo stesso film ed è una cosa che non mi interessa”, ma l’ambizione alle volte non paga e Lucy è pretenzioso e grossolano nonostante il messaggio cyberspirituale suggerito nell’ultima sequenza: “parliamo sempre di Dio da ma non lo abbiamo visto, in Lucy cerco di spiegare la religione: se possiedi il tempo sei dappertutto, la definizione di Dio è che è ovunque”.

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Nonostante gli evidenti rimandi a film cult come Matrix e 2001: Odissea nello spazio e le citazioni colte (la Creazione di Adamo di Michelangelo), Lucy è un film debole, scarso di intuizione e dei necessari voli dell’immaginazione. Il genere umano utilizza solo il 10% delle potenzialità del proprio cervello: cosa succederebbe se si avesse accesso al 100%? Facile: si potrebbero sgominare orde di malviventi coreani scaraventandoli a destra e a manca o facendoli cadere come mosche con la sola forza del pensiero, guidare in controsenso in rue de Rivoli a Parigi come su una banalissima console Nintendo, viaggiare per il mondo in un nanosecondo comodamente seduti sulla propria poltrona ed, infine, attraversare le epoche dell’umanità (ordinate in maniera rigorosamente cronologica come su un sussidiario delle scuole medie) con un semplice gesto della mano, proprio come se sfogliassimo le pagine di un tablet. Insomma, sorge pure il dubbio che l’intera operazione sia frivola e canzonatoria e non manca, in effetti, qua e là, uno humour grossolano e distensivo: come interpretare altrimenti la summa della conoscenza che Lucy consegna agli emeriti scienziati e che è condensata in una ridicola chiavetta usb?

Se il fascino di una grande opera d’arte deriva anche dalla sua capacità di essere profetica, di anticipare i tempi, è facile misurare il ritardo che sconta il film di Besson rispetto alla tecnologia attuale e ai relativi assunti filosofici.

Se Lucy non è un film visionario, chiaroveggente, avveniristico (tanto che alla fine alla protagonista non resta che fare marcia indietro e andare a visitare la sua antenata) anche sul piano dell’intrigo secondario non funziona, con grande delusione per tutti gli amanti dei film d’azione. Lucy, una ragazza semplice, “fragile”, “nella media”, viene rapita da un gruppo di narcotrafficanti coreani e, per errore, assorbe una droga potentissima che aumenta esponenzialmente la sua attività neuronale. Ben presto diviene invincibile, tanto che nessuno è in grado di contrastarla, neppure i malavitosi asiatici; eppure Besson glieli mette tra i piedi fino alla fine del film facendo credere che possano costituire una reale minaccia: evidentemente ha deciso di ripiegare sull’azione per non affrontare la vera questione in gioco, sicuramente più complessa ma anche più avvincente.

Besson si è affidato alla Industrial Light and Magic di George Lucas per la concezione e realizzazione degli effetti speciali, rivendicando, con questo film, il “controllo e potere assoluto del creatore sulla propria opera”. Tuttavia, pare piuttosto che il demiurgo si sia fatto accecare dai propri superpoteri, confezionando un film che, nonostante il maquillage spettacolare, poco ci dice circa la “trasmissione della conoscenza”, il funzionamento del nostro cervello e il destino del genere umano.

Besson ha dichiarato di volersi sempre rinnovare ed è per questo che, a quest’ora, non è al suo Nikita n.8, o Léon n.12; ecco, speriamo che onori tale proposito anche per Lucy, una è piu che sufficiente.

Tutto sommato, pero, Besson non ha di che preoccuparsi, il suo film sarà un blockbuster: gli strali che la critica gli ha scagliato contro non sono che punture di zanzara per un colossal che si è assicurato la distribuzione in un’ottantina di paesi, primo tra tutti gli Stati Uniti: insomma, più che Dio è Hollywood che è ovunque.