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Il Novecento di Bernardo Bertolucci: cronaca di un serial killer

Forte è la tentazione di leggere l’opera di Bernardo Bertolucci come un puntuale e, quasi didascalico, inveramento delle dinamiche inconsce della psiche, la cui classica elaborazione teorica ci è stata offerta da uno dei più grandi pensatori del Novecento, Sigmund Freud, l’inventore della psicanalisi.
Tale tentazione ermeneutica può ambire allo sdoganamento, se non addirittura ad una naturale legittimazione, quando è lo stesso regista che con grande non-chalance e disinvoltura dichiara pubblicamente che “personalmente, faccio film per motivi terapeutici (1), affermazione che, a primo acchito, parrebbe scaturire da una certa snobberia borghese velata di ironia, degna del miglior Woody Allen, ma che, ad un’attenta lettura dell’opera, si palesa come verità nuda e cruda nella sua disarmante effettività.
Per non parlare poi dell’ossessivo impiego di una terminologia da psicanalizzato immancabile nel lessico bertolucciano,‘masticata’ tanto bene da ridurre il complesso di Edipo ad una sorta di prêt-à-porter:
“Il film (Prima della rivoluzione) risulta allagato da istanze inconsce e sono stati necessari più di dieci anni di analisi perché Prima della rivoluzione diventasse La luna e la zia diventasse la madre” (2);
“Tara è anche una parola molto infantile: “Tara” è come la parola detta da un bambino che comincia a parlare; forse è il modo per dire “cara” alla madre. Non a caso questa città è nata dopo due o tre mesi che avevo iniziato l’analisi, cioè nel momento di grandissimo entusiasmo per la scoperta freudiana” (3);
“In questo senso è un film (La strategia del ragno) che ha l’iter di una terapia di tipo psicanalitico, e Tara è come l’inconscio” (4);
“Il conformista è la storia di me e Godard (…) Io sono Marcello e faccio film fascisti e voglio uccidere Godard che è un rivoluzionario, che fa film rivoluzionari e che fu il mio maestro” (5)
“In Ultimo tango a Parigi, con Jean-Pierre Léaud, “uccido” il cinéphile che sono stato” (6);
“Tanto per cambiare è un film (La tragedia di un uomo ridicolo) sul voyeurismo” (7).
Ora, ciò che rende l’approccio all’opera di Bertolucci irresistibilmente seducente è l’effetto cortocircuitante prodotto da una contraddizione derivante dall’indicazione, da parte del regista, della psicoanalisi come strumento ermeneutico privilegiato della propria opera filmica, e dalla descrizione dei fenomeni inconsci come oggetti ‘dispiegati’ consapevolmente nel testo filmico. In altre parole la visione dei film, nel contesto delle dichiarazioni dell’autore, fa nascere nello spettatore accorto il presentimento, se non la convinzione, che il regista sia colto da megalomania nel momento in cui investe se stesso di un duplice ruolo, quello dello psicanalista e quello del paziente, espungendo definitivamente l’Altro come termine imprescindibile di confronto… Tanto che un ulteriore, aberrante quanto spregiudicato delitto nevrotico, sembra si debba inevitabilmente aggiungere alla lista, ovvero l’ ‘uccisione’ del sommo padre Sigmund Freud, coronamento di una serie di ‘delitti’ per cui Bertolucci si era già ‘costituito’: il padre naturale Attilio, i padri del cinema Pasolini, Godard e Bresson…
Lo spodestamento del padre Freud ha avuto come inevitabile conseguenza lo sguinzagliamento del novello Prometeo errante per l’empireo dell’inconscio, attraverso quegli spazi mitici, senza confini ed orizzonte che il nostro regista ha riconosciuto nel deserto marocchino de Il the nel deserto, nell’Asia de L’Ultimo Imperatore e, naturalmente, nella Bassa Padana di Novecento:
“In Novecento avevo bisogno di un microcosmo che in qualche modo però fosse anche assoluto e quindi diventasse un macrocosmo. La Bassa, se ci stai dentro, non ha confini, non vedi monti, tranne in rarissime giornate estremamente limpide dopo piogge eccezionali, ma in generale la Bassa non ha confini, quindi è un mondo come in espansione, la Bassa è come un fotogramma di pellicola, il fotogramma di un film che non si chiude sopra, in basso, a destra o a sinistra, è un quadro senza cornice, una tela senza la cornice voglio dire (…) non esistono punti di riferimento, se non filari di pioppi (…) se non cime di campanili, voglio dire che la Bassa è quello che volevo io, un microcosmo che desse la sensazione di un universo” (8).
Di quegli spazi e delle sue strutture il nostro Prometeo della celluloide si è dichiarato re e demiurgo ma, la sfida è lanciata, il suo destino è segnato e il ragno, per citare Bertolucci, si ritroverà imprigionato nella stessa ragnatela che ha tessuto.
25 aprile 1945: un atto mancato
Campo della suddetta tenzone sarà il film Novecento, partorito in un momento particolarmente favorevole a Bertolucci, reduce dal successo planetario di Ultimo Tango a Parigi e con a disposizione una valanga di soldi americani per finanziare (a suo dire) un film “rosso”, insomma l’occasione perfetta per scatenare l’ego dell’ enfant maudit. A questo proposito è lo stesso Bertolucci che descrive il proprio stato d’animo in quel momento:
“Ci sono film destinati a materializzare le fantasie infantili di onnipotenza del regista, che hanno tempi di ripresa tanto lunghi da essere paradossali, e di conseguenza problemi di montaggio quasi insolubili a causa della mole di materiale girato” (9).
“Dopo Ultimo tango, potevo fare tutto quello che volevo e mi sono quindi detto: “Farò una sorta di film-ponte tra il cinema hollywoodiano e sovietico, tra la finzione hollywoodiana e il realismo socialista”. Tutto questo mi eccitava enormemente e il film è il risultato di un momento in cui, non mi vergogno a dirlo, ero un po’ megalomane. Volevo fare il film più lungo…” (10).
Ebbene, in questa sede ci piacerebbe dimostrare, con un certo gusto per la provocazione che vogliamo mutuare proprio da Bertolucci, che “le fantasie di onnipotenza” dell’autore nel film sono asservite (in forma inconscia?) esattamente ad un esito a loro contrario, distruttivo; la “megalomania” è foriera di un atto mancato, nell’accezione psicanalitica della vicenda edipica e quindi della reale impossibilità di uccidere il padre, che si condensa nel giorno della Liberazione, il 25 aprile 1945.
Novecento è un film che presenta una fantasmagoria di figure paterne nelle diverse declinazioni del padrone, del patriarca, di una non meglio precisata auctoritas… Non a caso la scelta dei volti dei patriarchi era caduta su due carismatiche icone del cinema hollywoodiano come Burt Lancaster e Sterling Hayden che contribuivano, con la loro notorietà, a proiettare il film in una dimensione mitica.
Con ciascuna di queste figure paterne il regista intrattiene un rapporto conflittuale, violento seppure in forme non sempre facilmente codificabili.
È lo stesso regista che ci mette all’erta sui sentimenti “spuri” che nutre nei confronti della famiglia dei Berlinghieri, i possidenti terrieri:
“Nel parlare della famiglia dei padroni pensavo ad una sorta di condanna morale che avrebbe potuto scaturire nel racconto da una sottile strategia introspettiva, quasi un filtro proustiano. È balzato incoercibile, in primo piano, invece, qualcosa di spurio, pieno di violenza, di spietatezza verso questa famiglia di possidenti. Pensavo che avrei potuto guardare alla realtà sociale dei Berlinghieri attraverso una fascinazione della memoria, senonché ho dovuto fare i conti con l’altro polo dialettico della vicenda, il radicale contrasto di classe con la famiglia proletaria dei Dalcò” (11).
Nel corso della scrittura della sceneggiatura, l’idea di una solipsistica autocondanna morale dei padroni perde piede in quanto la classe dei padroni diviene uno dei poli dinamici di un conflitto che vede come antagonista la famiglia dei Dalcò, i proletari. E’ a questo punto che il piano della storia si intreccia, inscindibilmente, con le istanze personali del regista: il contrasto padrone-proletario attualizza il conflitto padre-figlio secondo le dinamiche proprie del complesso di Edipo. Solo così si può spiegare l’emersione “incoercibile” (perché inconscia), in fase di elaborazione della sceneggiatura, della violenza e spietatezza verso i Berlinghieri.
Tuttavia gli atteggiamenti ostili o traumatici nei confronti della figura padre-padrone sono destinati, come vedremo, a riaffermare puntualmente la sostanziale inviolabilità della medesima: il disperato tentativo di scalzarla o annientarla è sempre votato all’insuccesso in quanto, secondo le dinamiche pulsionali che governano il complesso edipico, il desiderio di morte che nutre il bambino nei confronti del padre è sempre frustrato.
E la riprova di quanto detto viene proprio dallo stesso regista che affibbia al fascista Attila il nome del padre naturale Attilio… In verità, come ci premureremo di dimostrare più avanti, Attila è una delle poche figure maschili che non assurge a ruolo di padre. Perciò la condanna e l’esecuzione capitale del fascista Attila non coincide con l’uccisione dell’‘istanza padre’ ma Bertolucci opera, inconsciamente, un’ingannevole traslazione di valore da una figura all’altra.
Sebbene, come si vedrà, l’irrefrenabile desiderio di morte del padre-padrone si appunta in primis sulla famiglia dei Berlinghieri, è però anche vero che assistiamo in Novecento ad almeno un’occasione in cui l’attualizzazione del complesso di Edipo si rende evidente presso la famiglia dei Dalcò, con esiti però di natura opposta: è l’unica volta in cui il rapporto tra proletario e padrone si ribalta a vantaggio del primo in quanto si costituisce il rapporto padrone-figlio versus proletariato-padre. Si tratta della sequenza in cui Leo Dalcò chiama a sé il nipote in una sorta di cerimonia di investitura dei valori del socialismo.
La scena è girata in una calda luce aranciata attorno alla tavola, luogo, per antonomasia, della comunione del cibo e dei valori di fratellanza. La scena, come testimonia Vittorio Storaro, direttore della fotografia di Novecento, intrattiene un rapporto d’elezione con un dipinto del pittore naïf Gino Covili intitolato Discussione per la formazione della Cooperativa (12) ove i paesani emiliani sono raccolti intorno alla tavola con le mani grandi e i corpi robusti di contadini.
GINO_COVILI_-_Discussione_per_la_formazione_della_cooperativa
Nel film Olmo viene fatto salire sulla tavola e, tra cibi e vivande, si avvicina al nonno sovrastando tutti quanti nella sua missione di depositario dei valori del proletariato e quindi di degno sostituto del patriarca Dalcò. Tuttavia Olmo, in questo frangente, è portatore di un valore opposto, quello della proprietà privata in quanto vuole trattenere per sé la moneta guadagnata per la pesca delle rane: “Il soldo è mio!”. Ma la sua posizione spaziale ‘prevaricante’ nei confronti del padre-nonno è subito negata dall’imposizione di quest’ultimo di cedere all’intera comunità la moneta. Così, per la prima e unica volta nel film, si compie la rivoluzione comunista nell’alveo dell’educazione familiare: la vittoria dei valori della “comunanza” sui valori della proprietà privata.
Il 25 aprile, dice Bertolucci, “è un giorno che include l’intero secolo. Lo abbiamo preso come una sorta di giorno simbolico sul quale è sguinzagliata, sul quale fiorisce questa utopia contadina; e questo giorno include tutti i fatti condizionanti, tutti i fatti necessari” (13).
Il 25 aprile è il giorno della resa dei conti del conflitto che ha visto opporsi, nel film, per mezzo secolo padroni e schiavi, la borghesia agraria e il proletariato. Ma in fin dei conti ciò che si vede sullo schermo è lo scacco del proletariato, dei contadini, dei poveri e degli asserviti, degli stessi partigiani che consegnano le armi alle milizie mentre il padrone restaura il proprio dominio dopo aver subito un improbabile processo popolare, che ha il sapore più di una farsa che di una rivalsa.
E la proposta di Bertolucci di far passare tale disfatta per “utopia contadina” non è convincente poiché un aquilone rosso sventagliato da una parte all’altra di un’aia (con le parole di Bertolucci: “la più grande bandiera rossa mai vista al cinema, ricavata dall’unione di tutte le bandiere rosse che i contadini avevano nascosto durante il fascismo” (14)), seppur non scevro di un certo lirismo, non ha lo spessore e la complessità progettuale di un’utopia. Stesso stucchevole impatto hanno le sequenze preliminari allo sfoderamento dell’immensa bandiera rossa, con l’abbraccio dei proletari della montagna e della pianura, uniti per far trionfare il comunismo: “Hei compagni, è vero che date la terra a chi la lavora?”. Molta parte della critica in effetti si impennò contro lo schematismo ideologico che ravvisava nella sequenza del 25 aprile, condannando la ripresa di un’iconografia, di un’arte di propaganda che si rifaceva alle “peggiori convenzioni del cinema realista-socialista di propaganda così com’era concepito e praticato in URSS nell’epoca staliniana” (15). Un altro esempio di enfatica espressione ideologica è rappresentato dai bozzetti di Ezio Frigerio per il ‘monumento’ al comunismo riproducente la falce e il martello e quindi di nuovo un’iconografia facile, ridondante che non trattiene pressoché nulla delle sperimentazioni fresche e innovative degli ideali avanguardistici del giovane Tatlin, per esempio.
Progetto-comunismo
Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Concluderemo la rassegna con l’ennesimo ‘manifesto’ comunista di cui si fa mentore Olmo il quale, per la prima volta nel film, guarda in macchina andando a cercare gli occhi dello spettatore ‘simulando’ ingenuamente un appello propagandistico… Il carattere retorico del discorso si esaspera ancora di più se pensiamo che la scena rimanda al dipinto di Giuseppe Pelizza da Volpedo, Il Quarto Stato, che fa da sfondo ai titoli di testa del film: ad Olmo spetta il primo e primissimo piano mentre il resto delle comparse costituiscono lo sfondo, la folla, la fiumana dei paesani che invocano giustizia senza farsene davvero i promotori.
Il-Quarto-Stato
Allora, quale è in sostanza l’utopia di Bertolucci? È inesistente. Il processo popolare è finalizzato alla condanna del padrone e non ad un’edificante impalcatura utopica volta alla costituzione di una società diversa…
A meno che si voglia identificare tale utopia con le parole che il vecchio Leo morente rivolge al nipotino Olmo in Atto I: “Sarà questo il socialismo? I ricchi tutti lì a sudare e noi poveri qui sotto un albero a pancia all’aria? È troppo bello per durare”. Ma anche questa è una farsa, un sovvertimento carnascialesco dei rapporti di forza tra padrone e servitore che però è destinato a ristabilire lo statu quo e che richiama, come ha acutamente osservato T.J. Kline, il teatro di stalla, “un genere spontaneo di dramma contadino” in cui “i contadini recitano una commedia in cui l’ordine tradizionale dei ruoli è invertito: l’esempio più ricorrente è il padrone che diventa servitore” (16).
L’impressione è che il desiderio, la pulsione irrefrenabile di rivalsa si consumi tutta in questa galleria di manifesti estetizzanti ma, di fatto, poco efficaci e nel trionfo della musica popolare. Novecento è, infatti, un grande affresco popolare che si richiama al teatro musicale ottocentesco.
La musica è la grande onda che raccoglie le speranze e le delusioni dei contadini e dei proletari e che ne mitizza il cammino storico. Si pensi appunto alla sequenza del 25 aprile in cui il processo al padrone si risolve in una festa popolare o all’esecuzione di Attila rispetto alla quale Tullio Kezich osservava che essa “avviene a suon di musica come in una scampagnata ritualistica: non sembra che i contadini vadano ad uccidere un uomo ma a “segare la vecchia” (17)”. O ancora si ricordi la vicenda del Montanaro che, alla richiesta di altro cibo da parte dei propri figli, risponde: “te la faccio passare io la fame” e incomincia a suonare un piccolo flauto. La musica consola, la musica imprime uno scatto di inebriamento euforico che esorcizza, riscatta una realtà altrimenti amara. Come affermava Robert Bresson nelle sue Notes, seppure con intenti diversi, “la musica è un potente modificatore e persino distruttore del reale, come l’alcol e la droga” (18).
Durante un confronto con Pajetta, il quale riteneva la sequenza finale del 25 aprile “brutta perché storicamente falsa” (19), Bertolucci dichiarò che “nel film il 25 aprile era un tuffo nel futuro e non una ricostruzione storica del passato; non la messa in scena di ciò che era successo ma di ciò che avrebbe potuto succedere” (20).
A nostro modo di vedere qui Bertolucci è vittima di uno ‘scivolamento’: l’espressione “tuffo nel futuro” non s’addice all’utopia che egli pretestuosamente crede di aver fondato, bensì ad un meccanismo tutto inconscio per cui il desiderio di rivalsa dello schiavo-contadino, ovvero del figlio, sul padrone-borghese, ovvero sul padre nella vicenda del complesso di Edipo, è destinato a venir sempre frustrato nella realtà del presente (il desiderio di uccidere il padre da parte del figlio rimane frustrato poiché represso) ma pur tuttavia rigenerato all’infinito (nell’immediato futuro prossimo) in quella che, in termini psicanalitici, è definita compulsione a ripetere.
Tant’è che tale desiderio di morte del padre-padrone, frustrato nella sequenza del 25 aprile, si avvera (ma solo in parte) nella scena finale, al secondo tentativo!
Il film, come si ricorderà, termina con una scena dal sapore ancora una volta comico-farsesco in cui i due protagonisti si azzuffano (inscenando la lotta di classe) per poi morire come i loro antenati, l’uno di vecchiaia adagiato su un palo, l’altro di morte violenta, attraverso il suicidio.
Siamo convinti che questa scena non risponda semplicemente ad una volontà di coerenza formale ma ad una vera e propria necessità di “Liberazione”, di compulsione a ripetere un atto dettato da un desiderio sempre frustrato.
Il suicidio è la formula perfetta che nel film “sublima” questo desiderio frustrato di onnipotenza: il figlio-regista uccide effettivamente il padre ma, poiché tale desiderio è represso dai sensi di colpa, nasconde la mano e ‘inscena’ un suicidio…
Tale dinamica, in realtà, l’avevamo già incontrata nella scena del suicidio di Alfredo Berlinghieri senior.
L’autocondanna morale del padrone che, nelle intenzioni del regista, “avrebbe potuto scaturire nel racconto da una sottile strategia introspettiva” in realtà non ha luogo.
Se si dovessero ricercare le ragioni di tale atto nelle parole di Berlinghieri, si arriverebbe alla conclusione che egli decide di togliersi la vita perché ormai vecchio e impotente: “I giovani ballano, si abbracciano e prima di sera fanno l’amore”, “Questa non è terra per vecchi”, “La dannazione è dentro di noi. La maledizione peggiore sai qual è? (…) E’ quando non ti tira”.
Tali ragioni sono tradite da quanto sostiene Leo quando scopre il cadavere: “Ah, se poteste vedervi, signor Alfredo, non siete mica morto da padrone! Ma che bisogno c’era di slegare tutte le vacche! Per farmi lavorare di più? Forse la verità è che quando un uomo non fa niente per tutta la vita, ha troppo tempo per pensare e, a forza di pensare, diventa rimbambito”.
Le ragioni di Dalcò tradiscono quelle di Berlinghieri. Alfredo, in realtà, è morto da padrone: si è tolto la vita perché ha riconosciuto la propria impotenza e ha slegato le vacche perché con quelle catene si è impiccato…
Dalcò giunge addirittura ad insinuare una sorta di dramma esistenziale. Forse un’autocondanna? In realtà egli si fa portavoce non tanto della coscienza del padrone ma dei desideri di rivalsa del proletariato, travisando la realtà.
Ciò viene dichiarato esplicitamente nella scena successiva ove viene redatto il falso testamento di Alfredo senior in una scena fortemente suggestiva per la predominanza dei toni scuri e di una luce fioca, teatrale, debitrice della migliore pittura romantica ottocentesca italiana.
Ora, i desideri di rivalsa del proletariato si esprimono proprio secondo le modalità inconsce dello spostamento, della condensazione e della sublimazione: le ragioni dell’atto suicida vengono inconsciamente travisate, la morte del padrone è accolta, involontariamente, come una festa (tanto che ci scappa il brindisi), l’impatto emozionale dovuto all’evento viene condensato nel violentissimo sfondamento di un cocomero, una scena da infarto che, non a caso, viene fatta coincidere esattamente con la morte del padrone, annunciata da Irma: “Il padrone è morto!”.
E posto che il cocomero, in qualche modo, funga da sostituto del corpo di Berlinghieri, non è privo di significato che l’autore dell’atto sia proprio Leo che, una volta ‘sventratolo’, con la mano lo penetra strappandone le ‘viscere’ e che addirittura continua a mangiarne anche dopo essere entrato nella stalla e aver scorto il corpo appeso del padrone… Egli continua imperterrito nel suo lavoro, preoccupato che le vacche non fuggano dalla stalla in una scena che raggiunge esiti vicini alla farsa che, nella sua funzione di sovvertimento della realtà, in qualche modo ne esorcizza la portata devastante.
La visione diplopica: il mito e la storia.
Ma procediamo per gradi e, come vorrebbe ogni trattazione ordinata, partiamo dall’inizio del film, se non fosse che anche in questo caso non possiamo venir esauditi in quanto Bertolucci ha concepito entrambi gli atti di cui si compone il film come un amplissimo flash-back della durata di quasi mezzo secolo nella ‘realtà’ della storia narrata e di quasi quattro ore nell’opera filmica.
Questa particolare distribuzione dei blocchi narrativi è singolare nell’economia di un genere cinematografico quale è il mélo cui si può con facilità far assurgere Novecento per le vicende dense di risvolti sentimentali, le scene commoventi e l’uso particolare della musica, tesa ad amplificare la risonanza emotiva delle vicende narrate. C’è da chiedersi il motivo per cui Bertolucci abbia optato per il flash-back invece che far procedere la storia narrata in maniera cronologicamente lineare e optare quindi per un climax ascendente culminante nell’azione drammatica finale.
Ebbene tale scelta ha una grande importanza all’interno del discorso che portiamo avanti in queste pagine.
Infatti le prime scene del film, quelle che anticipano il flash-back, sono il manifesto del film stesso, ovvero la traduzione letterale (conscia o inconscia?) del complesso di Edipo. E il flash-back lunghissimo che segue è il tentativo di dipanare, di sciogliere i moventi, le “condensazioni” implicate nelle suddette scene.
In questo senso il film pare davvero rivestire una funzione terapeutica e dunque è giocoforza che la forma adottata per la propria espressione sia il melodramma che viene comunemente sfruttato anche come forma di psicanalisi di gruppo, per teatralizzare le dinamiche familiari così da tentare di superare, attraverso la finzione scenica, problemi determinati da ciò che viene inconsciamente rimosso.
Ma veniamo ora all’analisi delle prime scene, di quello che potremmo definire un antefatto, non nel senso tradizionale del termine, infatti tali avvenimenti si collocano cronologicamente dopo i fatti narrati nel flash-back, ma in senso genealogico: prima di tutto il motore della storia è un conflitto di forze interiori irrisolto…
La prima scena del film si apre, in campo lungo, su un gregge al pascolo che dà il “la” ad una serie di inquadrature della campagna lavorata dai contadini e dalle bestie che si ispirano alla pittura dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, ed in particolare al Segantini de La raccolta delle patate (1890), per esempio, dove la terra, lavorata dai movimenti euritmici delle donne, si perde all’orizzonte avverando quell’effetto di “cosmo in espansione” tanto ricercato dal regista.
Segantini
Il campo è attraversato da un uomo che incede al ritmo di un canto partigiano. Una volta inoltratosi nella boscaglia, viene sorpreso da un fascista che gli spara una mitragliata di colpi ferendolo a morte. A questo punto partigiani e contadini, per ‘legittima difesa’, si armano di fucili per scovare e contrastare, a guerra ormai conclusa, l’ultimo baluardo nemico. Questo avvenimento, tuttavia, costituisce un pretesto per consumare una vendetta tutta personale, ovvero quella di Leonida-Edipo che prega il partigiano Tigre di consegnargli un fucile poiché anche lui, coi propri mezzi, ha partecipato alla lotta.
Questo è un momento cruciale del film poiché è da qui che si dipartono i due livelli del discorso, il piano della storia per così dire ufficiale e il piano delle istanze personali del regista.
A riprova di quanto detto ci sono le parole di Bertolucci:
“Se torno indietro e rileggo il diario di lavorazione di Novecento, mi accorgo che a un certo punto ho contratto la diplopia…vale a dire che vedevo doppio. Più mi sforzavo a concentrarmi, più vedevo doppio. Precisamente eravamo al nono mese delle riprese” (21).
Una volta consegnato il fucile, Leonida si diparte nettamente dal gruppo di partigiani, il che è sottolineato dalla sorpresa di Tigre che è a capo del gruppetto: “Ma dove vai, Leonida?” e dalla traiettoria disegnata dal cammino del ragazzo, diametralmente opposta a quella degli altri uomini: mentre essi si dirigono verso il fuoco nemico, Leonida-Edipo, dichiarando apertamente i propri intenti: “Voglio uccidere anch’io!”, va incontro ad un destino mitico che lo conduce verso la casa del padre-padrone.
La sequenza che segue è una delle più belle del film per la perfetta compenetrazione delle due istanze di cui dicevamo; perciò si tenterà di farne una lettura doppia, sperimentando una visione diplopica…
Leonida, prima di entrare nella casa padronale, si preoccupa di pulire le scarpe infangate sullo zerbino. Questa azione si può leggere sia come un automatismo, frutto dell’educazione del ragazzo, ma anche come segno di reverenza nei confronti dei luoghi in cui regna la presenza del padre-padrone.
Leonida dunque si intrufola nella casa avvolta in un silenzio interrotto solo dal rintocco di un orologio. Gli ambienti sono poco illuminati, mutuando il sentimento di uno spazio privato, intimo, interiore come quello in cui si consuma il desiderio di morte di Edipo.
Prosegue il suo cammino diretto verso l’ascolto della radiocronaca della liberazione delle città italiane dal dominio nazi-fascista: è lì che si trova il padre-padrone.
Prima di dirigersi lì, però, spilluzzica del formaggio posato su di un vassoio, il che non si addice certo all’azione che di lì a poco verrà compiuta. Questo dettaglio mette in evidenza lo stato di incoscienza di un ragazzino-soldato, cresciuto troppo in fretta, che si sta apprestando a compiere un’azione al di sopra delle sue possibilità e, contemporaneamente, dello stesso Edipo che uccide il padre senza esserne consapevole; di qui la traduzione psicanalitica della vicenda per cui il desiderio della morte del padre è inconscio, represso.
Una volta giunto a destinazione Leonida si para davanti al padre-padrone col suo “fucilone” e gli intima di abdicare ai propri valori proclamando “Viva Stalin!”; in altri termini propone di sostituirsi al padre attraverso i nuovi ideali di cui è portatore, ovvero il comunismo ma, manco a dirlo, l’atto è mancato perché il puntuale intervento della domestica fa sì che i colpi vengano deviati dal vero obiettivo su di un dipinto appeso alla parete (22) .
Il ruolo della domestica in questa sequenza è molto importante in quanto, oltre ad avere una funzione strumentale nel dirottamento dei colpi di fucile, essa crea un rapporto caldo, familiare nella vicenda dei tre. Dal punto di vista della diegesi è chiaro che ella conosce Leonida perché della stessa estrazione sociale; tuttavia la non totale estraneità di Leonida rispetto al luogo in cui si trova, mutuata proprio dall’affettuosità della donna, favorisce un accostamento del ragazzo al padrone nel senso di una maggiore familiarità e quindi di un nesso padre-figlio più stretto…
Come dicevamo più sopra la figura del padre è inviolabile: egli non batte ciglio quando sorprende il ragazzo che imbraccia il fucile, anzi lo schernisce e si prende gioco di lui come si evince in misura ancora maggiore nel confronto tra i due nella stalla ove l’impotenza del ragazzo è riaffermata proprio in virtù della volontà del padre-padrone di assecondare amabilmente la smania di potere di un innocuo pischello. La sequenza termina con Leonida che imbraccia di nuovo il fucile contro il padrone in atto di sparargli e pronuncia la sentenza di morte: “Non ci sono più padroni!”. Non è un caso che la scena seguente, che dà inizio al vertiginoso flash-back, abbia inizio con l’annuncio di una morte (quella di Giuseppe Verdi). Lo si potrebbe interpretare facilmente come un esempio di inconscia traslazione del desiderio di morte dalla figura del padrone Berlinghieri (che nella realtà dei fatti viene risparmiato) a quella di Giuseppe Verdi: viene così soddisfatto il desiderio di morte per interposta persona, anzi sostituendo il padre dell’Opera italiana con il padre-padrone… Solo così si spiega l’annuncio della morte del grande compositore italiano ad opera di Rigoletto, che non solo è ubriaco ma addirittura rutta mentre pronuncia il nome di Verdi. Si rasenta la blasfemia! O meglio, la scena assume nuovamente, come in altre occasioni, i tratti della farsa che, come tutte le pratiche carnascialesche, ha una funzione catartica di liberazione delle pulsioni emozionali-libidiche.
Facciamo un passo indietro. La scena precedente a questa si comporta come controcanto rispetto alla prima poiché qui assistiamo ad una scena di linciaggio ‘riuscita’, operata dalle contadine nei confronti della coppia Attila-Regina.
Ci troviamo dunque di fronte allo stesso meccanismo che abbiamo incontrato nelle due scene finali del film, quella del 25 aprile e la seguente con la zuffa e la morte dei due amici ormai vecchi…
Le istanze pulsionali, frustrate nella scena che vede Leonida mancare il bersaglio, si rinnovano con efferata violenza contro i due fascisti ma, ineluttabilmente, il bersaglio (a discapito di quanto vuol far intendere Bertolucci riguardo al ‘patronimico’ del fascista) viene mancato, in quanto Attila non si può identificare con l’ ‘istanza padre’, che costituisce uno dei fulcri del complesso edipico. Ci apprestiamo a spiegarne il motivo.
Attila, l’anti-Edipo.
Attila incarna, nel film di Bertolucci, il fascismo. Attila è innanzitutto una creatura famelica, un mostro di violenza, un carnefice. Sono diverse le scene in cui questo aspetto emerge in maniera sintetica e, perciò, straordinariamente intensa.
Basti pensare alla scena agghiacciante in cui sventra, con una testata, un gattino che a suo dire è affetto dal sentimentalismo comunista. Lo vediamo prendere la rincorsa e scaricare tutta la sua energia di cane rabbioso sulla creatura innocente mentre all’esterno, nella piazza attigua al covo di fascisti, si celebrano i funerali dei quattro anziani della Casa del Popolo con un ritmo lento, dimesso ove il corteo degli uomini è ripreso con uno stile registico che rimanda al genere documentaristico.
Per ben due volte, nella soffitta assieme a Regina e prima di essere giustiziato, egli si definisce un cane da guardia e una bestia tanto che inizia a grugnire come un porco.
Il truce omicidio di Fabrizio, la cui testa viene fracassata da Attila attraverso un movimento rotatorio centrifugo, è l’ennesimo episodio che segna l’escalation di atrocità compiute dalla coppia di mostri. La scena indugia anche sulla sessualità perversa dei due fascisti che stuprano il bambino e lo costringono ad assistere al loro coito. Le tendenze sadomasochiste dei due sono poi riaffermate più oltre nelle parole che Attila rivolge a Regina: “Gli insulti, le umiliazioni mi danno forza”. Il rapporto tra sessualità e politica, tra perversione sessuale e nazi-fascismo pare una costante della letteratura e del cinema della seconda metà degli anni Settanta e inizi Ottanta. Basti pensare al Pasolini di Salò o al Portiere di notte di Liliana Cavani… Naturalmente è opportuno sottolinearne gli esiti diversi: se in Salò la perversione sessuale diventa la cifra dell’impotenza del potere, nel film della Cavani finisce per costituire una riflessione sulla natura profonda delle pulsioni umane e sul sadomasochismo che le governa. In Novecento la perversione sessuale mutua un significato ancora diverso: denucia la sessualità immatura, infantile di Attila e Regina, la quale, fin dai primi esperimenti sessuali con il cugino Alfredo, manifesta l’incapacità di vivere la sessualità in maniera completa, appagante: ella ne costruisce un surrogato fatto di travestimenti e feticismo.
Una terza scena, l’omicidio della signora Pioppi, ripete esattamente il topos della furia fascista che abbiamo riscontrato nelle scene precedenti: Attila prende la rincorsa e sfonda la porta del salotto.
Degna di nota e, a nostro avviso, geniale soluzione registica è l’identificazione della furia fascista con un movimento al quale si imprime un’accelerazione e che, nella propria crescita esponenziale, diviene incontrollabile. Attila è un distruttore in virtù di una forza che supera la sua volontà. Si ricordi la scena dell’omicidio di Fabrizio e, in particolare, lo stato di trance in cui si trova Attila quando l’atroce giostra della morte, di cui egli è il motore, si arresta…
L’accecamento della ragione si riflette anche nell’inverno tetro ove si compie il macabro rituale. Il paesaggio di rami secchi avvolti nella nebbia riporta alla mente Abbazia in un querceto (1809) (Fig. 5) di Caspar David Friedrich ove il sentimento del sublime si tinge di toni cupi, di un’aurea spettrale, presagio degli orrori futuri.
Friedrich-Labbazia
Il male, di cui Attila si fa promotore, assume una propria autonomia: trionfano il male per il male, la violenza per la violenza senza che vi si possa porre rimedio. Il fascismo è evocato come fenomeno dilagante, come un’epidemia. La violenza fascista assume i connotati di una catastrofe nell’accezione che ne dà Baudrillard:
La crisi è sempre questione di causalità, di squilibrio di cause ed effetti, e trova o meno la sua soluzione in un riaggiustamento delle cause. Per quanto riguarda la catastrofe, invece, sono le cause che si cancellano e diventano illeggibili lasciando il posto a un’intensificazione dei processi nel vuoto. Quello che non ha più della crisi, bensì della catastrofe, è quando il sistema si oltrepassa da sé, quando ha superato i propri fini e dunque non è possibile trovargli alcun rimedio (23).
Attila sembra uscito dal manifesto futurista di Marinetti: egli glorifica la guerra, inneggia al progresso tecnico, esalta “il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno”.
L’orrore della follia fascista si materializza nella scena della rappresaglia condotta da Attila contro i contadini che gli hanno lanciato “merda”.
Egli spara indifferentemente sugli uni o gli altri o, meglio, è sufficiente asserire che il fascismo non esiste o fischiettare l’Internazionale per morire: il confronto, la dialettica, i termini esplicativi del discorso vengono aboliti in favore di una violenza gratuita, indiscriminata: è la dittatura, la “rivoluzione fascista”!
Ma allora “chi sei tu?”, chiede Regina ad Attila. Attila è un anti-Edipo (nell’accezione psicanalitica), ne è l’antagonista. Come Edipo ha i suoi sogni di onnipotenza; come Edipo, desidera ardentemente sostituirsi al padre-padrone; come Edipo, tale tentativo di prevaricazione è votato all’insuccesso.
Per quanto riguarda il primo termine ci si riferisce alla condizione di onnipotenza del bambino che ancora non ha formato una propria identità, la quale si acquisisce solo nel riconoscimento consapevole dell’Altro.
Attila, infatti, è un Narciso che alla bellezza ha sostituito la forza machista.
Prestiamo attenzione alle sue stesse parole mentre fissa la propria figura nello specchio della sartoria ove si sta confezionando la camicia nera: “Mai avere rimpianti, mai paura. Se c’è d’aver paura di una cosa, è solo di se stessi”; quindi: “Non voglio essere elegante io, voglio essere forte!”.
Di lì a poco assisteremo alla performance che lo vedrà impavidamente lanciarsi nella sua stessa immagine allo specchio, proprio come un novello Narciso!
Come si diceva più sopra Attila aspira, come Edipo, a sostituirsi al padre-padrone attraverso una strategia dell’attesa e della sottomissione: pian piano egli si insinua nelle maglie del potere (“Non devi mai mordere la mano che ti nutre finché hai bisogno di nutrimento”). Attila proclama la volontà di sostituzione al padre-padrone in nome della rivoluzione fascista: “Tu, Alfredo Berlinghieri, e tutti gli altri parassiti pagherete il vostro conto per la rivoluzione fascista e ce lo pagherete molto salato, tutti dovranno pagare”. In realtà i propositi sono traditi in quanto egli aspira ad annientare il padre-padrone non nel nome di una rivoluzione ma dell’emulazione, come Edipo che desidera sostituirsi al padre per godere dei suoi privilegi restaurando, in definitiva, lo statu quo. Ciò si evince dalle fantasticherie cui si abbandonano Attila e Regina nella soffitta ove sono reclusi: “Ho diritto ad una casa tutta per me, una casa da vera signora!”, “Te l’immagini: noi due lì, in salotto, in due belle vestaglie di seta, ad ascoltare una trasmissione radiofonica; un servo in livrea entra e ci porta due bicchierini di marsala all’uovo” e quindi: “Marsala i miei coglioni! Io voglio champagne!”
Tale immagine si materializzerà poco tempo dopo nella cucina di villa Pioppi, di cui i due si sono impadroniti in maniera illecita.
Assistiamo ad una vera e propria doppiatura del padre-padrone da parte di Attila nella sequenza in cui questi inneggia al miracolo fascista dei cavalli a vapore che soppiantano i cavalli da tiro: torna prepotentemente alla mente l’immagine dell’entusiastico Giovanni Berlinghieri a bordo dell’aratro meccanico.
Ma, come si è anticipato, il tentativo di prevaricazione del fascista Attila, ovvero l’anti-Edipo, è destinato a fallire: egli viene giustiziato dai contadini comunisti, che si pongono, nei suoi confronti, come antagonisti. È così che assistiamo magicamente, con la fine di Attila, al compimento di due destini all’interno di due prospettive differenti, quella del mito e quella della storia: la dannazione di (anti)-Edipo e la condanna del fascismo.
È singolare la scelta di Bertolucci di ‘affidare’ la cattura e il linciaggio dei fascisti in primis alle donne che, con i loro forconi, disarmano Attila conducendolo, ormai innocuo, dagli altri popolani.
D’altra parte sono proprio le donne che detengono una sorta di ‘primato’ in questa lotta al fascismo. Si pensi alla sequenza in cui Attila, neo fattore, viene irriverentemente schernito da Anita, la maestra profuga, che invita le altre donne a gettargli addosso manciate di grano affinché il “gallo del cortile” ne possa beccare.
Questa azione trova eco nel lancio della “merda” contro lo stesso Attila di cui si fa promotrice la figlia di Anita che, non a caso, porta il nome della madre. Ed è sempre lei che infliggerà il colpo di grazia ad Attila dopo l’inseguimento delle donne.
E così il cerchio si chiude: le donne si identificano nella figura di Anita che, a sua volta, è il simbolo del comunismo militante e, quindi, della lotta contro il fascismo.
In virtù di quanto detto sopra possiamo concludere che Attila non si può identificare nell’istanza-padre, bensì è uno specchio al negativo di Edipo e perciò, non godendo dell’ ‘immunità’ paterna, si può ‘legittimamente’ giustiziare.
Si potrà osservare, a questo punto, che fino ad ora non è ancora stata contemplata la figura della donna-madre, che rappresenta il terzo ed imprescindibile polo della configurazione Edipo-figlio, Laio-padre, Giocasta-madre.
Come si sa la madre, nella dinamica edipica, è oggetto del desiderio inconscio del bambino e diventa la ragione per la quale egli vuole sostituirsi al padre.
Ebbene, in Novecento, le due protagoniste femminili, Ada e Anita, in due tempi diversi, vengono espunte dal film: l’una muore di parto e l’altra fugge dalla casa padronale.
Allora, a ragione di quanto è stato esposto fino ad ora, ci piacerebbe domandare a Bertolucci se la scomparsa delle due donne protagoniste non sia l’ennesima prova della ‘traduzione’ (inconscia?) del complesso di Edipo nel film: il bambino desidera uccidere il padre ma tale desiderio, rimanendo frustrato perché represso, gli impedisce di sostituirsi alla figura paterna, precludendogli perciò anche la conquista della donna-madre…
Conclusioni
Tale approccio ermeneutico all’opera di Bertolucci non vuole certo porsi come esaustivo ma è innegabile che sia ‘fruttifero’ e soprattutto consente di non annegare in quella querelle infinita esplosa all’uscita del film e preoccupata esclusivamente di difendere o condannare il film di Bertolucci in base alla verosimiglianza o meno dei fatti storici narrati e impegnata, nel bene e nel male, a farne un film politico tout-court. Da diverse parti si levarono varie voci che invitarono alla moderazione e a valutare l’opera anche sul piano più strettamente personale.
Ricordo, per esempio, la recensione ‘a caldo’ di Cesare Musatti:
“La prima domanda che mi è venuto di pormi quando ho visto il film è stata: come ha fatto un uomo giovane come Bertolucci, che appartiene alla seconda metà del secolo, a ricostruire la storia di un periodo anteriore alla sua nascita? Certo, ha avuto i documenti, ma questo non basta. In realtà il problema è mal posto, perché Novecento non è un film storico, è un film sul modo in cui Bertolucci vive il nostro passato prossimo. Bertolucci, cioè, non ha voluto fare una rievocazione storica, ma ha rivissuto per conto proprio un’epoca. Dunque non è utile andare a vedere nei particolari se le cose sono più o meno esatte” (24).
In questo senso ci invita a riflettere lo stesso regista con la seguente dichiarazione:
“Ogni cosa che accade in questo film a livello personale è relegata ad avere un significato più ampio, storico. È la storia di un popolo, dei contadini di quest’area geografica, un popolo che sviluppa la propria creatività per costruirsi una storia. Una storia nel senso marxista” (25).
Con grande acutezza T.J.Kline osserva che tale dichiarazione di intenti risulta un po’ confusa dal momento che sembra sia l’aspetto personale ad essere destinato ad avere un impatto più ampio, storico e non il contrario: “Questa inversione involontaria dei termini rivela che le istanze personali del film si sono infatti interposte tra lo spettatore e la storia che avrebbe dovuto essere mostrata” (26).
(1)Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, intervista in occasione del “Convegno pubblico-XII Festival du cinéma méditerranéen, Montpellier, 4 novembre 1990”, riportato in Intervista a Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 52.
(2) Stefano Socci, Bernardo Bertolucci, Editrice Il Castoro, Milano 2003, p. 7.
(3) Citato in Stefano Socci, Bernardo Bertolucci, Editrice Il Castoro, Milano 2003, p. 7-8.
(4) ibidem, p. 8.
(5) ibid., p. 8
(6) ib., p. 9
(7) ib., p. 11
(8) Citato in Guido Conti,“Novecento letterario: riflessioni a margine del film” in Il Novecento di Bernardo Bertolucci nelle immagini di Angelo Novi, Monte Università Parma Editore, Parma 2005, p. 21.
(9) Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri, Milano 1982, p. 131.
(10) Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, intervista in occasione del “Convegno pubblico-XII Festival du cinéma méditerranéen, Montpellier, 4 novembre 1990”, riportato in Intervista a Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 46.
(11) Citato in Sauro Borelli, “Novecento” in In viaggio con Bernardo. Il cinema di Bernardo Bertolucci, a cura di Roberto Campari e Maurizio Schiaretti, Marsilio Editore, Venezia 1994, p. 90.
(12) Storaro-Covili, Il segno di un destino/The sign of a destiny / scritti e fotografie/words and photographs: Vittorio Storaro ; dipinti/paintings: Gino Covili ; poesie/poems: Vico Faggi. Electa, Milano 2005. (Mostra tenuta a Roma nel 2005), p. 37.
(13) Citato in T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci, Gremese Editore, Roma 1994, p. 109.
(14) Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, intervista in occasione del “Convegno pubblico-XII Festival du cinéma méditerranéen, Montpellier, 4 novembre 1990”, riportato in Intervista a Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 46.
(15) Max Tessier, Écran, n° 54, dicembre 1976, recensione riportata in Jean-Claude Mirabella – Pierre Pitiot, Intervista a Bernardo Bertolucci , Gremese Editore, Roma 1999, p. 101.
(16) T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci, Gremese Editore, Roma 1994, pp. 107-118.
(17) Tullio Kezich, in “la Repubblica”, 30 agosto 1976, recensione riportata in Il Novecento di Bernardo Bertolucci nelle immagini di Angelo Novi, Monte Università Parma Editore, Parma 2005, p. 132.
(18) Robert Bresson, Note sul cinematografo, Marsilio Editore, Venezia 1986, p. 81.
(19) Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri, Milano 1982, p. 131
(20) Enzo Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri, Milano 1982, p. 131.
(21) Citato in T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci, Gremese Editore, Roma 1994, pp. 107.
(22) T. J. Kline asserisce in I film di Bernardo Bertolucci, Gremese Editore, Roma 1994, a p. 112 che Leonida “spara accidentalmente a un ritratto del patriarca Alfredo Berlinghieri”. In realtà non ci pare che si abbia modo di scorgere tale ritratto. Comunque, se così fosse, il ritratto si comporterebbe come un feticcio della figura del padre-padrone attivando un meccanismo di traslazione delle pulsioni istintuali e quindi di spostamento del significato.
(23) J. Baudrillard, La trasparenza del Male, SugarCo, Milano 1990, p. 39.
(24) Cesare Musatti, in “la Repubblica”, 30 agosto 1976, riportato in Il Novecento di Bernardo Bertolucci nelle immagini di Angelo Novi, Monte Università Parma Editore, Parma 2005, p. 132-133.
(25) Citato in T. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci, Gremese Editore, Roma 1994, pp. 107.
(26) Ibidem, p. 107

Francis Ford Coppola, Apocalypse Now Redux, 2001

Regia: Francis Ford Coppola
Produttore: Francis Ford Coppola, Kim Aubry per la versione Redux
Sceneggiatura: John Milius, Francis Ford Coppola, Michael Herr
Soggetto: ispirato al romanzo di Joseph Conrad, Heart of darkness (1899)
Co-produttori: Fred Roos, Gray Frederickson e Tom Sternberg
Direttore della fotografia: Vittorio Storaro
Scenografia: Dean Tavoularis, Angelo P. Graham, George Nelson
Montaggio: Richard Marks, Walter Murch, Gerald B. Greenberg e Lisa Fruchtman
Suono: Walter Murch
Musiche: Carmine Coppola e Francis Ford Coppola, Mickey Hart, The End (The Doors), Cavalcata delle Valchirie (Richard Wagner), Suzie Q (Dale Hawkins)
Costumi: Charles E. James
Durata: 196 min
Interpreti: Marlon Brando (colonnello Kurtz), Robert Duvall (tenente-colonnello Kilgore), Martin Sheen (il capitano Willard), Frederic Forrest (Chef), Albert Hall (Chief), Sam Bottoms (Lance), Laurence Fishburne (Clean), Dennis Hopper (il fotogiornalista), G.D. Spradlin (il generale), Harrison Ford (il colonnello), Jerry Ziesmer (il civile), Scott Glenn (Colby), Chyntia Wood (Playmate dell’anno), Colleen Camp (Playmate Miss Maggio), Linda Carpenter (Playmate “Miss Agosto”), Christian Marquand (Hubert de Marais), Aurore Clément (Roxanne Serrault), Michel Pitton (Philippe de Marais), Franck Villard (Gaston de Marais), David Olivier (Christian de Marais), Chrystel Le Pelletier (Claudine), Robert Julian (le tuteur), Yvon Le Seaux (le sergent Lefevre), Roman Coppola (Francis de Marais), Giancarlo Coppola (Gilles de Marais).
Premi e Festival: Apocalypse Now: Palma d’Oro e Premio FIPRESCI al Festival Internazionale del Film di Cannes nel 1979; Golden Globe per Miglior regia, Miglior attore non protagonista a Robert Duvall, Miglior colonna sonora nel 1980; Premio Oscar per Miglior fotografia a Vittorio Storaro e Miglior sonoro a Walter Murch nel 1980; Premio BAFTA per Miglior regia e Miglior attore non professionista a Robert Duvall nel 1980; David Donatello per Miglior regista straniero nel 1980. Apocalypse Now Redux: Prima Mondiale al Festival Internazionale del Film di Cannes nel 2001.
Breve sinossi: È il 1969. Il capitano Willard è a Saigon, mentre imperversa la guerra del Vietnam, per compiere una missione speciale: egli dovrà risalire il fiume Nung, nella giungla cambogiana, per scovare il colonnello Kurtz, apparentemente impazzito, affrancatosi dall’esercito per costituire un proprio impero dove è adorato da una folta schiera di indigeni e di protetti, una sorta di armata personale ostile al potere americano. Una volta insidiatosi tra le sue file dovrà porre fine al suo comando uccidendolo senza scrupoli. Inizia così per il capitano Willard un vero e proprio viaggio nell’inferno della guerra del Vietnam, punteggiato dall’incontro di personaggi surreali come il tenente colonnello Kilgore che, sulle note della Cavalcata delle Valchirie di Wagner, distrugge col napalm ettari di foreste e villaggi abitati da civili vietnamiti, mentre invita i “suoi” a fare surf tra le granate che esplodono sul campo di battaglia. Una volta lasciato il “ciclope” Kilgore, Willard e il suo equipaggio proseguono il loro viaggio mitico attraverso una guerra rock and roll e psichedelica, sempre più folle ed insensata: playmates venute dal cielo si esibiscono per “ritemprare” lo spirito dei soldati, mentre antichi coloni francesi, impiantati nell’angolo più remoto della giungla, rimembrano gli anni d’oro della colonizzazione francese in Indocina. Una volta superato l’ultimo baluardo militare americano, Willard incontrerà finalmente il colonnello Kurtz, già da tempo ammalato ed in cerca di colui al quale affidare le sue memorie e il suo pensiero, fatto di umanità ed orrore, fierezza e crudeltà, saggezza e follia… Un sacrificio e un rituale cruenti suggelleranno la morte di Kurtz e la “rinascita” di Willard.
Apocalypse Now Redux fu presentato fuori concorso a Cannes nel 2001 in una veste rinnovata rispetto alla versione originale del 1979, trattandosi di una pellicola più lunga di 53 minuti valorizzata da un restyling al Technicolor e da un potenziamento sonoro ottenuto grazie al missaggio in Dolby Digital Sorround.
É significativo riconoscere come alcune dichiarazioni di Coppola, a proposito dell’imminente uscita del film nel 1979, potessero rivelarsi profetiche vent’anni dopo, alla luce degli eventi che si sarebbero prodotti esattamente quattro mesi dopo la presentazione del film a Cannes, l’11 maggio 2001, ovvero l’attentato al World Trade Center di New York dell’11 settembre. Fotografare questi due avvenimenti e metterli in relazione consente di cogliere uno snodo fondamentale all’interno dello “zeitgeist” dell’epoca e di gettar luce sullo statuto dell’immagine nel cinema di Coppola.
Nel lontano, ma forse non troppo, 1979 il regista (prima di essere incensato con la Palma d’Oro), in un’intervista esclusiva (1), dichiarava che con Apocalypse Now aveva voluto combinare un film “catastrofico” con un soggetto difficile di matrice filosofica, sottolineandone il potere sociale e affermando che un film spettacolare e un feuilleton popolare alla televisione potevano creare un governo e mantenerlo al potere. In questo senso Apocalypse Now manifestava una vocazione politica: «dà al pubblico esattamente ciò che vuole ma con un obiettivo che non suppone […] Cerco di fare un film che la gente voglia andare a vedere, e tuttavia li porterò là dove si sentiranno a disagio […]. Non so cosa capiterà con questo film tanto esce dall’ordinario […] per l’idea di Bene e di Male che vi è sottesa […]. Tratta delle persone e della morale […]. Le persone si battono fino alla morte per la loro idea di Bene e di Male […]. Si comincia a riflettere e a chiedersi se tutto ciò è veramente Bene o Male, vero o falso […]. Forse la morale è relativa, la morale è come la gravità, qui appare logica ma laggiù non ha più senso. Laggiù è la guerra».
Se caliamo tali dichiarazioni nello scenario “apocalittico” (anche nel senso più triviale del termine) dell’11 settembre, non potremo disconoscerne la grande attualità: l’impatto dei due aerei di linea sulle torri del WTC e il loro conseguente crollo fu prima di tutto un grande spettacolo mediatico e, per parafrasare le parole di Coppola citate sopra, di carattere catastrofico al quale il “pubblico” era preparato e che forse attendeva con l’ansia famelica delle premonizioni che non si sono ancora avverate, premonizioni alimentate dalla propaganda e dall’azione strategica degli apparati di sicurezza nazionale. L’11 settembre è stato l’occasione per perpetrare una guerra in nome del Bene contro il Male, materializzatosi nel terrorismo di matrice islamica, nuova minaccia cui far fronte, anche coi mezzi della guerra preventiva.
La compresenza del film di Coppola e dell’attentato del WTC, in quel fatidico inizio di terzo millennio, offre anche l’occasione per evidenziare l’asse del passaggio progressivo da una concezione dominante di una minaccia all’altra, per la cui elaborazione si è mobilitata l’industria americana della produzione strategica e l’industria dell’immagine: alla minaccia sovietico-comunista cui rimanda Apocalypse Now, in cui la guerra del Vietnam è presentata come «esperienza collettiva del male nel nome della grande strategia della lotta contro il comunismo» (2), passando attraverso quella rappresentata da Saddam Hussein, succede quella delle «reti clandestine» (3), in primis il terrorismo di matrice islamica.
Con l’11 settembre tale minaccia si è verificata di fatto (4) , e lo schermo della fiction che si frapponeva tra il pubblico e le sue paure, si è dissolto. Ciò ha determinato la sensazione, da parte della popolazione, di essere in un film, di non saper più distinguere il vero dal falso. Anche la morale, nella pretesa identificazione del Male con un nemico “esterno”, ha cominciato a vacillare nel momento in cui si è riconosciuto che l’ “invenzione” di un Asse del Male coincideva con i desideri dell’industria degli armamenti, delle agenzie d’intelligence, del cosiddetto “complesso militare-industriale”. L’11 settembre la guerra non è stata combattuta oltremare, in un Vietnam esotico ed ostile, ma la sua follia mortifera si è prodotta in seno alla più grande potenza mondiale e, secondo l’ipotesi più estrema, in nome di una morale fondata sul diritto militare invece che su quello civile e che, pur di «proteggere il modo di vita americano» (5), ha condotto all’immolazione di una parte della popolazione, in un gioco auto-sacrificale atto a rifondare l’identità della nazione.
Anche in Apocalypse Now è presente questo aspetto auto-sacrificale e rifondativo nell’ultima sequenza del film, in cui Kurtz si fa ammazzare per mano di Willard. Il suo sacrificio “rituale” determina la “rinascita” del capitano, come si evince nella scena simbolica in cui Willard emerge dalle acque, con il volto trasfigurato in una maschera di guerriero: l’assassino Kurtz («Io ho visto l’orrore, l’orrore che tu hai visto. Ma non hai il diritto di chiamarmi assassino. Hai il diritto di uccidermi, hai il diritto di fare ciò. Ma non hai il diritto di giudicarmi») trova il proprio riscatto attraverso il sacrificio di sé ed è questo l’inquietante messaggio di salvezza di cui Willard, l’ “uomo nuovo”, si fa ambasciatore. Il sacrificio di sé diventa, dunque, il presupposto imprescindibile per il proprio riscatto e per rifondare e perpetuare la propria identità o memoria.

Captain_Willard
Tale messaggio è rintracciabile nel film su scala più ampia e coinvolge, questa volta, non la sfera individuale-simbolica ma il corpo dell’esercito, costituendo lo spunto per la trama, ovvero la spedizione segreta del capitano Willard in Cambogia con l’obiettivo di uccidere il colonnello Kurtz, uno che ha scelto un’altra via, un altro linguaggio, un’altra Legge rispetto al diritto, alla disciplina e all’ordine militare. Il colonnello Kurtz, al pari del tenente-colonnello Kilgore, semina morte e distruzione «senza metodo» ma, a differenza di quest’ultimo, si è affrancato dall’esercito, divenendo un dissidente, una “cellula impazzita”, costituendo non tanto una minaccia per i contingenti militari americani quanto per la credibilità dell’immagine della guerra in patria. Il suo sacrificio è indispensabile al fine di preservare tale immagine e continuare a dirigere l’opinione pubblica.
É in questo senso che Coppola ci offre una chiave di lettura per interpretare la guerra imperialista condotta dagli Stati Uniti: essa fonda la propria legittimità su un atto auto-sacrificale ed è, prima di tutto, una guerra “narcisistica”, combattuta contro un nemico interno, che assume le sembianze del doppio. Sono numerosissime le occasioni in cui la figura simbolica del doppio viene evocata e cristallizza il senso del film. Oltre alla specularità delle figure Kilgore/Kurtz cui si è accennato, la prima scena del film ne racchiude il senso: Willard è in una stanza d’albergo a Saigon in attesa di attendere gli ordini della missione cui è stato preposto. In uno stato allucinato osserva la sua immagine allo specchio e contro di essa sferra un pugno ferendosi la mano e cospargendo inavvertitamente il proprio corpo di sangue. Il fantasma del doppio s’impossessa anche dell’identità del nemico che viene nominato con l’appellativo Charlie. Il nomignolo affibbiatogli, per la sua connotazione heimlich, testimonia certamente di un’operazione strategica volta al suo “addomesticamento” per esorcizzarne l’alterità insondabile ma, allo stesso tempo, Charlie è, in Heart of Darkness di Conrad, al quale Apocalypse Now è ispirato, il nome proprio del capitano Marlow, i.e. Willard nel film. Ancora, nella scena della piantagione francese, assente nella versione del 1979 e aggiunta integralmente nella versione Redux, Roxanne rivela a Willard che dentro di lui risiedono contemporaneamente l’amore e l’odio.
Le immagini dell’11 settembre, nella loro fulgida e irrefutabile evidenza, sono il manifesto della sindrome del nemico interiore e della lotta col doppio: ciò cui, all’unanimità, abbiamo assistito è stato lo spettacolo dello schianto di due aerei di linea americani contro i simboli dell’impero economico e finanziario americano: le torri gemelle del WTC. Il nemico (in quanto minaccia esterna) era, di fatto, invisibile.
Non diversamente in Apocalypse Now il nemico “dichiarato”, il Viet Cong, è invisibile: gli unici vietnamiti o cambogiani che vediamo sono dei civili, fantasmatiche comparse che scorrono sullo sfondo dello schermo o vittime inermi colte in disperati tentativi di autodifesa. L’“assenza” del nemico è la dichiarazione, da parte del regista, che la guerra del Vietnam è stata prima di tutto una guerra di conquista imperialista.
Tuttavia tale guerra è stata combattuta e alla fine vinta dal Vietnam del Nord e dalle forze del Fronte di Liberazione Nazionale con il sacrificio di oltre tre milioni di morti tra vietnamiti, cambogiani e laotiani. Ma Coppola ha rinunciato a descrivere o ad addentrarsi nell’alterità radicale dei combattenti dell’altro fronte, circoscrivendo il mirabolante viaggio di Willard al palcoscenico dell’isteria americana, all’imagerie che ruota attorno alla guerra del Vietnam, con gli armamenti, gli elicotteri, la musica rock, le droghe e la psichedelia. Coppola ha scelto di rimanere al di qua del “fronte” e in questo risiede la problematicità del film.
Nelle intenzioni del regista Apocalypse Now non doveva essere un film documentario ma «su come l’America fa le cose, un grande show» (6). Purtuttavia l’impressione è che, nonostante la volontà di denuncia, difficilmente Apocalypse Now si possa considerare un film antimilitarista, rischiando semmai di divenire un’ennesima apologia della guerra (7). Quasi interamente finanziato dallo stesso Coppola che, dopo il successo de Il Padrino (The Godfather, 1972) e Il Padrino-Parte II (The Godfather: Part II, 1974) aveva costituito un vero e proprio impero, capace di concorrere con gli studios di Hollywood in quanto a capacità produttive, il film doveva innanzitutto soddisfare esigenze da botteghino: «Ci ho messo dentro di tutto, sesso, violenza, humour. È volgare, puro intrattenimento, eccitante, pieno di azione. Volevo che le persone venissero a vederlo» (8). Dunque la disposizione del regista nei confronti della sua opera era molto simile a quella di un impresario dello spettacolo. La follia devastatrice della guerra, raccontata attraverso un linguaggio surreale e attingendo al repertorio del film di genere, rischia di essere presentata “benignamente” come esperienza euforica, viaggio allucinato, piuttosto che teatro di atrocità e crudeltà, piattaforma ineluttabile del dramma umano.
Per cui è lecito domandarsi se Apocalypse Now non si allinei in un certo qual modo alla produzione hollywoodiana, fortemente embricata al potere istituzionale, con esso costantemente in dialogo e spesso volta a sostanziarne il pensiero strategico attraverso «una descrizione della guerra americana che non rende conto della sua realtà ma che la completa rendendola accettabile, rendendo eufemistica la sua terribile efficacia tecnologica e strategica» (9). Sebbene Coppola abbia affermato a più riprese che Apocalypse Now non fosse un film strettamente sul Vietnam (ma esperienza interiore, viaggio allegorico-filosofico ove l’uomo si confronta con le proprie paure), ciò non toglie che il Vietnam c’è e il rischio è stato quello di non render conto della sua realtà ma di farla evaporare nel mito e di «creare una storia alternativa immaginata e trasformata in spettacolo collettivo che costituisce un universo mentale ove l’attualità strategica è giocata o rigiocata, dove può essere dibattuta e perfezionata» (10) .
Il pensiero strategico, d’altra parte, gioca ininterrottamente sulla ibridazione, l’oscillazione, la compenetrazione tra realtà e finzione, realtà e immagine cinematografica. Apocalypse Now e l’attentato dell’11 settembre sono due eventi che testimoniano dell’ambivalenza di realtà e finzione. L’attentato dell’11 settembre fu l’avveramento di un film catastrofico: l’avvenimento in cui si dava concretezza e densità all’immagine cinematografica.
D’altro canto, come in un destino incrociato, le vicende di produzione di Apocalypse Now, film di denuncia sulla guerra in Vietnam, testimoniano della “partecipazione” di Coppola ad una guerra reale, quella condotta dal presidente filippino Marcos contro i ribelli comunisti rifugiatisi nelle isole meridionali delle Filippine (11). Poiché la U.S. Army si rifiutò di collaborare alla produzione del film, Coppola decise di girarlo nelle Filippine e trovò in Marcos un alleato, a sua volta sostenuto dalla CIA e dallo State Department. Per girare alcune scene, tra cui quelle in elicottero, Coppola affittò i mezzi filippini. Sul set era sempre presente un generale delle forze aeree che, nell’evenienza, avrebbe sottratto (come di fatto avvenne) i velivoli a Coppola per andare a combattere la guerra contro i ribelli. Portando il discorso all’estremo si potrebbe dire che, per rendere possibile la realizzazione di Apocalypse Now, Coppola foraggiò simbolicamente, seppur indirettamente, una vera guerra anticomunista.
Egli affermò che il fatto di essere un regista, di autoprodurre un’opera dal budget stellare di 13 milioni di dollari (cifra che aumentò notevolmente in corso di produzione fino a raggiungere il tetto dei 30 milioni di dollari) e di essere lontano in un paese orientale, lo faceva sentire in uno stato simile a quello di Kurtz (12). Ebbene, se trasferiamo la metafora sul piano della produzione cinematografica, potremmo paragonare Coppola al produttore dispotico di una Piccola Hollywood di cui egli fu il meneur du jeu e che si contrapponeva alla Grande Hollywood ma che di questa condivideva molti aspetti, tra cui il cô spettacolare, megalomane, estetizzante e anestetizzante…
di Rebecca Amanda Snyder
(1) L. Bloch-Morhange, D. Alper, Entretien avec Francis Ford Coppola in «Cahiers du cinéma», Juillet-Août 1979,
pp. 7-24
(2) J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, Autrement Frontières, Paris 2010, p. 35
(3) Ibidem
(4) J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, cit., p. 133
(5) Cit. in J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, cit. p. 132. Si tratta di una battuta pronunciata nel film Swordfish (Dominic Sena, 2001), uscito in sala un mese prima dell’11 settembre, dal capo di una cellula nera dell’FBI impegnata in una guerra segreta volta alla perpetrazione di attentati terroristici contro fittizi «nemici d’America» per legittimare la guerra e «proteggere il modo di vita americano».
(6) Sono le parole rivolte a Vittorio Storaro sul set di Apocalypse Now nel documentario Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse, realizzato nel 1991da F. Bahr e G Hickenlooper a partire dal materiale amatoriale girato da Eleonor Coppola sul set del film
(7) C. Zimmer, «Apocalypse Now» ou la fuite dans le symbole in «Manière de voir 88», Août-Septembre 2006, pp. 36-39, consultabile anche sul web al sito: http://www.monde-diplomatique.fr/mav/88/ZIMMER/13691
(8) Dal documentario Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse, cit.
(9) J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, cit., p. 5
(10) Ivi, p. 9
(11) Dal documentario Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse, cit.
(12) Ibidem

Francis Ford Coppola, Cotton Club (1984)

Sceneggiatura: William Kennedy, Francis Coppola e Mario Puzo, ispirata al libro fotografico: The Cotton Club: a Pictorial and Social History of the Most Famous Symbol of the Jazz Era, di Jim Haskins
Fotografia (Technicolor): Stephen Goldblatt
Montaggio: Barry Malkin, Robert Q. Lovett
Suono: Edward Beyer
Scenografia: Richard Sylbert
Coreografia: Michael Smuin e Hanry Le Tang
Musica: John Barry, Bob Wilber (brani originali di Duke Ellington e Cab Calloway)
Produzione: Robert Evans per la Totally Indipendent Ltd.
Durata: 128’
Interpreti: Richard Gere (Dixie Dwyer), Nicholas Cage (Vincent ‘Mad Dog’ Dwyer), Gwen Verdon (mamma Dwyer), Gregory Hines (Sandman Williams), Maurice Hines (Clay Williams), James Remar ( Dutch Schultz), Julian Beck (Sol Weinstein), John Ryan (Joe Flynn), Diane Lane (Vera Cicero), Lonette McKee (Lila Rose Oliver), Bob Hoskins (Owney Madden), Fred Gwynne (Frenchy), Allen Garfield (Abbadabba Berman), Larry Fishburne (Bumpy Rhodes), Tom Waits (Irving Stark), Joe D’Alessandro (Lucky Luciano), Zane Mark (Duke Ellington), Larry Marshall (Cab Calloway), Gregory Rozakis (Charlie Chaplin), Vincent Jerosa (James Cagney).
Breve sinossi: Nel mitico locale di Harlem, il Cotton Club, in un arco di tempo che va dal 1928 al 1931, si avvicendano le vite di gangster, ballerini, cantanti, personaggi noti e meno noti che assistono agli spettacoli memorabili di Duke Ellington, Cab Calloway e altri artisti di fama mondiale. È l’era del proibizionismo e gruppi di gangster rivali si contendono il mercato illegale degli alcolici. Il famigerato gangster Dutch Schultz s’impone per efferatezza ma presto sconterà il suo debito con la morte, fatto fuori dai sicari di Lucky Luciano, alleatosi con Owney Madden, il proprietario del Cotton Club. La morte del gangster consentirà all’amante Vera Cicero di coronare l’amore per il trombettista Dixie Dwyer che nel frattempo farà carriera ad Hollywood interpretando ruoli di capimafia. Parallelamente si sviluppano le vicende della cantante mulatta Lila Rose Oliver e del ballerino di tip-tap nero Sandman Williams, entrambi determinati a sfondare nel mondo dello spettacolo anche a discapito degli affetti famigliari… Intorno a loro si muovono le vite di madri di famiglia, scugnizzi e scagnozzi sfortunati come il fratello di Dixie, Vincent “Mad Dog” Dwyer, destinato a finire trivellato di colpi come il suo capo, Dutch Schultz.
Sullo sfondo delle vicende narrate è la sottile segregazione tra bianchi e neri che vuole che sul palco del Cotton Club si esibiscano i neri mentre il pubblico sia costituito di soli bianchi.
In Cotton Club la componente meta-cinematografica informa tutta la pellicola e di questa Coppola si avvale per perpetrare un’operazione di sovvertimento delle logiche di produzione del sistema hollywoodiano. Cotton Club, a conti fatti, è un piano diabolico che ostenta buon viso a cattivo gioco. Con una metafora si potrebbe dire che è Coppola il vero ed abile gangster del film. Paradossalmente, sebbene si tratti di un gangster movie, sembra che egli ne voglia negare la legittimità erodendolo dall’interno. Basti pensare al film nel film, Mob Boss, il cui protagonista è interpretato da Dixie Dwyer, che del gangster non ha nulla se non, forse, la controfigura… Dixie è una mosca bianca non solo tra i musicisti neri coi quali si abbandona a informali jazz sessions ma anche per quella nota sentimental-malinconica, dal sapore di soap opera, che sortisce un effetto stridente in diverse occasioni: nel dialogo col fratello Vincent “Mad Dog” Dwyer alle prese con il rapimento di Frenchy, nell’intimità con Vera, e nel diverbio con Dutch nel locale della ragazza. Dixie si lancia in polpettoni moralisti che servono solo a sospendere temporaneamente l’azione producendo un effetto straniante, come se l’attore avesse sbagliato battuta e il suo interlocutore non sapesse come proseguire: «Cosa fai Dutch? Tu fai del male a tutti. Vuoi strapparle il cuore? E intrometterti sempre nella vita degli altri? Per l’amor di Dio, credi di essere Gengis Khan? Tu trasformi la vita delle persone in merda. Quanti ancora ne vuoi ammazzare?» (1). Ancora più disarmante è la confidenza che Dixie fa a Dutch, asserendo che tutto ciò che ha imparato sui gangster lo deve proprio a lui, spodestando così il più cattivo dei cattivi del titolo di capomafia. A tale operazione contribuisce anche la caratterizzazione del rapporto di Dutch con la moglie che lo tratta come uno zimbello, ridicolizzandolo attraverso le scenate di gelosia e dunque proiettandone la figura sullo sfondo della farsa. Che dire poi dell’improbabile coppia Owney/Frenchy? Paiono una rivisitazione di Stanlio e Ollio nelle due gag che li vedono protagonisti: quella in cui urinano serenamente nel bagno ammettendo l’impossibilità di vivere l’uno senza l’altro e quella veramente esilarante “dell’orologio” che segue il rilascio di Frenchy, rapito da “Mad Dog”.
Sgomberato il campo dai veri gangster, Coppola imbraccia il mitra e trivella di colpi una produzione da 50 milioni di dollari, aggirando sottilmente il “proibizionismo hollywoodiano”, vero bersaglio di questa operazione cinematografica: «Andare a proporre un film in America è come andare davanti ad una commissione dei Soviet. Guai se non rientri nelle categorie di ‘prodotto’ previste. Ormai in America o fai delle commedie demenziali o delle space operas, o delle soap operas. Dopo di che puoi usare lo stile e il linguaggio che vuoi, purché ci sia del naturalismo. Se provi ad uscire da questi schemi è la fine» (2). Ciò che importa è fare sold out al botteghino, ovvero ricevere i plausi del pubblico pagante come quelli che al vero inizio del film sono rivolti alle ballerine “alte, ambrate e fantastiche” che danzano sulla pista del Cotton Club, e ai titoli di testa, in cui i nomi degli attori e della produzione sono scritti obliquamente, in omaggio agli anni Trenta, e in un formato tridimensionale, tronfi di una gloria che deriva loro dall’essere assurti allo star system. Con una simmetria impeccabile, che non può non essere il frutto di un piano finemente premeditato, alla fine del film si ripete lo scroscio di applausi che suggella l’happy end e la straordinaria compenetrazione della dimensione reale (fittizia) con quella fantastica veicolata dal musical che in questa ultima parte diviene appunto debordante, eccessivo, contaminante. La realtà diviene un palcoscenico in cui le diverse trame e fili del film pervengono ad una risoluzione. E tra coloro che applaudono assume un ruolo chiave un uomo che ha probabilmente dormito per l’intera durata dello spettacolo e, una volta destatosi per il fragore delle mani battenti, preso nel vortice dell’euforia degli astanti, inizia ad applaudire pure lui… Senza cognizione di causa? Perché richiamato dal gregge? L’interrogativo è davvero cruciale per comprendere le ragioni che sottendono le intenzioni del regista.
Nonostante l’impeccabile struttura della trama, costruita sulle simmetrie dei plots delle coppie di bianchi e neri (Vera/Dixie, Angelina/Sandman, Mad Dog/Clay, Owney-Frenchy/Dutch) e la musica e le performance spettacolari che rendono gloria alla memoria del locale di Harlem, la maggior parte della critica ha riconosciuto che l’operazione coppoliana è stata fallimentare, non solo rispetto agli incassi ma anche per un «congelamento, questo rigor mortis di un progetto intellettualistico e cerebrale» per cui Cotton Club risulterebbe «raffreddato o meglio “freddato” […] da un’intelligenza da computer» (3). D’altra parte la cerebralità dell’operazione è apertamente dichiarata nella scena che segue il montage sequence dedicato alla carriera di Dixie nel cinema e alla grande depressione del 1929: Frances, la moglie di Dutch, sta completando un cruciverba inserendo la parola gangster, che non a caso s’incrocia con le parole rids e rages a descrivere il clima dei crime movies. Non solo, altri incroci di parole descrivono la costellazione dei significati entro cui si muovono le gang rivali impegnate nel traffico illecito di alcolici durante il proibizionismo (spar, paid, unite, beer, war) e l’ambiente ricco e raffinato della malavita (spas, oleos, chics).
4._Il_cruciverba_sul_gangster_film
Coppola ammicca giocosamente allo spettatore rivelandogli le regole dello spettacolo e importunandolo perché gli impedisce di abbandonarsi alla trama che ha confezionato appositamente per il piacere dell’entertainment. Lo mette puntualmente di fronte alla sua posizione di spettatore come nello straordinario «tip tap luttuoso» (4) in cui si esibisce Sandman Williams che, facendo le veci di un rullo di tamburi, scandisce i passi compiuti dai sicari di Lucky Luciano, il parvenue della nuova scena mafiosa, che segneranno la fine del vecchio boss, Dutch.
2._Lucky_Luciano
La performance di Sandman culmina nell’omicidio ‘trionfale’ di Dutch, suggellato dai soliti plausi dello spettatore in/out, fittizio/reale che, dietro il pretesto della finzione e della mendacità del simulacro, fonda la glorificazione e sacralizzazione della violenza, motivo ispiratore di Apocalypse Now (id., 1979). La spettacolarizzazione della violenza conduce alla sua inevitabile (e supposta) innocuità. Ciò viene ribadito in un’altra scena, certo più scanzonata, ma ugualmente potente. Si tratta del diverbio danzante tra Dixie e Vera al Bamville Club. I due si schiaffeggiano mentre ballano sulla pista, circondati da altre coppie, ma nessuno prende sul serio l’evento, anzi viene interpretato come un nuovo ballo, magari di ascendenza dadaista, che viene presto emulato! Così, per il semplice fatto di avvenire sullo stage, al cinema o a teatro, la realtà viene travisata, edulcorata, riaffermando il potere del simulacro.
Cotton Club è un film forse troppo bello, leccato, spasmodicamente filologico (basti pensare ai mascherini ad aride o a tendina che separano una scena dall’altra) ma anche “frankensteiniano”, non solo per la presenza fisica e vocale di Fred Gwynne, ma soprattutto per la maniacale, “fanatica” ricostruzione degli ambienti e dei personaggi che a cavallo degli anni Venti e Trenta popolavano il noto locale di Harlem e che suggeriscono a Coppola la sfilata dei sosia di Duke Ellington, di Cab Calloway, di Armstrong, di Charlie Chaplin, di Gloria Swanson e così via. Così il palcoscenico e il backstage del Cotton Club si trasformano in un sovraffollato museo delle cere che reca con sé un indelebile marchio mortifero, una delle cifre del cinema di Coppola che acquisirà sostanza concreta nel film Dracula di Bram Stocker (Bram Stocker’s Dracula, 1992).
Sebbene Coppola affidi, apparentemente, la buona riuscita del film ai godibilissimi spettacoli musicali e di danza e all’avvincente e ben orchestrato arrangiamento dei plots e subplots narrativi, tuttavia ne mina, dall’interno, il successo commerciale attraverso diversi accorgimenti: privando il personaggio del gangster di un’anima, nonché appiattendo tutti i comprimari attraverso un’estenuata estetizzazione o un gusto di tipo macchiettistico; chiamando in causa lo spettatore facendogli “scontare” il piacere della visione; disorientando la critica attraverso un’operazione di ibridazione condotta su due livelli, ovvero facendo convergere i due generi classici del cinema hollywoodiano, il musical e il gangster movie, e proponendo un rimescolamento del suo stesso cinema, tanto che Cotton Club parrebbe nascere dalla rilettura de Il padrino (The Godfather, 1972) attraverso Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982) (5).
di Rebecca Amanda Snyder
(1) Traduzione mia
(2) Da interviste a «L’unità» e «La Repubblica» del 23-12-1984, cit. in F. LA POLLA, Cotton Club, in «Cineforum», n. 241, Gennaio 1984, in Francis Ford Coppola: The Last Tycoon, Rimini/cinema, stampa 1986, p. 59
(3) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p. 97
(4) R. TROTTA, Francis Ford Coppola, Le mani, Recco 1996, pp. 44-46
(5) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, cit., p. 94

Francis Ford Coppola, The Rain People (1969)

Sceneggiatura: Francis Ford Coppola da un suo racconto inedito
Fotografia (Technicolor): Wilmer Butler
Montaggio: Blackie Malkin
Suono: Walter Murch e Nathan Boxer
Scenografia: Leon Erickson
Musica: Ronald Stein e Carmine Coppola
Produzione: Bart Patton e Ronald Colby per Warner Bros
Durata: 102’
Interpreti: Shirley Knight (Natalie Ravenna), James Caan (Kilgannon, detto Killer), Robert Duvall (Gordon), Marya Zimmet (Rosalie), Tom Aldredge (Alfred), Laurie Crewes (Ellen), Andrew Duncan (padre di Ellen), Margaret Fairchild (madre di Ellen)
Premi: Gran Premio del festival di San Sebastian, 1969, come miglior film e miglior regia
Breve sinossi: Natalie Ravenna è una giovane donna incinta alle prese con le ansie e le paure del divenire madre. Una mattina decide di lasciare la casa dove vive col marito e partire senza meta, alla ricerca della propria identità. Lungo il viaggio incontrerà Kilganon, detto Killer. Il ragazzo ha subito un grave incidente durante una partita di rugby che gli è costato un ritardo mentale e un’innocenza disarmante. Congedato dal college in cui studiava con una piccola somma di danaro, è solo al mondo. Ella se ne prende cura come fosse suo figlio: cercherà di affidarlo alla famiglia di un’amica del ragazzo e di trovargli un lavoro ma i suoi tentativi si dimostreranno vani. Quando infine deciderà di “adottarlo” e dunque di avverare il suo destino di madre, sarà troppo tardi perché Killer, nel tentativo di salvarla dalle grinfie dell’agente Gordon, l’uomo con cui Natalie si era volontariamente appartata, le morrà in grembo dopo essere stato freddato dai colpi di pistola sparati dalla figlia del poliziotto.
The Rain People è un “film di formazione”, imperniato sulla vicenda di una giovane donna che, frustrata dalla vita famigliare-domestica e dall’imminente maternità, decide, in una mattina piovosa, di lasciare la casa maritale e partire senza una meta, a bordo della sua station wagon, alla ricerca della propria identità o, più cinicamente, con l’intenzione di consumare il proprio addio al nubilato. L’arrovellamento interiore di Natalie Ravenna è espresso magistralmente dal colpo di genio del regista che nelle prime inquadrature è intento a mettere letteralmente a fuoco, e dunque a conferire nitidezza, alle paure di una donna che si sente inadeguata al ruolo di madre: la prigione dei legami e delle responsabilità famigliari si reificano nelle catene che sostengono i sedili di due altalene in un parco vicino casa. Nei due flash-back della sua vita comprendiamo ch’ella si dibatte tra l’amore istituzionalizzato nel matrimonio e l’amore appassionato, selvaggio, libero consumato nell’atto sessuale. In The Rain People il tema del matrimonio come legame di potere e giuramento verrà ripreso, evidentemente con ben altro spessore, nel film successivo, Il Padrino (The Godfather, 1972), capolavoro di Coppola. Ma questo film contiene in nuce anche altri elementi che lo raccordano a opere più mature come La conversazione (The Conversation, 1974). Il marito di Natalie, Vinny, non lo conosciamo attraverso le sembianze fisiche (eccetto per la scena iniziale quando lo scorgiamo abbracciato alla moglie nel letto e per una fotografia che ella conserva nel portafoglio) ma attraverso la voce e il dialogo che intrattiene con la moglie che lo contatta da tre sperdute cabine telefoniche degli Stati Uniti. Tre momenti che scandiscono i tre atti del film e che segnano la graduale trasformazione nel rapporto di coppia: Natalie imparerà ad assumersi le proprie responsabilità grazie all’incontro con Killer mentre il marito, per la gioia delle femministe, sarà costretto, dalla determinazione di lei, a deporre le armi di uomo autoritario e possessivo e rispettare il volere della moglie, anche se questo significa l’aborto del figlio che porta in grembo. Sta di fatto però che Natalie non è in grado di affrontare il marito vis à vis, la sua totale presenza fisica la disarmerebbe, perciò si relaziona con un surrogato, la voce di lui filtrata da un telefono a gettoni. Vinny è una voce, la voce è il fantasma di Vinny. La voce è un riflesso della persona e ne rivela dunque solo dei dati parziali. Questo è uno dei temi attorno al quale ruota La conversazione: nella spasmodica ricerca della verità su un delitto che si sta per compiere, l’investigatore privato Harry Caul (Gene Hackman) cerca di dipanare il filo aggrovigliato di una conversazione che ha intercettato su commissione. Ma la verità che emergerà dalla maniacale dedizione di Harry è parziale, anzi si rivelerà uno dei tasselli di un piano diabolico in cui anch’egli si ritroverà incastrato.
Natalie ribadisce la preferenza per l’abolizione della presenza del corpo-realtà nel momento in cui decide di unirsi all’agente Gordon. Preferisce stare al buio: «è meglio, così mi piace, è come se parlassimo al telefono». La voce ha dunque un forte potere evocativo, anche se il rischio è quello di deformare la realtà…
Il gusto per la smaterializzazione dei corpi e, specularmente, la materializzazione dei fantasmi è evidente, fin da questo primo saggio d’autore, nella scena in cui Natalie, attraverso una sorta di rituale di seduzione, invita Killer ad entrare nella camera del motel dove si sono fermati per la notte.
Il trucco pesante sul volto ne marca la personalità schizofrenica (per usare le parole di Coppola), esplicitamente, e un po’ accademicamente, dichiarata nello sdoppiamento del volto allo specchio.

2._La_per..
La sequenza che segue è un pezzo da fuoriclasse e anche un manifesto della poetica di Coppola: i fantasmi prendono vita e si apre uno squarcio nel territorio del fantastico… Natalie e Killer, grazie ad un ben congegnato sistema di specchi, si parlano senza che i loro sguardi si incrocino e anche quando i loro corpi si incontrano nella danza difficilmente siamo in grado di localizzarli: potrebbero essere qui e altrove.

1._Il_gioco_degli_specchi
La sequenza assume poi toni esilaranti quando Natalie, mettendo in pratica il proprio manuale di seduzione, propone a Killer il gioco infantile «Simon says…» attraverso il quale ella può dar sfogo alle proprie velleità di dominatrice e femme fatale ma il ragazzo lo prende alla lettera facendo crollare il mondo artificiale creato dalla donna e rendendola ridicola ai propri occhi, seppur involontariamente. E d’altra parte è proprio questa la funzione di Killer all’interno del percorso di formazione di Natalie: fornire alla donna uno specchio nel quale riflettersi e comprendere se stessa.
Il candore e l’innocenza di Killer (il cui nome stride decisamente col personaggio conferendogli così una grande tenerezza), le domande apparentemente puerili e banali che egli le pone sono imprescindibili per la crescita di Natalie («Quali problemi ha?», «Perché se ne è andata?», «Perché non sta con me?», «Mi vuole bene?»).
In questo senso Killer è il compagno ideale per Natalie in cerca della propria identità, un’accoppiata questa che si ritrova, come ha osservato Roger Ebert, in qualsiasi buon road-movie: «La giovane moglie di The Rain People e il personaggio interpretato da Peter Fonda in Easy Rider (id., Dennis Hopper, 1969) sono i discendenti del mitico Huckleberry Finn. Le regole del gioco vogliono che il viaggio sia intrapreso sempre da due compagni: l’uno complicato e problematico, l’altro innocente e più spensierato. Così Huck Finn prende con sé lo schiavo, Jim. Peter Fonda si accompagna ad un “fumato” (interpretato da Dennis Hopper). Shirley Knight raccoglie un autostoppista (James Caan) che era un giocatore di rugby al college prima che un colpo alla testa sul campo lo rimbecillisse» (1).
Alle piccole grandi tragedie personali di Natalie e Killer si aggiunge la vicenda dell’agente Gordon, segnato dalla perdita della moglie e di un figlio nell’incendio divampato nella loro casa, e ora alle prese con la figlia minore che non sa gestire. La patina dell’uniforme da poliziotto, che proietta il personaggio di Gordon all’interno di una costellazione di significati che descrivono il suo ruolo istituzionale (sicurezza, autorità, legalità e così via), viene letteralmente disintegrata dal regista tramite la scelta di farlo piroettare sulla motocicletta come un pavone nell’atto di corteggiare la bella Natalie. L’acme di questo processo di smascheramento coincide con la presentazione dell’alloggio di Gordon, una roulotte condivisa con la figlioletta, una piccola peste che, oltre ad offrire uno spunto comico nella scena dell’inseguimento tra padre e figlia, mette ancora più in risalto la condizione di impotenza e precarietà vissuta da Gordon. Risulta quasi scontato sottolineare le filiazioni di questo personaggio in Apocalypse Now (id., 1979).
La drammaticità delle sofferenze patite dai personaggi si stempera in questo film grazie agli spunti comici e alle trovate esilaranti. Da ciò deriva il carattere forte e delicato insieme che contraddistingue The Rain People: la levità con cui vengono declinate le tragedie personali dei personaggi contribuisce ad ammantare il film di un’atmosfera da favola malinconica. Anche i luoghi risentono di questo “umore”: se, come è stato giustamente notato, l’anonimità e la desolazione dei luoghi tradiscono ascendenze dal cinema di Antonioni, è anche vero che l’imprescindibile elemento pop di certo paesaggio americano li riscatta da un sentimento di solitudine senza sbocco. È il caso del drive-in, versione diurna, cui approdano Natalie e Killer per ritrovare una vecchia compagna di scuola del ragazzo. Si tratta di una sorta di cimitero in cui le postazioni per le automobili sono marcate da quelle che paiono “stele” funerarie. Eppure la desolazione del luogo è vivacizzata dalla musica rock di sottofondo, dalle luci a forma di stella del cabinotto dei tickets, e dalle scritte pop che proliferano sulla facciata del chiosco del drive-in che, in tutto il loro appeal, smorzano il carattere oppressivo del paesaggio e contribuiscono a scongiurarne il senso di solitudine e incomunicabilità.

3._Il_drive-in_diurno
Un ennesimo set letteralmente popolato di scritte, la cui funzione è quella di pubblicizzare un tipo di attrazione zoologica, è il parco delle meraviglie gestito da Alfredo, «WHOA! HERE IT IS, NEBRASKA’S REPTILE RANCH AND ZOO», il beffardo datore di lavoro di Killer. La location è un luogo pieno di ogni cosa immaginabile: animali, souvenirs, cinture, bambole, un cimitero per le macchine ecc…

4._Il_Reptile_Ranch_di_Alfred

Un genere di posto che non potrebbe mai essere ricostruito negli studios hollywoodiani ma è come un objet trouvé, un tesoro prezioso, espressione della più verace cultura popolare americana, scovato da Coppola e dalla sua troupe che, per cinque mesi, girò il film on the road, in esterni, trasferendosi su un camioncino attraverso mezza America, dallo stato di New York al Wyoming, sotto l’egida del progetto rivoluzionario dell’American Zoetrope, che portava con sé «l’ideologia antihollywoodiana – sia dal punto di vista del modo di produzione sia da quello della “poetica”» e attraverso il quale esplodeva «l’Europa e il mito del regista consacrato alla critica alta» e si ribadiva «la ‘ribellione’ allo star system» (2).

di Rebecca Amanda Snyder
(1) R. EBERT, The Rain People, in «Chicago Sun-Times», 19 settembre 1969, consultabile all’indirizzo: http://rogerebert.suntimes.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/19690919/REVIEWS/909190301/1023
(2) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p. 29

Alain Resnais, Je t’aime je t’aime (1968)

Titolo originale: Je t’aime, je t’aime; regia: Alain Resnais; sceneggiatura: Jacques Sternberg; fotografia: (Eastmancolor panoramico) Jean Boffety; suono: Albert Bonfanti; montaggio: Colette Leloup, Albert Jurgenson; scenografia: Jacques Dugied, Auguste Pace (per la macchina del tempo); musiche: Krzysztof Penderecki; interpreti: Claude Rich (Claude Ridder), Olga Georges-Picot (Catrine), Anouk Ferjac (Wiana Lust), Georges Jamin (Dr. Delavoix), Van Doude (direttore del Centro), Dominique Rozan (Dr. Hesaerts, medico del Centro), Alain Robbe-Grillet (Hughes Mechelynck, ufficio stampa), Cathrine Robbe-Grillet (segretaria), Jean Michaud (direttore della casa editrice), Jacques Doniol-Valcroze (dirigente nella casa editrice), Jean Claude Romer (invitato); produzione: Mag Bodard; coproduzione: Parc Film, Fox Europa; distribuzione: Twentieth Century Fox; durata: 91’; anno: 1968
Festivals: Invitato al festival di Cannes, non vi fu proiettato per l’interruzione della manifestazione. Festival d’Acapulco
Claude Ridder ha tentato il suicidio ma senza successo. Un manipolo di scienziati del non meglio identificato Centro di ricerche Crespel gli propone di fungere da cavia per un esperimento molto ambizioso: il primo viaggio a ritroso nel tempo della durata di un minuto, in compagnia di un topolino bianco. Ridder si ritrova al punto preciso del suo passato in cui era il 15 settembre 1967 alle 16. Ma qualcosa va storto: in un movimento oscillatorio tra presente e passato, ripercorre «16 anni della sua vita, dalle ore 11 del 7 dicembre 1951 (data del primo impiego come imballatore di libri e riviste) alle ore 5 del 5 agosto 1967 (data del tentato suicidio)» (1). Egli cade a spirale nel proprio passato: il lavoro d’ufficio, il volto di Catrine, le interminabili attese alla fermata del tram, le donne, un poster di Magritte appeso alle pareti, il mare, il tragico epilogo della sua vita. Le presenze del passato lo avviluppano per poi inghiottirlo senza più nessuna possibilità di ritorno.
Je t’aime je t’aime è un film che ha riscosso favori contrastanti da parte della critica, i detrattori ne hanno tutt’al più concesso il titolo di opera minore, gli estimatori lo amano alla follia. Gli strali della critica si sono appuntati in particolare sulla struttura del racconto filmico, ravvisandone un disordine o alternativamente un intellettualismo derivante dall’applicazione dogmatica del metodo della scrittura automatica, di matrice surrealista.
Qualcuno in particolare ha espresso disappunto o esplicita irritazione per la scelta operata da Resnais e dallo sceneggiatore Sternberg di affidare l’unità dell’impianto dell’opera alla dimensione science-fiction che ne avrebbe ridotto il potenziale di sperimentazione e appesantito la narrazione attraverso «la macchinosità dell’apparato scientifico» a discapito del «progetto di autenticità e di essenzialità caotica della ricerca esistenziale» (2), realizzato attraverso il viaggio a ritroso nel tempo effettuato dal protagonista, Claude Ridder.
In realtà la «gotica, farraginosa, surrealistica macchina del tempo» (3) tanto deprecata da certa critica, è lì ad omaggiare proprio la macchina cinema (almeno quella pesante, ingombrante, analogica in auge nel 1967): quel bozzolo fatto di morbide protuberanze ha l’aspetto di un ventre materno immediatamente richiamato dal liquido amniotico in cui si ritrova immerso Claude Ridder durante la vacanza in Costa Azzurra; di certo quello stesso abitacolo si è ispirato ai comics e non lesina una strizzatina d’occhio ai b-movies; ma è anche vero che quella zucca gigante smaccatamente artificiosa, alimentata da innumerevoli quanto aggrovigliati cavi elettrici, rimanda istintivamente ai baracconi delle meraviglie delle fiere o dei luna park in cui il cinema è nato per il divertimento delle folle. La sua forma misteriosa e attraente invita lo spettatore ad entrarvi, ad esplorarne le viscere per provare sensazioni irripetibili; d’altra parte è categorica la posizione di Resnais riguardo alla vocazione del cinema: «Se Bresson parla di un cinema-scrittura opposto a un cinema-spettacolo, io mi considero dalla parte del cinema-spettacolo, forse a torto, ma è in questo senso che lavoro» (4).
1._Macchina_tempo
Resnais ‘crede’ alle fiabe e alla magia del cinema, ma per fruirne è necessario assumere lo sguardo del bambino; solo così è possibile entrare nella tenda-zucca e, letteralmente e fattivamente, scomparire come Claude Ridder. La macchina del tempo, il viaggio, l’esotismo fondano il proprio realismo sulla natura indicale del mezzo, tanto che al cinema il passato (e il futuro) hanno la stessa pregnanza del presente proprio perché scorrono sulla pellicola secondo un ordine paratattico in un eterno presente, quell’hic et nunc che fonda l’essenza ontologica del cinema. In questo senso non si può parlare al cinema di flashback o flashforward: «Si parla spesso di flashback: penso di non aver ancora fatto un flashback nella mia vita, soprattutto non in Je t’aime je t’aime, dove siamo in un presente totale, poiché seguiamo Ridder e non lo lasciamo mai nel suo viaggio. Non ci scappa un secondo. Il tempo, allora, non corrisponde affatto alla nozione di svolgimento, ed è per forza un presente» (5). È Per questo motivo che Resnais esprime forti perplessità riguardo alla possibilità di parlare del suo cinema come memoria, come se fosse una realtà di secondo grado rispetto al presente.
A proposito della struttura del film, niente è più falso dell’affermazione per cui i frammenti della vita di Claude Ridder, che compongono il puzzle del suo viaggio nel passato, sarebbero ordinati casualmente.
In realtà tale struttura è costruita in maniera assai rigorosa, e si avvale di due tipi di ordine: un ordine del racconto che si confa alla dimensione fantascientifica del film e un ordine musicale che invece presiede all’organizzazione delle rivisitazioni del passato esperite dal protagonista.
L’esplorazione degli episodi frammentari del passato si organizza in quattro nuclei: il rapporto di Ridder col lavoro d’ufficio, l’incontro e il ménage quotidiano con Catrine, la morte di Catrine e gli interrogatori della polizia, la frequentazione di altre donne e i tradimenti di Ridder. Questi nuclei rappresentano i temi centrali delle immersioni nel passato di Ridder e straordinario è il modo in cui il regista li ha ‘orchestrati’. Sebbene si possa riconoscere un ordine cronologico tra di essi (per esempio il tema dell’omicidio di Catrine viene annunciato solo a metà film), il loro sviluppo non è lineare ma funziona secondo un meccanismo di propagazione. Si potrebbe parlare di un effetto eco su quattro temi maggiori e, scivolando nel dominio dell’udito, evocare le parole dello stesso Resnais a proposito del cinema come struttura musicale: «Credo che se si definisse il film con un diagramma eseguito su una carta millimetrata, si arriverebbe a scoprire una forma vicina alla forma sonora del quartetto: temi, variazioni a partire dal primo movimento, di qui le ripetizioni, i ritorni, che possono essere insopportabili per quelli che non entrano nel gioco del film» (6).
2._Claude_e_Catrine
Questo tipo di trattamento delle immagini, il cui funzionamento non si pone all’insegna dello svolgimento cronologico e razionale, propone una nuova modalità di conoscenza: si attualizza cioè una scrittura dell’affettività che non procede per implicazioni logiche del tipo causa-effetto ma per intensità via via crescenti. Le istanze di tipo psicologico, emozionale ed esistenziale si danno attraverso serie di ripetizioni differenti che si sedimentano nella mente e nel cuore dello spettatore. Resnais, in una scena che vede occupato Ridder in una conversazione telefonica alle prese con la correzione di alcune bozze, e che precede il fatidico momento clou del suicidio, fa probabilmente riferimento a due tipi di conoscenza, l’una visiva e l’altra tattile. Attraverso l’occhio si attualizza un tipo di conoscenza rappresentazionale, di tipo logico-inferenziale, attraverso il tatto invece si esplicita un tipo di conoscenza determinata dalla reiterazione e di tipo progressivo, più lento, che favorisce la familiarizzazione coi dati per stratificazioni successive.
Resnais ravvisava comunque la necessità della cornice fantascientifica in quanto «supporto che, in certo modo, aguzza l’immaginazione e mette forse lo spettatore in uno stato infantile» (7). Insomma, affinché il film susciti l’emozione dello spettatore, è necessario rispettare la classica struttura in tre atti senza abbandonarsi alla sperimentazione pura come quella che aveva in mente Sternberg quando pensava ad un film della lunghezza di 12 o 24 ore da fruire in qualsiasi momento e che precorreva le sperimentazioni della video arte e si allineava all’arte d’avanguardia di Andy Warhol (8).
Così il racconto di fantascienza si svolge secondo i tre atti canonici attraverso i quali si articola ogni buona sceneggiatura: Claude Ridder, sopravvissuto al tentativo di suicidio, viene avvicinato dagli scienziati del Centro di ricerche Crespel che gli propongono di fare da cavia umana per un esperimento di viaggio nel passato (inciting event al 10’), egli si sottopone all’esperimento ma qualcosa va storto (prima svolta al 22’). Esattamente a metà film (punto centrale al 45’) Claude Ridder comprende che l’esperimento presenta una falla, si solleva dal lettino e chiede aiuto. In questo preciso momento, come “da copione”, assistiamo ad una trasformazione radicale del protagonista che da soggetto passivo qual era, non interessato alla vita e contraddistinto da un atteggiamento spleenetico nei confronti del mondo, diviene attivo. La comoda poltrona ergonomica sulla quale il suo corpo è adagiato si arricchisce di connotazioni terapeutiche identificandosi col lettino dello psicanalista: il flusso di coscienza, la riemersione dei ricordi e la coazione a ripetere sempre lo stesso frammento di riemersione dalle acque (dall’inconscio) del Midi si palesa come un vero e proprio meccanismo di elaborazione del lutto il cui acme coincide con la confessione e auto-assoluzione dell’omicidio di Catrine (seconda svolta al 70’). Il terzo atto si risolve poi nella rivisitazione del suicidio di Ridder e nella morte definitiva nella coincidenza di tempo presente e tempo passato.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le Mani, Genova 1997, p. 109
(2) P. BERTETTO, Alain Resnais, Il Castoro cinema/La Nuova Italia, Milano 1976, p. 120
(3) Ibidem, p. 108
(4) Intervista di Patrick Bureau in «Les Lettres françaises», 2 maggio 1968, pp. 18-19, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, Biblioteca di B&N, Documenti e Strumenti n. 5, 2002, p. 230
(5) Intervista di Luce Sand in «Jeune cinéma», 31, maggio 1968, pp. 2-8, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 229
(6) Cit. in P. BERTETTO, Alain Resnais, cit., p. 3
(7) Intervista di Luce Sand in «Jeune cinéma», 31, maggio 1968, pp. 2-8, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 228
(8) Si pensi per esempio a Sleep (1963), un lunghissimo long take della durata di 5ore e 20 minuti che riprende John Giorno, amico di Andy Warhol, mentre sta dormendo.

Alain Resnais, Providence (1978)

Titolo originale: Providence; Regia: Alain Resnais; sceneggiatura: David Mercer; fotografia: Ricardo Aronovich; suono: René Magnol (effetti elettroacustici: Jean Schwarz); montaggio: Albert Jurgenson; scenografia: Jacques Saulnier; costumi: Catherine Leterrier; musiche: Miklós Rósza interpreti: John Gielgud (Clive Langham), Dirk Bogarde (Claud Langham), Ellen Burstyn (Sonia Langham), David Warner (Kevin Woodford), Elaine Stritch (Molly Langham e Helen Wiener), Denis Lawson (Dave Woodford), Cyril Luckham (Mark Edington); produzione: Michel Choquet, Antoine Gannagé per Action Film, SFP, FR3, Citel Film (Ginevra); distribuzione: durata: 110’; anno: 1978
Premi: Premio César 1978 per la regia
Lo scrittore Clive Langham, recluso nella propria atavica dimora, è intento a porre mano al suo ultimo romanzo durante una notte insonne innaffiata di Chablis e contrappuntata da ulcere e incubi spaventosi. I protagonisti dell’opera sono i componenti della sua famiglia, sui quali egli infierisce senza sosta, muovendo i fili dei loro destini e facendone lo specchio di un’umanità alla deriva, destinata alla regressione animale. In uno scenario apocalittico i funzionari di uno stato tecnocratico militarizzano la città fantasma e predispongono campi di concentramento per i reietti mentre in interni borghesi si consumano gelosie e acredini famigliari.
Col sorgere del nuovo giorno i fantasmi notturni si dileguano lasciando il posto ad un idilliaco quadretto famigliare. Ma al di là delle apparenze, interrogativi inquietanti serpeggiano tra i convitati …
Centrale in Providence è il discorso sulla creazione letteraria e, per estensione, sull’origine e il processo dell’atto creativo, demandato all’entità che dà il titolo al film: «da una parte, è il nome della proprietà in cui uno dei personaggi principali (Clive Langham) sta concludendo la sua vita. Ma […] si può dire, ed è il secondo senso del titolo, che egli si comporta con i suoi personaggi come le mani della Provvidenza, di una Provvidenza spesso sarcastica, ma che non fa sempre tutto quello che vuole» (1). L’ingerenza della mano ordinatrice di Clive sul destino dei personaggi, grazie all’ “intermediazione” dello sceneggiatore Mercer, s’inscrive nella lezione di Ronald D. Laing, per il quale i colpevoli dei comportamenti devianti dei figli sono i genitori che a quelli si sostituiscono deresponsabilizzandoli (2). In questo senso lo scrittore manipola le vite di coloro che compongono il “romanzo” della sua famiglia interferendo o proiettandosi nei loro vissuti personali. Eppure i personaggi sfuggono puntualmente al suo controllo acquisendo autonomia e apportando un contributo alla creazione dell’opera, avverando un’istanza extratestuale: «La prima cosa che faccio sempre è dare la totalità della sceneggiatura agli attori il più presto possibile prima delle riprese, in maniera che possano esprimersi e apportare le loro idee, che sono spesso eccellenti e che si possono qualche volta aggiungere al film» (3).
Clive Langham non è dunque il meneur de jeu o il “maestro di cerimonia” dell’intera opera in quanto si fa condurre dal racconto i cui fili sono forse manovrati, in ultima analisi, dal regista e dallo sceneggiatore Mercer. Eppure anche questa ipotesi non è del tutto convincente: «Si ha l’impressione che una sceneggiatura non dipenda dalla volontà. Nasce così (…) Abbiamo tentato di fare un cinema puramente istintivo» (4).
Esiste dunque un maître d’ ordre che ha dato forma, stile, corpo e “musica” all’opera filmica? Chi ne è l’artefice? Esiste una Provvidenza che, attraverso eventi apparentemente casuali, ma in realtà ordinati, esegue le volontà di un demiurgo misterioso?
Qual miglior risposta poteva dare Resnais se non quella “criptata” nella splendida sequenza iniziale? La mdp si attarda per diversi secondi sull’insegna del nome della villa, Providence, località del Rhode Island in cui H.P. Lovecraft nacque e morì in una sorta di «clausura volontaria» (5) così simile a quella di Clive. Poi parte un movimento e lo sguardo vaga e si perde tra le foglie, i rami e le fronde degli alberi senza più alcun appiglio ed orizzonte di riferimento.
1._Il_lume_cerebrale
Il campo del quadro cinematografico diviene luogo di astrazione temporale e spaziale: torna alla memoria la figura mitica del labirinto, l’immagine di intricate sinapsi o circonvoluzioni cerebrali, ovvero la moltitudine dei percorsi che si offrono al creatore. L’occhieggiare della luce solare nell’intrico delle fronde è il coacervo del ribollio delle idee, il brain storming creativo che precede la provvidenziale apparizione di un lume (nel film la plafoniera che illumina l’ingresso dell’austera dimora di Clive) che queste energie raccoglie e concentra per poi diffondere e ordinare nella produzione artistica. Non si tratta più della luce solare, diffusa, informe che filtra tra i rami degli alberi ma di un lume artificiale e dunque cerebrale che ha un punto d’origine determinato e che diffonde un nitido e circoscritto fascio luminoso. Così, per l’intera durata del film, siamo traghettati nella memoria, nei ricordi, nei desideri del vecchio scrittore, in balia di sprazzi di lucidità o dell’assoluto ottenebramento della facoltà raziocinante. Compiamo continui viaggi nel tempo (come il protagonista di Je t’aime, Je t’aime) all’interno di un tessuto narrativo fortemente lacerato, ellittico, cortocircuitato che trova eco nella mise-en-scène e nelle location del film, che contemplano ville “marienbadiane”, improbabili aule di tribunali, pittoreschi sfondi di cartapesta e stadi adibiti a campi di concentramento.
La città “impossibile” in cui si svolgono i fatti, sebbene “fatta a pezzi” con l’intento di «creare l’immagine di un paese “esitante” come se il romanziere Clive non avesse ancora scelto» (6), è un luogo che trascende ogni indicazione storica per situarsi in una dimensione atemporale e dunque esemplare, come una novella Babele, città della discordia e dell’incomprensione. E la metafora biblica è particolarmente congeniale ad offrirci una chiave di lettura del secondo atto del film, che è la costruzione lucida, quanto mai disincantata nella sua amarezza, di un’umanità alla deriva, di un paradiso perduto, luogo di perdizione e dannazione abitato da vittime (i vecchi nelle strade deportati nello stadio per essere giustiziati e gli uomini-lupo che assistono alla trasmutazione mostruosa dei propri corpi) e carnefici (l’apparato militare di uno stato tecnocratico che esegue i massacri e lo stesso Claud che diviene l’aguzzino del fratello Kevin).
2._Uomo_lupo
Non passa inosservata, in questo scenario apocalittico, la puntuale effrazione dei comandamenti del Decalogo per ciò che riguarda i rapporti famigliari che intercorrono tra i personaggi principali. Claud “disonora” sistematicamente il padre col quale vive un rapporto conflittuale per l’incompatibilità delle rispettive intime nature, lui razionale e freddamente calcolatore, il padre Clive focoso e dissoluto. L’accusa contro il padre si trasforma in una “requisitoria” nella scena esilarante di Claud-Bogarde che volteggia nel proprio studio sfoggiando grande eloquenza di avvocato mentre detta alla segretaria basita un testo che trasuda puro odio filiale.
Così Molly, la madre di Claud, incarnata nell’amante Ellen, viene disonorata dal figlio medesimo che desidera il rapporto carnale e quindi incestuoso.
L’adulterio è all’ordine del giorno e mutualmente messo in pratica dalla coppia Claud-Sonia.
Claud non esita nemmeno un secondo ad uccidere il fratello minore Kevin in una scena di fratricidio che attualizza la vicenda di Caino ed Abele.
Insomma, ciò che si mette in scena è l’egoismo, il cinismo, la natura luciferina ed istintiva dell’uomo in tutte le sue possibili declinazioni.
Pure, come in ogni capolavoro, le interpretazioni del film sono plurime e la lettura biblica può essere arricchita, per esempio, da quella freudiana sul cui pedale già altri hanno insistito mettendo in evidenza come nel passaggio dal secondo al terzo atto, caratterizzato da un’atmosfera sobria e morbida in cui i protagonisti “inscenano”, questa volta, un idillio familiare, si scivoli dal complesso di Laio in quello di Edipo con i figli che accusano il padre (7). D’altra parte, a confortarci nella convinzione di un’opera traboccante di temi e spunti e quindi foriera di un effluvio di reminiscenze, è Resnais stesso: «Quando ho cominciato a lavorare con David Mercer a partire dal primo script (…) mi ha chiesto di prendere, alla maniera di un ferrovecchio, tutto quello che mi interessava. Ha messo il tutto in un cassetto, un po’ come faceva Giraudoux con le sue prime versioni, e abbiamo ripreso l’insieme conservando unicamente i personaggi» (8).
Al di là delle diverse declinazioni ermeneutiche che il film suggerisce e dei temi che propone, come quello del rifiuto e dell’accettazione della morte, dell’eutanasia, ciò che irrefutabilmente colpisce lo spettatore è lo spregiudicato dispiegamento dei sentimenti nutriti dai personaggi che rasenta la blasfemia. Il cadavere dell’uomo anziano, soggetto all’autopsia del medico legale, diviene il “correlativo oggettivo” della condizione di vita dei protagonisti del film che, senza infingimenti, rinunciando al pudore o a qualsivoglia bon ton borghese, dichiarano apertamente l’odio, gli appetiti sessuali, il disprezzo, l’insofferenza per il prossimo in un’escalation di matrice surrealista. Tanto che in questo film Resnais si è lasciato travolgere dal fascino di un lessico volgare, sconcio, spudorato, frutto del puro istinto. La regressione animale degli uomini-lupo è speculare alla disumanità dei protagonisti.
Ciò che è notevole osservare è che questa “pornografia” dei sentimenti, in diversi frangenti, sembra derivare da una contingenza estetica che nasce in primis dal conflitto tra la voce narrante di Clive Langham e la parte “residuale” che giocano i protagonisti nella scena. In altre parole il conflitto tra testo letterario e testo filmico si risolve mutualmente in un “prosciugamento” o, all’inverso, nella “superfetazione” di uno dei termini: se la voce fuoricampo commenta alcune scene anticipandone gli sviluppi, è giocoforza che queste siano chiamate non di certo a reiterare quanto espresso dal commento di Clive, ma a produrre una “variazione”, creare un ritmo che a volte si traduce in un’esasperata enfatizzazione (fino alle derive surrealiste) di ciò che è suggerito dalla voce narrante, altre volte nella sua negazione.
Questo manifesto e compiaciuto gioco tra forma e contenuto, che assume toni sarcastici e irridenti, smorza la drammaticità e il carattere apocalittico degli accadimenti, facendo emergere la marca d’autore che contraddistingue il cinema di Resnais e che si risolve in una leggerezza e umorismo disarmanti.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) Intervista di R. Benayoun in «Positif», n. 190 febbraio 1977, pp. 6-13, in Maurizio Regosa (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, Biblioteca di B&N, Documenti e Strumenti n. 5, 2002, p. 253
(2) S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le mani, Genova 1997, p. 123
(3) Intervista di J. Delmas-F. Gastellier in «Jeune Cinéma», n. 101 marzo 1977, pp.3-7, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 261
(4) Intervista di A. Remond in «Télérama», 9 febbraio 1977, pp. 80-82 in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 248
(5) S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria, cit., p. 123
(6) Intervista di Claude Beylie in «Écran», n. 55 del 15 febbraio 1977, pp. 24-27 in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 253
(7) Tullio Kezich, «Il Corriere della Sera», 1977
(8) Intervista di R. Benayoun in «Positif», n. 190 febbraio 1977, pp. 6-13, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit. p. 254

Jim Jarmusch, Int. Trailer. Night (2002)

Episodio di Ten Minutes Older: The Trumpet
Regia: Jim Jarmusch; soggetto e sceneggiatura: Jim Jarmusch; fotografia: Frederick Elmes; costumi: John A. Dunn; montaggio: Jay Rabinowitz; musica: Paul Englishby: interpreti: Chloë Sevigny; produzione: Ulrich Felsberg e Stacey Ellen Smith; origine: Gran Bretagna/Spagna/Germania/Finlandia/Olanda/Cina; durata: 10’
Breve sinossi: Un’attrice si prende una pausa dal lavoro sul set. Raggiunge la propria roulotte, si stende su un divano, leva le scarpe strette per distendere i piedi intorpiditi e accende una sigaretta. Le sono concessi solo dieci minuti. Nel mentre riceve una telefonata dal proprio compagno ma il desiderio di intimità è sempre frustrato dai mestieranti che si avvicendano nella roulotte per curarle trucco e capigliatura, sistemare i microfoni che le sono stati applicati sul corpo o per servirle la cena. Docilmente, si presta alle richieste di ciascuno. Conclusa la pausa, esce dal trailer lasciando dietro di sé le note delle Variazioni Goldberg di Bach, che saturano lo spazio di una solitudine malinconica.
Ten Minutes Older è un progetto cinematografico del 2002 diviso in due parti intitolate The Trumpet e The Cello. Il progetto prevedeva una serie di cortometraggi che avessero come tema centrale il “Tempo”. I cortometraggi sono stati girati da quindici registi famosi. Ognuno di loro ha sintetizzato in pochi minuti la propria visione del tempo attraverso l’arte cinematografica. Il progetto è un omaggio ad un cortometraggio di Herz Frank girato in Russia nel 1978, dall’omonimo titolo Ten minutes older.
Int. Trailer Night, il cortometraggio firmato da Jarmusch, avrebbe potuto essere girato anche senza battute di dialogo: la potenza cinematografica e la poetica di Jarmusch emergono da ogni singola inquadratura. Jarmusch si avvale di rarefatti movimenti di macchina per creare un linguaggio al tempo stesso onirico e realista, ovvero surrealista, per condensare il concetto in una parola che gli è certo congeniale.
Minimalismo, essenzialità e pulizia visiva sono mezzi attraverso i quali egli si serve per filmare una realtà netta eppure traboccante di significati altri, spesso irresistibilmente ironica e insieme trasognata e malinconica, dai contorni affilati e definiti favoriti dall’uso del bianco e nero: «adoro il bianco e nero, trovo che sia un modo per dare allo spettatore meno informazioni inutili: il mio fine è quello di dare un’informazione essenziale» (1).
Int. Trailer Night è un film che riflette sul tempo cinematografico offrendoci un gioco di scatole cinesi. Chloë Sevigny è la protagonista di un film in corso di lavorazione. Si prende una pausa e si reca nella sua roulotte per concedersi un break di 10 minuti e ritagliare un suo tempo intimo: accende una sigaretta e riceve una telefonata dal fidanzato. Il suo desiderio di intimità è vanificato dalle continue intromissioni dei lavoranti della troupe e così la roulotte, come una zucca incantata, diviene il luogo di un altro film, il trailer della sua vita, fatto di piccoli sketch sapientemente orchestrati.
Il film è un saggio in miniatura del cinema di Jarmusch sotto diversi aspetti.
Innanzitutto per l’immancabile rito della sigaretta che induce alla rilassatezza e all’ozio e le cui volute di fumo, traccianti nell’aria arabeschi effimeri, preludono ai successivi accadimenti, apparentemente insignificanti e irrisori.
1.-Chloë-..
Ai tempi e ai luoghi della pregnanza e dello spettacolo Jarmush privilegia i momenti off, le pause, i cosiddetti momenti morti o quelli che il regista definisce «moments in between» (2). Tali aporie temporali diventano, nel cinema jarmuschiano dell’interstizio, i luoghi della chance, le occasioni per impercettibili détournements, pieghe, increspature della realtà che ne denunciano anche l’intrinseca tragicità. La violenza morbida cui è soggetta Chloë Sevigny, “importunata” dalle varie maestranze che compongono la troupe, non è scevra di un’ironia che, in un baleno, scivola nell’abiezione. Si pensi alla scena che vede il tecnico del suono insinuare le proprie mani sotto il vestito dell’attrice, all’altezza del sedere e del seno, e sotto gli occhi imperterriti di un’altra inserviente, mentre l’attrice conversa con il fidanzato nel proprio rifugio. La scena, surreale, si tinge di malinconia grazie alle note del Bach delle Variazioni Goldberg.
La musica, nei film di Jarmusch, si lega strettamente alle azioni dei personaggi, non è mai semplice accompagnamento (3) e, nella fattispecie, ha la funzione di qualificare ed amplificare lo stato d’animo dell’attrice, un po’ mesta, un po’ annoiata; e ciò avviene sempre in sordina, senza clamore, con l’aspetto e i risvolti, non di una ferita aperta, ma di una emorragia interna.
Int. Trailer. Night è infine costruito per avvenimenti non necessariamente correlati gli uni agli altri. In diversi film del regista newyorkese il viaggio dell’eroe non conosce apparentemente un vero e proprio sviluppo ma egli rivive lo stesso genere di situazione, magari da un’angolazione di poco differente. Si potrebbe dire che torna sempre non proprio al punto di partenza, ma poco più in là. Basti pensare ai road movies jarmuschiani come Permanent Vacation (1980), Stranger than Paradise (1984), ma anche il più recente Broken Flowers (2005). Il protagonista è un flâneur ciondolante che avanza, nell’incedere incerto del proprio passo, come sospinto da forza di inerzia, spesso torna senza scampo al punto di partenza per poi, finalmente e insospettatamente, imboccare una strada che niente aveva fatto presagire. Sta di fatto che una qualche trasformazione avviene ma non è possibile coglierne l’origine causale perché ogni cosa si attesta sul “piano di immanenza”, non consentendo semplici decifrazioni della realtà ma risolvendosi semmai in un sempre rinnovato effetto di stupore, impalpabile e indecifrabile, evanescente, dissolventesi nell’aria come fumo di sigaretta.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) http://filmup.leonardo.it/
(2) da un’intervista realizzata nel 1987, in Peter Von Bagh, Mika Kaurismäki, “In Between Things”, in AA.VV., Jim Jarmusch Interviews, a cura di L. HERTZBERG, University Press of Mississippi, 2001, p. 75
(3) MOSCA U., Jim Jarmusch, Il Castoro Cinema, Milano 2000, p. 8.

Jim Jarmusch, Year of the Horse (1997)

Regia: Jim Jarmusch; fotografia (35 mm, col. Eb/n): L.A. Johnson, Jim Jarmusch; montaggio: Jay Rabinowitz; suono: Tim Mulligan; musica: Neil Young & Crazy Horse; interpreti: Neil Young, Ralph Molina, Frank «Poncho» Sampedro, Billy Talbot; produzione: Bernard Shakey, Elliot Rabinowitz, L.A. Johnson per Shakey Pictures; origine U.S.A.; durata: 105’; Festivals: presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre del 1997
Il rock’n roll movie assemblato da Jarmusch sulla band dei Crazy Horse, capeggiata da Neil Young, è insieme un omaggio ad uno dei cantautori prediletti dal regista newyorkese nonché l’occasione per restituire un favore all’artista per la composizione della colonna sonora di Dead Man (1994). Nondimeno il documentario gli consente di creare un prodotto in cui la musica riveste, finalmente e compiutamente, un ruolo da protagonista. La filmografia del regista è infatti costellata di collaborazioni con musicisti che hanno contribuito ai suoi lavori in qualità di co-registi-sceneggiatori (John Lurie) o prestando brani musicali o le loro poderose e sensuali sembianze allo sguardo rispettoso seppure impietoso della cinepresa (Tom Waits, Iggy Pop, Screamin’ Jay Hawkins, Jack e Meg White).
La musica, nei suoi film, si lega strettamente alle azioni dei personaggi, non è mai semplice accompagnamento (1) e in Year of the Horse ne diviene la protagonista assoluta facendo esplodere tutta la sua valenza magica e ipnotica, effetto che viene potenziato dal suono in Dolby Digital. Fuckin’Up, Slip Away, Barstool Blues, Stupid Girl, Tonight’s the Night, Big Time, Sedan Delivery, Like a Hurricane e l’acustica Music Arcade sono le canzoni che scandiscono le tappe del tour e offrono ai fans di Neil Young, Ralph Molina, Billy Talbot e Frank “Poncho” Sampedro un’esperienza acustica irripetibile, simile alla trance, garantita dalla perfetta armonia e coesione del gruppo. Le riprese rispettosamente frontali o tutt’al più scivolanti sull’asse di ripresa fino a intercettare frenetiche dita che graffiano le corde di una chitarra elettrica, fanno trasparire la volontà del regista di preservare la “sacralità” dell’evento per non inficiarne la freschezza. Tutt’al più Jarmusch tenta di restituire la magia della musica attraverso il caleidoscopico montaggio della luce dei ceri collocati sul palco e riprendendo Young mentre, in una sorta di rituale sciamanico, attraversa il palco in lungo e in largo recando sul palmo della mano un grosso cero che poi, a canzone ultimata, viene scaraventato in terra a suggellare la fine della performance musicale. Purtroppo lo schermo cinematografico, alle volte fatalmente piatto e impermeabile alle emozioni, non sempre restituisce tale magia e in ciò risiede un limite del film.
Le performances lunghe ed estenuate di Young (durante il concerto di Vienne in Francia, e quello di Gorge nello stato di Washington), che hanno messo a dura prova una parte di critica poco incline a riconoscere legittimità artistica al “teatro filmato”, contrappuntano come pietre miliari un tessuto narrativo frastagliato, spurio, composto di materiali attinti da fonti diverse e che si avvalgono di supporti eterogenei, quali il 16 mm, il Super 8, il video Hi-8. L’epopea del gruppo è raccontata attraverso inserzioni di backstage del tour del 1976 proveniente dalla cineteca personale di Neil Young, mentre il materiale del 1986 proviene dal documentario Muddy Track (1986), girato dallo stesso Young sotto lo pseudonimo di Bernard Shakey. Le interviste ai componenti della band, al padre di Young, ai tecnici, il materiale fotografico che documenta la parabola dolorosa delle vite del chitarrista Danny Whitten, del roadie Bruce Berry e del produttore David Briggs e, infine, un inserto di animazione (Red Ball Express) firmato da Steve Segal, completano il ritratto della band, le cui cifre essenziali sono l’energia, la potenza e anche la fierezza, come si evince da una delle didascalie che campeggiano sullo schermo e che rimanda al nome della band ma anche al capo pellerossa cui questa si ispira, Crazy Horse, descritto con le parole independent, generous, energetic, open. 
1._YEAR_OF_THE_HORSE
E il vessillo dell’indipendenza viene impugnato fin dalle prime pagine del diario visivo della band, girato orgogliosamente in Super 8. Il “manifesto” grunge, graffiante e tuttavia scanzonato, come si evince dalle foto segnaletiche attraverso cui vengono presentati i componenti della band, si fa dunque esplicito nella volontà di utilizzare un formato sporco e sgranato in perfetta continuità con una scenografia minimalista e, forse, affettatamente trasandata e pop: una sedia e una lavatrice sullo sfondo di una stanza spoglia sono gli unici arredi di un “garage” dove vengono intervistati i musicisti.
2._NEIL_YOUNG
Insomma, fin dalle prime battute, l’atteggiamento è di sfida e di manifesta provocazione, seppure stemperato da un’ironia quasi grottesca in cui l’ “umanesimo” di Young incontra, provvidenzialmente, la tempra malinconica di Jarmusch. Ma tale equilibrio è fragile e la personalità del regista viene sopraffatta dal carisma trascinante di Young. Year of the Horse è un figlio illegittimo di Jarmusch, non c’è posto qui per i suoi diseredati e flâneurs malinconici. L’elezione crepuscolare del cinepoeta che si considera «a minor poet who writes fairly small poems» (2) viene spazzata via dal vento beat del monumentale Young, il re dei diseredati, colui che, con la levità e l’irresistibile innocenza di un infante nonché il “pragmatismo” di un americano, può sfidare addirittura Dio in persona («Chi credi di essere, Dio?», «Sì, già»), incontrare un tizio di nome Jesus all’Hammersmith Odeon di Londra e augurargli, questa volta, di farcela ed infine rianimare l’antica sede di un anfiteatro romano sulle rive del Rodano (Vienne in Francia) con la magia della musica e la carica magnetica della sua presenza fisica, immortalandosi cariatide della musica («Il teatro è vecchio, la chitarra è una Old Black, io (Cragg, tecnico del sound per la chitarra) sono vecchio, i Crazy Horse son vecchi, e l’attrezzatura è vecchia»).
3._JARMUSCH_e_YOUNG_COMMENTANO_IL_VECCHIO_TESTAMENTO
Così pure il viaggio visivo on the road al seguito della band, solcato dalle highways americane e da nuvole infiammate al tramonto, è un omaggio al paesaggio americano delle praterie sterminate, alla libertà dei roadies della beat generation. È un paesaggio fortemente evocativo ma che poco ha a che spartire con quello più concettuale e interiore di Jarmusch, poco incline a riconoscerne la referenzialità, per esempio nella riconoscibilità geografica dei luoghi, ma piuttosto a rivelarne aspetti inattesi e stranianti che tradiscono la lezione surrealista: si pensi al muro bainco di neve di Cleveland o al grigiore desolante della Florida in Stranger than Paradise (1984), o ancora alla città di New York in Permanent Vacation (1980), colta come discarica post-atomica o sobborgo diroccato e infestato di vegetazione parassitaria.
Non diversamente i luoghi in between tanto cari a Jarmusch che, in Year of the Horse, si concretizzano nelle stanze d’albergo, negli angusti corridoi del backstage e in interni di autobus, trovano la loro controparte nel palcoscenico, luogo naturale dell’attività performativa di Neil Young e dei Crazy Horse. Là si compone l’universo jarmuschiano delle facezie quotidiane contrassegnate da un’irresistibile leggerezza dell’essere, mentre sul palco prende forma la pregnante poetica di Young. È così che Year of the Horse acquista il suo ritmo nell’alternanza di pieni e vuoti, di forte e piano, frutto di un lavoro corale, come lascia intendere Jarmusch quando abbandona la cinepresa e dunque la sua posizione di privilegiato orchestratore del lavoro e si fa riprendere accanto all’amico e collega Young.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) MOSCA UMBERTO, Jim Jarmusch, Il Castoro Cinema, Milano 2000, p. 8.
(2) intervista realizzata nel 1989 in Luc Sante, “Mistery Man”, in AA.VV., Jim Jarmusch Interviews, a cura di L. HERTZBERG, University Press of Mississippi, 2001, p. 92

Liliana Cavani, l’immagine che ‘stride’

Introduzione
Il cinema di Liliana Cavani “non offre acquisizioni sicure ma propone piuttosto degli interrogativi. Esso è volto più a dividere che a suscitare consensi, a problematizzare la riflessione, la considerazione critica” (1).
La criticità che emerge dalle pieghe del suo cinema deriva prima di tutto dallo sguardo libero, spontaneo e demistificatore della regista, votato a “guardare alla realtà senza i manicheismi imposti dal dualismo ideologico con le sue formule aprioristiche di interpretazione della realtà” (2).
Nelle pagine seguenti si è tentato di evidenziare come la libertà di tale sguardo derivi dalla capacità di sfruttare le due opposte possibilità presenti nella pratica cinematografica, quella dell’attestazione di verità dovuta alla natura indicale del mezzo, e quella dell’invenzione artificiosa favorita in primis dal montaggio delle immagini.
Il cinema della Cavani è volto all’emersione della natura ambigua e polisemica dell’immagine filmica-fotografica in quanto traccia del reale: lo spettatore corre spesso il rischio di cadere nella trappola cortocircuitante, predisposta dalla regista con rigore, che lo disorienta tanto da renderlo incapace di distinguere la realtà dalla finzione. Funzionale alla promozione di tale effetto è l’uso ‘spregiudicato’ di alcuni dettagli attinti dal repertorio delle immagini horror in un film come La pelle, in cui sono stati individuati tre momenti privilegiati di fruizione ‘estrema’ dell’immagine.
La regista preme il ‘pedale’ iperrealista anche in Francesco, il secondo film sul santo di Assisi interpretato da Mickey Rourke. Una lettura dell’opera volta ad encomiare la performance della star americana, per quanto possa risultare convincente, può dimostrarsi fuorviante per il riconoscimento d’alcuni aspetti del film la cui soggiacente intenzionalità può ritenersi davvero eversiva. Questo convincimento nasce dalla caparbietà con cui la regista insistette sulla necessità che Francesco d’Assisi fosse interpretato dall’attore americano: “Al produttore non ho lasciato alternative: niente Rourke, niente Francesco” (3).
La nostra proposta interpretativa s’incardina sull’operazione di liberazione da un’immagine-feticcio che la Cavani avrebbe effettuato sull’immagine-corpo di Mickey Rourke. In altre parole la regista avrebbe insistito sulla scelta di Rourke per abbattere l’icona del sex-symbol al fine di liberare il carisma e la spontaneità di un attore di cui ella intravedeva le grandi potenzialità: “Lui ha molta più fede nel mestiere dell’attore di quanto lasci capire” (4).
Anche in quest’ultimo caso ciò che preme sottolineare è la forte ambivalenza dell’immagine, ‘contesa’ dalle logiche dello star-system da una parte, e dalle esigenze diegetiche interne al film dall’altra.
La mise en abîme è, dunque, una delle cifre del cinema di Liliana Cavani in quanto nei suoi film niente è quello che dovrebbe essere, niente è quello che a noi sembra. A proposito del film Milarepa, l’autrice invita a considerarlo come “un viaggio nel labirinto”, cioè un mito che “puoi ripetere mille volte perché ogni volta torni indietro con qualcosa di differente dentro di te” (5).
Nell’analisi dedicata a Milarepa si è tentata una lettura originale del film, a partire da un’altra componente che caratterizza alcune opere della regista, ovvero la naïveté delle scelte registiche, che rimandano all’archeologia del cinema, al candore e alla semplicità delle origini; elementi che descrivono lo stesso percorso di formazione dell’asceta tibetano.
Dal cinema delle origini la regista mutua anche l’aspetto spettacolare, la fondamentale ed originaria componente della meraviglia e del divertimento: assistiamo nel film a veri e propri prodigi che fanno subito pensare alle magie cinematografiche praticate dai registi ‘primitivi’ che entusiasmavano il pubblico grazie agli effetti speciali, alle dissolvenze e a tutto il repertorio dei trucchi d’illusione attraverso cui si cercava di riprodurre la dimensione onirica o creare funambolici viaggi immaginari.
L’entusiasmo della Cavani per certe soluzioni deriva da un sentimento religioso di totale apertura e sperimentazione che Pier Paolo Pasolini colse con la sensibilità e l’intelligenza che gli erano proprie: “la Geometria che sintetizza tutti i punti di vista possibili della vita (vissuta e vista vivere) di Milarepa ha, come dire, tecnicamente, i caratteri della visione religiosa del reale, che è appunto sempre polivalente e onnicomprensiva” (6).
In conclusione, attraverso l’analisi dei tre film succitati, ovvero Milarepa, La pelle e Francesco, si contempleranno alcuni aspetti del cinema cavaniano che, dal candore naïf alla crudezza più esasperata, descrivono lo statuto dell’immagine in quanto elemento fortemente ambivalente, cangiante, anzi appositamente predisposto ad evitare quel processo di disambiguazione tipico di ogni atto di simbolizzazione. Così Milarepa, in ragione della propria struttura mitica, diventa passibile di sempre nuove letture; La pelle diviene l’exemplum più raffinato dell’ambiguità tra realtà e finzione che si traduce nello stridore, nell’oscenità e nella non-dicibilità dell’immagine; Francesco è il luogo critico di un’immagine contesa tra il proprio ‘statuto’ di feticcio pubblico e le esigenze ‘interne’ della diegesi.
Milarepa (1973)
Milarepa, film girato dalla regista carpigiana nel 1973, è l’opera che, forse più d’ogni altra, contiene in sé quella componente di naïveté che caratterizza parte della sua produzione e del suo approccio al cinema, a volte ammantato di un candore e di una semplicità disarmanti, che spesso però trovano ragione nello spirito libero, spontaneo e audace della Cavani, come si evince dalle sue dichiarazioni: “Secondo me è importante fare quanto si desidera, non arrendendosi all’idea che sia impossibile” (7), e ancora: “Mi sono abituata a pensare che le cose impossibili sono meno impossibili di quanto si pensi” (8).
Insomma lo spirito pionieristico della regista è ciò che la sostiene nelle sfide più difficili ed è lo stesso, d’altra parte, che in alcuni frangenti la conduce a soluzioni tanto (apparentemente) ingenue da destare una grandissima commozione.
L’amore per il cinema e la fede che in esso ripone sono il motore di quello slancio entusiastico che trapela in modo eccezionale in Milarepa: “Il cinema è la maniera in cui i miei pensieri prendono forma. Se i fratelli Lumière non ci avessero dato il cinema, io sarei stata condannata a non esprimermi e sarei infelicissima oppure in un manicomio” (9).
Quest’ultima citazione ci permette di inoltrarci più a fondo nella trattazione osservando che proprio in Milarepa si possono individuare diverse soluzioni registiche che all’archeologia del cinema sembrano ispirarsi e modellarsi: i Lumière, Méliès, il cinema comico americano e le stesse avanguardie russe affiorano come muti ispiratori nella costruzione di alcune scene e sequenze.
Ora, questo rifarsi all’ingenuità e freschezza del cinema delle origini, trova la sua controparte nella stessa filosofia alla base del percorso di saggezza intrapreso dal protagonista. Il ‘candore’ del cinema delle origini rispecchia l’apparente semplicità della filosofia orientale: è necessario regredire in sé stessi per ritrovarsi.
Milarepa è il racconto di un viaggio immaginario nelle terre del Tibet di uno studente universitario, Leo, che si identifica nell’asceta tibetano dell’undicesimo secolo Milarepa. Essendo un racconto del tutto immaginato, i luoghi in cui si svolgono i fatti non sono quelli autentici ma ricostruiti dalla coscienza del protagonista che nel film si identificano con le montagne brulle dell’Abruzzo. Anche gli abiti non sono filologicamente attendibili ma frutto dell’immaginazione così come la lingua parlata dai discepoli, un italiano contaminato da un accento straniero.
Ciò che accomuna tutte queste istanze è un’idea di esotismo, non fisicamente esperito ma mentalmente immaginato. Dice bene Ciriaco Tiso quando sottolinea che “Milarepa è l’affermazione dei valori dell’immaginazione, la dichiarazione della felicità del narrare e dell’inventare evitando la fantasia sfrenata; è l’immaginazione che supera il realismo, ma che da esso nasce” (10).
Come non trasporre questo pensiero e il viaggio di Milarepa al cinema delle origini e, perché no, a Le Voyage dans la Lune di Méliès in cui l’immaginazione di un luogo esotico costruito attraverso delle scenografie dipinte fonda il proprio realismo a partire dalla natura indicale del mezzo cinematografico?
In secondo luogo Leo, avendo letto e tradotto il libro Rechung-Milarepa, si immedesima nell’asceta Milarepa e ugualmente proietta “la propria madre come madre di Milarepa, la sorellina come sorellina del mistico, il suo professore e la moglie come il saggio Marpa e signora. Trasporta insomma tutto il proprio mondo nella vicenda del mistico tibetano” (11).
Questo viaggio di continue andate e ritorni tra realtà e immaginazione presenta una geometria cristallina e una corrispondenza perfetta tra i vari personaggi ed elementi del film che Pier Paolo Pasolini elogiò in un intervento assai noto (12).
E d’altra parte questa stessa corrispondenza degli elementi è costruita su di un rigoroso e omogeneo montaggio cinematografico che, alternando le serie spazio-temporali in maniera manifesta ma senza cedere alla macchinosità, si fa garante del funambolico viaggio rendendo apertamente omaggio alle sperimentazioni degli stessi formalisti russi che, attraverso il montaggio, si dilettavano ad unire parti del mondo molto distanti tra loro dando vivo sfogo all’immaginazione.
Per Liliana Cavani il cinema è magia, e celo dimostra apertamente allorché Milarepa, su richiesta della madre, apprende la magia nera per vendicarsi dei famigliari che hanno spogliato la sua famiglia di ogni bene dopo la morte del padre. Milarepa si avvia, così, verso la strada della liberazione che gli consentirà di “vedere senza occhi, toccare senza mani, giungere senza camminare”; queste parole riassumono la natura e le potenzialità del mezzo cinematografico che, attraverso il montaggio e in virtù della propria ontologia, permette di solcare distanze spazio-temporali altrimenti incolmabili e provocare fenomeni incommensurabili. È grazie al cinema che Milarepa, con un semplice gesto della mano, è in grado di far crollare una casa intera o seminare morte e distruzione in un villaggio di contadini, il cui “prodigio” egli potrà verificare accompagnato dall’andamento traballante della cinepresa che ‘simula’ un taglio delle riprese in stile reportage.
Una delle scene più commoventi è la resurrezione dei pesci, animali sacri, ad opera di un saggio eremita, il Lama Nyingma, che Milarepa incontra nel suo viaggio.
Il Lama è intento ad abbrustolire alcuni pesci da lui pescati per poi consumarli e finalmente donare loro nuova vita: “Come potrei uccidere delle vite se non sapessi resuscitarle?”.
Attraverso un gioco di dissolvenze le lische dei pesci riacquistano carne e vita attestando il potere di resurrezione del cinema.
Liliana-Cavani-1
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Tale messaggio è reso esplicito dall’effetto ‘artigianale’ del miracolo e pur tuttavia realistico nel suo cosciente atto di fede.

Il concetto di resurrezione è particolarmente congeniale ad un discorso sulla natura ontologica dell’immagine filmica tanto da impegnare lo stesso André Bazin, che alla questione dedicò alcuni capitoli del suo Che cos’è il cinema? Il critico francese ravvisava nella morte l’istante qualitativo per eccellenza per la sua unicità e metteva in rilievo come la riproducibilità meccanica di tale evento rasentasse l’immoralità (13).
La Cavani sembra avvalorare, attraverso questo piccolo ‘saggio’ cinematografico, la tesi proposta da Bazin sull’ontologia dell’immagine filmica e guardare con entusiasmo al prodigio, pur esimendosi sempre dal filmare la morte (vera) in diretta.
Ed infine veniamo all’incontro di Milarepa con Marpa che segna il degno epilogo di una vera e propria apologia del cinema.
Tale incontro si pone subito all’insegna di un rapporto di sudditanza rispetto al maestro che non ha nessuna intenzione di iniziare immediatamente il discepolo alla dottrina. Prima egli dovrà, attraverso mille fatiche e prostrazioni, depurarsi dal karma negativo.
Così Milarepa verrà sottoposto ad una serie di torture fisiche e psicologiche, tra le quali quelle che contemplano la costruzione di una torre, che egli ricostruirà per ben tre volte a causa dell’apparente volubilità del maestro.
Ebbene, al di là della serietà intrinseca dell’evento, esso si tinge di note tragicomiche, di un’ironia che “sembra una simpatica trovata per evidenziare tutta l’abnegazione su cui deve far leva Milarepa-Leo, per completare il suo percorso di formazione” (14).
In realtà questa “simpatica trovata”, nella sua struttura sintattica, ricorda molto da vicino certe soluzioni del grande cinema comico quale quello di un Charlie Chaplin o di un Buster Keaton, in cui la comicità deriva dalla ripetizione differente di un unico sintagma figurativo o narrativo. Le gag si distinguono spesso per l’ossessiva ripetitività di una serie di situazioni e per la loro propensione a tendere verso una conclusione catastrofica. Così come avviene per Milarepa che rischia di morire di stenti per realizzare una torre apparentemente inutile.
Oppure si pensi alle potenzialità comiche dell’io arbitrario, lirico e imprevedibile di Chaplin e lo si accosti all’arbitrarietà delle direttive e delle osservazioni di Marpa che si rivolge allo spossato Mila vanificando il suo lavoro: “Demolisci la torre, il posto non è buono. Costruisci là al nord. Se non ti piacciono le mie idee vattene”, oppure “Tutto sommato adesso la preferisco quadrata”, e ancora: “Ragazzo, con quel rumore disturbi la nostra lettura. Fai piano!” ed infine: “Chi ti ha aiutato a mettere quella pietra lì? Le pietre di questa casa devi metterle tu con le tue mani. Toglila.” Inoltre l’interpretazione di Paolo Bonacelli nel ruolo di Marpa invita ad una lettura anche divertita dell’episodio.
Insomma, il percorso di formazione di Milarepa offre l’occasione per una tragicomicità di grande respiro.
La pelle (1981)
La pelle, film girato da Liliana Cavani nel 1981 e tratto dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte, racconta dello sbarco a Napoli degli alleati nel 1943.
Paradossalmente si tratta di un film di guerra in tempo di pace: il nemico se n’è andato da tempo e ciò che rimane è una città sconquassata dalla barbarie della guerra in cui la mercificazione dei corpi di donne e bambini è all’ordine del giorno; i prigionieri di guerra sono venduti a peso d’oro; il furto è l’unica pratica possibile per garantirsi la sopravvivenza; persino la procreazione è contro-natura come ci testimonia il parto omosessuale. È un mondo in cui l’orrore diventa ordinario e la normalità un’eccezione secondo la logica infernale del ribaltamento dei valori.
I temi e l’atmosfera veicolati dal romanzo ispirano alla regista carpigiana un linguaggio cinematografico alternativamente grandguignolesco, iperrealista e che non lesina sui dettagli di corpi feriti o squartati attingendo di continuo al bacino di repertori e stilemi del genere horror e in particolare del suo sottogenere splatter, basato sull’estrema realisticità degli effetti speciali, che descrivono lo schizzare del sangue o la lacerazione dei corpi umani, con conseguente fuoriuscita di interiora.
Lo splatter degli anni ottanta è pure fortemente contaminato con il cosiddetto body horror, ossia un cinema che narra delle deformità fisiche del corpo umano.
Una certa fascinazione della regista per quest’ultima componente è confermata dalla presenza nel film di persone con deformità o stranezze fisiche; basti ricordare il fotografo gobbo e dal viso malformato che immortala con uno scatto la danza dei soldati scozzesi; la sirena cotta approntata per la cena “rinascimentale” in onore della moglie del senatore; le donne nane che offrono il loro sesso come un oggetto bizzarro; l’omosessuale ‘incinto’; la stessa vergine Maria Concetta rientra in questo carosello di ‘mostri’ per il suo imene non ancora lacerato.
Detto ciò, è necessario fare le debite distinzioni e capire come la regista si avvalga di certe desinenze del cinema horror declinandole però in una maniera del tutto personale e foriera di un potere corrosivo straordinario.
Il cinema splatter nasce per individuare e soddisfare i gusti di una fetta di pubblico e quindi per ragioni strettamente legate al mercato. Il suo obiettivo estetico è di disgustare il pubblico. Nelle sue realizzazioni più alte è in grado di farlo ragionare e riflettere sulla violenza presente nella società reale; in particolare il cinema horror degli anni Settanta costituiva l’abreazione di un inconscio collettivo stretto nelle morse psicologiche della guerra del Vietnam.
Tuttavia, trattandosi di un genere cinematografico, è caratterizzato da omogeneità e dunque anche da una certa percentuale di prevedibilità che inevitabilmente ne smorza l’efficacia.

L’operazione della Cavani consiste nel prelevare chirurgicamente alcuni frammenti dal repertorio delle immagini horror di ‘serie B’ e inserirli con encomiabile raffinatezza su una macchina cinematografica di ‘serie A’, erede della tradizione del cinema classico hollywoodiano e che ammicca anche al neorealismo italiano. La Cavani unisce il sacro al profano, “mescolando l’horror al sentimentale, il sordido del vicolo alla sontuosità dei palazzi patrizi” (15), con una verve genuina e spontanea che raccoglie le diverse ed eterogenee istanze in un eclettismo, se vogliamo anche un kitsch, davvero autentici, mai scadenti nella maniera: “Nel mio lavoro non c’è nulla di premeditatamente teso all’oltranza: probabilmente la vera libertà di cui ho sempre goduto a caro prezzo fa sì che quando il testo pretende certi modi di espressione io li adotti senza timori né autolimitazioni, e sempre con rigore professionale” (16).

L’ ‘ingerenza’ episodica dei dettagli splatter, nell’economia di un montaggio ben calibrato, crea dunque una frattura nel “contesto armonico” della narrazione filmica producendo un effetto “perturbante” (17) che si potrebbe figurativamente immaginare come uno squarcio nella superficie di celluloide, un momento cioè di stupore, di incanto in cui ci si smarrisce nell’immagine iperreale, nella iper-fiction. Liliana Cavani potrebbe essere a buon diritto considerata la novella Lucio Fontana dell’arte cinematografica.
La crudezza dell’immagine deriva dall’epoché, dalla sospensione del giudizio rispetto a ciò che i nostri occhi ci consegnano. Quando la Cavani afferma: “La crudeltà, l’egoismo in senso analitico e quindi il gioco, sono i mezzi per arrivare al realismo” (18) intende dire anche questo: che la violenza, la crudeltà perpetrata ai danni dello spettatore nel senso del comune modo di vedere e percepire il mondo, sono gli unici modi per destarlo e mostrargli la realtà del mondo.
A questo proposito sarà utile e illuminante fermarsi su alcuni di questi momenti privilegiati di ‘destrutturazione’ della visione nel film La pelle.
Una delle scene più raccapriccianti del film è quella in cui un soldato americano viene sventrato dall’esplosione di una mina. L’intera sequenza è costruita e orchestrata in maniera magistrale al fine di far emergere in tutta la sua carica eversiva il momento clou.
Il capitano Malaparte, assieme al capitano Jimmy, è impegnato ad acquistare alcuni rari generi alimentari in occasione del ricevimento di Deborah Wyatt, la moglie del senatore del Massachusetts. Il pranzo contemplerà un “menù rinascimentale in piena guerra mondiale” come afferma con ilarità Jimmy; parole che palesano una situazione grottesca: l’apice del superfluo e della stravaganza convive nello stesso luogo, Napoli, in cui un tozzo di pane è comprato prostituendo donne e bambini.
La situazione è talmente paradossale e portata alle estreme conseguenze che, letteralmente e visivamente, esplode: un soldato americano, con le braghe calate, sta ‘defezionando’ per un bisogno intestinale impellente, esce fuori del campo visivo dello spettatore che ode una detonazione: il soldato ha pestato una mina ed è saltato in aria.
Subito dopo scopriamo le sue budella riversarsi sull’ uniforme: un vero frammento splatter che abbacina la vista e produce un effetto simile alla pornografia per l’oscenità del taglio ‘documentaristico’ dell’immagine.
E l’oscenità è un tabù come lo è la morte, è qualcosa che non si riesce a comporre cognitivamente come dichiara la stessa regista a proposito dell’esperienza che, ancora bambina, visse di fronte ai cadaveri di alcuni partigiani: “L’immagine di quei morti fucilati mi ha angosciato per lungo tempo. Ma io non me ne rendevo conto… Li ho sognati per molto tempo. E siccome non avevo la religione che mi aiutasse a capire, per me rimaneva un mistero che purtroppo non riuscivo a mettere d’accordo con nessuna ideologia” (19).
In virtù della propria oscenità questo frammento costituisce uno dei pochi momenti ‘autentici’ del film. Il che viene ribadito molto sottilmente poco dopo. Per distrarre il soldato morente il capitano Malaparte e un sergente americano inscenano una commediola farcita di stereotipi: “Hei cumpà!”, incalza l’americano, “Chewing gum”, risponde Malaparte e così via: “A’ sta fasù!”, “Yankee dollar”, “Hei, cazz’in cul”. Quindi Malaparte è chiamato ad imitare Mussolini sempre nell’intento di distrarre il soldato morente. Mani sui fianchi, impettito e imbronciato il capitano recita la sua parte: “Italiani! Italiane! Dopo venti secoli…!”. Ma fallisce, non è in grado di proseguire: l’imitazione della realtà non può supplire alla realtà stessa; l’ideologia in quanto contraffazione della realtà non regge di fronte all’oscenità della morte. S’inscrive in questa splendida pagina cinematografica anche una corrosiva critica alla retorica del fascismo.
L’intera sequenza, dunque, si carica di una forza distruttiva dirompente che si abbatte sull’ultima parte della stessa sequenza, portatrice di un’ennesima ideologia.
Al primo incidente sul campo minato ne segue un vero e proprio bis.
Pasqualino, il fratello di Maria Concetta, la vergine che ha confortato il soldato morente, sottrae agli americani la valigetta di soccorso e si dirige verso il campo minato. Jimmy lo rincorre e, in uno slancio spettacolare, lo salva da morte certa.
L’evento e il suo lieto fine con Jimmy e Maria Concetta che si sorridono palesa da subito la propria natura di clone, di fac-simile, di realtà edulcorata e riparatrice rispetto al primo incidente. Ed è così che lo stereotipo dell’alleato americano soccorritore del popolo italiano viene completamente demistificato secondo uno dei proponimenti dell’autrice: “La pelle è nato dal libro di Curzio Malaparte, dal desiderio di raccontare una situazione mistificata dai luoghi comuni, che era stata nella realtà più abietta ma più vitale” (20).
Un’altra sequenza di mirabile maestria è quella seguente che s’incardina sul “pranzo rinascimentale” imbandito in onore di Mrs Wyatt, l’aviatrice americana giunta a Napoli alla ricerca di un po’ di fama.
Efferata è l’ironia lanciata verso l’intelligentia americana la cui ignoranza sul paese ospitante è abissale. Il pranzo cosiddetto “rinascimentale” in realtà si tiene in un palazzo settecentesco ed è servito da maggiordomi in abiti pure settecenteschi; la pannocchia di mais consumata dagli ospiti non era certo un alimento prelibato per i nobili del Rinascimento quanto la base dell’alimentazione dei contadini padani dell’epoca; la convinzione dell’ospite d’onore che “Esposito” sia un cognome nobile non viene scalfita nemmeno dalla cortese spiegazione di Malaparte; l’apice del parossismo si raggiunge con la portata d’eccellenza: pesce bollito con maionese.
Ed ecco che qui fa la sua comparsa l’ennesimo inserto splatter che poco più sopra abbiamo precisato afferire al sottogenere body horror.
Il piatto prelibato consiste in uno strano mostro grigiastro dotato di coda e pinne con inquietanti sembianze umane. Ancora una volta lo sguardo dello spettatore viene violentato da un oggetto sulla cui esistenza non si può che dubitare; eppure la sua realtà, il suo esserci qui ed ora viene sottolineato e ‘comprovato’ dalle scelte registiche: il mostro viene offerto alla vista dello spettatore secondo plurimi punti di vista: di fronte, dal didietro e nello scorcio del mento e del seno quasi a volerne dare una visione a tutto tondo, e dunque veritiera, attraverso un procedimento analitico.
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Liliana Cavani sirena
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Tuttavia l’aspetto forse più interessante è l’insieme dei discorsi, delle affermazioni che descrivono la portata la cui ambiguità e contraddittorietà contribuiscono a promuovere la suspense e a disorientare lo spettatore. Cork lo presenta come “pesce bollito con maionese”, “ghiottoneria”, “delicato bocconcino”; quindi tale assunzione di significato inizia una parabola discendente che conduce addirittura a negare l’esistenza dell’oggetto, dapprima presentandolo come un essere raro, “una sirena” appunto, poi immaginario, “la sirena che tentò Ulisse”, fino a negarne l’esistenza: “le sirene non sono mai esistite”. Allorché il fantomatico pesce viene scoperchiato lo spettatore è costretto ad attestare la realtà dell’immagine e di conseguenza la plausibilità di tutti i discorsi che precedentemente sono fioriti su di essa. Così l’ipotesi che si tratti di una “bambina cotta” non ha più credito di quella contraria per cui si possa trattare effettivamente di una “sirena decaduta”. Solo un atto di arbitrarietà può dare allo spettatore il diritto di scegliere nel caleidoscopio semantico dell’immagine. Insomma, siamo di fronte a un saggio metacinematografico in cui la regista afferma la polisemia dell’immagine filmica-fotografica e la sua intima essenza religiosa e politica: “Il cinema è politico solo quando lascia lo spettatore inquieto, dérangé o entusiasta di fronte a qualcosa di irrisolto” (21).
Veniamo ora alla sequenza finale del film per concludere coerentemente la lettura fin qui proposta.
Sulla strada per Roma gli americani, da esemplari ‘colonizzatori’, si appropriano dell’antica lingua latina per piegarla ai propri fini autocelebrativi come si evince dallo scambio verbale dei due uomini della Quinta Armata americana: “Sic iter ad astra!”, esordisce il primo, “Tempus fugit” ribatte il secondo. Il famoso passo virgiliano che significa “Questa è la strada per l’immortalità” viene tradotto con “Questa è la strada per le stelle”, dove con “stelle” si intendono le ‘stellette’ della bandiera americana o, in alternativa, le superstar del pantheon hollywoodiano al quale il prode generale Cork avrà presto accesso.
La Cavani non si lascia sfuggire l’occasione per presentare gli alleati tutti intenti ad allestire, alle porte della città eterna, un megagalattico set cinematografico degno di un kolossal americano per accogliere il nuovo Cesare. Così i soldati, divisi in comparse e fotografi di scena, si danno un bel daffare ad immortalare una delle due facce d’America, preparando sullo sfondo un grande cartello con la scritta “ROMA” tutto trapuntato di lampadine che lo fanno assomigliare a un’insegna luminosa di Las Vegas.
Ma tale impalcatura posticcia è destinata a crollare miseramente nella cruente, terrificante e ripugnante immagine dell’uomo triturato dai cingoli del carrarmato, che ancora una volta non può fare a meno dell’iperrealismo del dettaglio splatter.
La crudeltà e l’assurdità della guerra ne La pelle si inseriscono nell’ottica di una ‘volontà’ di perversione del male che ne fa un film epico.
Francesco (1989)
Il cinema scomodo, urtante, stridente della Cavani raggiunge punte iconoclaste in Francesco, diretto nel 1989 con protagonista Mickey Rourke nel ruolo del santo di Assisi.
Film che non è per nulla un remake del primo Francesco d’Assisi ma una creatura nuova il cui motivo ispiratore sembrerebbe essere l’abbattimento di un’icona, di un feticcio quale è il sex-symbol Mickey Rourke, ‘reduce’ da film quali, solo per citarne alcuni, Nove settimane e 1/2 (1986) e Johnny il Bello (1989).
La messe di critiche e polemiche che si raccolse in occasione della presentazione del film a Cannes si appuntava principalmente sulla performance dell’attore protagonista. Ai pareri entusiasti che ne sottolineavano la forza di penetrazione e la straordinaria interpretazione sostenuta da un solido carisma, se ne alternavano altri, più azzardati, che proponevano un parallelismo tra le vite di Rourke e Francesco, entrambi dediti, almeno per una parte della loro vita, a certi rilassamenti morali ed entrambi seduttori seppur di genere diverso… Non mancarono poi le stroncature e le invettive tra le quali una delle più scottanti fu quella lanciata da Carlo Laurenzi per “Il Giornale Nuovo”, che descrisse Mickey Rourke come “una stella spenta”, i cui occhi “sono lucidi come di pianto o di febbre o magari di sazietà alcolica” (22), con un chiaro riferimento alla sua tormentata vita professionale e privata.
Neppure Tullio Kezich per il “Corriere della Sera” si contenne, osservando che “lo spessore carismatico del personaggio non si ritrova nel playboy pentito Mickey Rourke che (…) raffigura un Francesco più furbetto che ispirato, più balordo che mistico (…) Rourke è quello di 9 settimane e 1/2” (23).
Positivo o meno il giudizio, il valore del film si misura in base alla capacità di Rourke di convincere.
Insomma l’immagine dell’attore è divisa tra l’ambito professionale – divistico e quello privato in una tensione mai componibile. In questo senso si profila una nuova proposta di lettura dell’opera della Cavani, un’impresa rischiosa, dall’effetto détournante, shockante per lo spettatore, costretto continuamente nell’immane sforzo di sovrapporre o comporre l’immagine minuta e gracile del sant’uomo con quella sensualissima e poderosa dell’attore americano, pena la non credibilità; operazione che è già condensata nei titoli di testa ove il nome dell’attore è seguito dal primo nome del santo, a sottolineare l’intenzione, dal principio della pellicola, di fondere o, meglio, far configgere due individualità.
Mickey Rourke, avvolto negli stracci o nel saio francescano, è prima di tutto un oggetto ready-made, nell’accezione letterale e didascalica del termine, ovvero un comune oggetto di uso quotidiano prelevato dall’artista e posto così com’è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria.
Questo concetto è valido su più fronti. Mickey Rourke nel film della Cavani è ‘decontestualizzato’ innanzitutto rispetto ai ruoli comunemente ricoperti; la sua figura inoltre si distingue sommamente da quella degli altri discepoli in quanto è fisicamente più prestante, più alto di statura e porta una capigliatura fine anni Ottanta: tutti elementi che davvero contribuiscono a renderlo un alieno, catapultato in un’altra dimensione spazio-temporale, il che peraltro è la condizione del santo d’Assisi.
I comprimari non godono della fama di Rourke e né della stessa presenza fisica, a parte la co-protagonista, Helena Bonham Carter nel ruolo di santa Chiara. Tuttavia la sua notorietà come attrice non entra in conflitto con il ruolo ricoperto. La Carter si è affermata nel panorama cinematografico inglese come attrice particolarmente dotata per ruoli drammatici e la performance nel film della Cavani è in linea con il tipo di personaggio sul quale si è costruita la sua fama, come testimonia, un anno dopo, il ruolo di co-protagonista nel film Amleto (1990) al fianco di Mel Gibson. Ofelia, ruolo congeniale all’attrice, ripropone in parte il modello di Chiara, della donna dall’aspetto gracile, segnata da un biancore spettrale che ne denuncia la femminilità algida e, allo stesso tempo, la profonda sensibilità.
Ma torniamo a Mickey Rourke e alla sua immagine cinematograficamente ‘eretica’. La sfida della regista è di destituire l’immagine dell’attore dalle connotazioni di cui si è detto: il percorso di fede del santo, culminante nel ricevimento delle stigmate, nel Francesco della Cavani è funzionale ad una vera e propria ‘trasfigurazione’ del sex-symbol Mickey Rourke.
La scena in cui Francesco per la prima volta incontra un eretico nelle acque del lago segna l’incipit del suo percorso, caratterizzato da un’abissale lontananza dal messaggio cristologico che si riflette nella bellezza e floridezza del corpo. L’attore che, con il torso nudo, emerge dalle acque del lago dopo il bagno è una compiaciuta celebrazione della sensualità del corpo, dei muscoli scolpiti del pugile Rourke.
Quindi il corpo-Rourke è oggetto di scherno e di ridicolo come testimonia la scena in cui egli si spoglia delle vesti nella contesa giudiziaria col padre e la sua nudità, per la prima volta sugli schermi cinematografici di tutto il mondo, diviene oggetto di riso e di beffa. Quindi lo incontriamo di nuovo mentre chiede l’elemosina subendo l’indifferenza e la scortesia della gente. Ma ciò che sorprende di più è la piccola scodella per la questua che si porta appresso, sproporzionata rispetto al fabbisogno alimentare di cui quel corpo grande e prestante necessiterebbe.
L’umiliazione morale e corporale raggiunge l’apice nella scena in cui i vecchi amici di Francesco gli gettano addosso degli escrementi invitandolo a cibarsene mentre egli, indifeso, subisce l’affronto.
Non si può obliare, d’altra parte, la sequenza in cui Francesco-Rourke comprime la neve sui genitali per assopire i bollori carnali, un vero e proprio contrappasso rispetto alla vocazione di seduttore di cui la sua immagine si ammanta.
La prima vera crisi del santo sembra coincidere con la stesura della regola francescana, considerata troppo dura e disumana dalla crescente comunità di discepoli. È a questo punto che il corpo-Rourke subisce un vero e proprio processo di mortificazione: sul viso compaiono bozze di carne putrescente, gli occhi sono gonfi e arrossati per le lacrime, un biancore spettrale tinge l’incarnato di un uomo che emette gemiti infantili.
L’attore è quasi irriconoscibile tanto la regista ha infierito, tramite il trucco e la direzione di una recitazione tesa e, sul suo volto di larva e per di più insistendo sui primi piani offrendoci la geografia di una terra martoriata e per di più invitandoci a riconoscerne la realtà, sfruttando contemporaneamente le due opposte possibilità presenti nella pratica cinematografica, quella dell’attestazione di verità per la natura indicale del mezzo, e quella dell’invenzione artificiosa; un sodalizio che legittima un viaggio verso i territori dell’immaginario a metà strada tra realistico e illusorio, fantastico e documentario, fedele e infedele.
D’altra parte è la stessa regista che insiste sull’importanza della corporeità nel Francesco: “Vorrei anche dire qualcosa sull’esperienza della fisicità di Francesco, cioè l’espressione della testimonianza non attraverso le parole o le dichiarazioni, ma solo attraverso l’uso del corpo” (24). Declinando tali affermazioni sulla nostra ipotesi potremmo ipotizzare che ‘vilipendere’ il corpo di Mickey Rourke è funzionale al dissolvimento del feticcio che come un’aurea avvolge la sua immagine e, di conseguenza, favorisce l’emersione del carisma più genuino, della natura istintiva e spontanea dell’uomo-Rourke.
Quando la Cavani dichiara: “L’esperienza di Francesco pare quasi un sogno impossibile… Forse ho voluto raccontarla per crederci” (25), forse pensa anche al tipo di operazione sopra descritto: liberare l’attore dalla condizione di asservimento all’immagine fabbricata per lui dalla logica dello star-system attraverso un effetto perturbante. Legittimità a questa proposta è conferita dalle stesse affermazioni della regista: “Faccio di tutto per non commuovere gli spettatori. Non mi interessa fare piangere la gente ma farla riflettere” (26).
Il corpo martoriato di Rourke cambia addirittura i connotati, trasfigurandosi appunto, nella scena dell’antro cavernoso in cui si appartano Francesco e Leone. Allorché Francesco gli confessa il contatto con Dio nel “Deus mihi dixit”, un primissimo piano ne inquadra il volto e si nota che l’occhio sinistro ha subito un viraggio di colore: è quasi bianco. Non ci si crede, si sente la necessità di stropicciare gli occhi e verificare se non ci si trovi di fronte alla trasformazione di un licantropo, degna di un film horror. Si tratta di una vera e propria epifania cinematografica resa possibile però dalla episodicità degli ‘effetti speciali’.
Liliana-Cavani-Francesco-1
Un’ulteriore dimostrazione di come nel cinema di Liliana Cavani, nella oscillazione di opacità e trasparenza della rappresentazione, si incunea la magia del cinema e la sua verità in quanto ‘traccia’ del reale.
(1) S. Borelli, “Fare cinema come ricerca di orientamento” in Il cinema di Liliana Cavani: atti del convegno: Carpi 25 febbraio-3 marzo 1990, a cura di Primo Goldoni, Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno 1993, p. 51, 54
(2) G. Bozza, “Il senso della storia per vivere il presente” in Liliana Cavani. Lo sguardo e il labirinto, Associazione Fondo Liliana Cavani, 2003, p. 11
(3) Intervista a cura di Bruno Blasi in “Panorama”, 23.3.1989
(4) Ibidem
(5) Dichiarazione di Liliana Cavani raccolta da R. F. in “La Fiera Letteraria”, 10.3.1974 e riportata ne Lo sguardo libero, a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze 1990, p. 66
(6) P. P. Pasolini, in “Cinema Nuovo”, n. 229, maggio-giugno 1974
(7) Intervista con Lietta Tornabuoni riportata ne Lo sguardo libero, a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze 1990, p. 13
(8) Ibidem, p. 14
(9) Intervista con Liliana Cavani a cura di Ciriaco Tiso riportata in Liliana Cavani, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 2
(10) C. Tiso, Liliana Cavani, La Nuova Italia, Firenze 1975, pp. 86-87
(11) F. Buscemi, Invito al cinema di Liliana Cavani, Mursia Editore, Milano 1996, p. 65
(12) P. P. Pasolini, in “Cinema Nuovo”, n. 229, maggio-giugno 1974
(13) A. Bazin, “Morte ogni pomeriggio” in Che cosa è il cinema?, Garzanti Editore, Milano 1999, p. 31-32
(14) F. Buscemi, Invito al cinema di Liliana Cavani, Mursia Editore, Milano 1996, p. 68
(15) G. Grazzini, “Lo scandalo della verità” in Il cinema di Liliana Cavani: atti del convegno: Carpi 25 febbraio-3 marzo 1990, a cura di Primo Goldoni, Grafis Edizioni, Casalecchio di Reno 1993, p. 143
(16) Intervista con Lietta Tornabuoni riportata ne Lo sguardo libero, a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze 1990, p. 14
(17) G. Marrone, Lo sguardo e il labirinto, Marsilio Editori, Venezia 2003, p. 25
(18) Intervista con Liliana Cavani a cura di Ciriaco Tiso riportata in Liliana Cavani, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 11
(19) D. Maraini, Ma tu chi eri? Interviste sull’infanzia, Bompiani, Milano 1973, pp. 75-87
(20) Intervista con Lietta Tornabuoni riportata ne Lo sguardo libero, a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze 1990, p. 14
(21) C. Clouzot, Entretien: Liliana Cavani, le mythe, le sexe et la révolte, « Ecran 74 », n. 26, giugno 1974, p. 38
(22) C. Laurenzi, “Il Giornale Nuovo”, 23.3.1989
(23) T. Kezich, “Corriere della Sera”, 23.3.1989
(24) L. Cavani, “Litterae Communionis”, anno XVI, n. 10, ottobre 1989
(25) Intervista a Liliana Cavani riportata in F. Di Giammatteo, “Cavani: la nausea del diverso, il rifiuto del dubbio” ne Lo sguardo libero, a cura di P. Tallarigo e Luca Gasparini, La Casa Usher, Firenze 1990, p. 16
(26) C. Clouzot, Entretien: Liliana Cavani, le mythe, le sexe et la révolte, « Ecran 74 », n. 26, giugno 1974, p. 38

Locarno 2014, Pardo d’oro a Lav Diaz per From what is before

Pardo d’oro 2014 a Lav Diaz per il suo From what is before. Il festival del film di Locarno dà prova di grande apertura mentale, comprovata dall’aggiudicazione del massimo riconoscimento al regista filippino e alla sua monumentale opera di 338 minuti, quasi sfidando, di rimpallo, il festival di Cannes che, nella sua scorsa edizione, ha onorato della Palma d’oro Winter sleep, del turco Nuri Bilge Ceylan, di ‘soli’ 198 minuti. Un film lunghissimo, dunque, che assurge a stendardo di un festival che non fa concessioni a nessuno e che, a ogni nuova edizione, non perde occasione per dichiarare il suo incondizionato amore per il cinema o, meglio, il “film”, nastro fatto di immagini e suoni, velo di Maya che ci regala, a seconda dei casi, consolatorie, giubilatorie piuttosto che salvifiche esperienze estetiche.

Ponendosi in marcato dissenso (o assoluto disinteresse) con il cinema mainstream e le sue logiche di mercato, From what is before è un’opera che, per la sua lunghezza e lentezza, mutuate dall’assenza di movimento della macchina da presa, cristallizzata in silenti piani fissi, invita ad un’ esperienza estetica che si sgancia da una fruizione di tipo spettacolare, rappresentazionale e quindi, di per sé, mistificante ma va oltre, facendo coincidere il tempo della visione con quello della vita. Lo spettatore è libero (anche, letteralmente, di lasciare la sala) di impregnarsi di immagini e suoni, che investono qualcosa che è dell’ordine della sensazione piuttosto che dell’emozione. Una volta compiuto questo atto di fede, anche la nozione di tempo diviene relativa, perché non più esperito linearmente come concatenazione di causa ed effetto ma il suo trascorrere è funzionale ad un’intensificazione delle sensazioni.

Ciò che ci consegna, innanzitutto, From what is before, è il racconto del legame fusionale dell’uomo con la natura sottolineato da un magnifico bianco e nero in cui corpi umani e natura si compenetrano, bagnati, come sono, della stessa luce. Tale rapporto con la natura viene di volta in volta investito di sacralità (i canti tribali che inneggiano alla divinità della pioggia, Itang offerente di fronte al mare in burrasca) e di oscuro fatalismo (alcune capanne bruciano nella notte mentre il bestiame viene decimato per un’epidemia batterica). La comunione con la natura è sigillata nei lunghi piani fissi in cui l’uomo attraversa spazi sterminati o si rintana tra le frasche per ripararsi dal temporale in un silenzio estatico rotto solo dal ticchettio della pioggia.
Le Filippine, battute dai monsoni, da uragani, tifoni e, alternativamente, soggette a siccità o a piovisità prolungate e intense, diventano il luogo privilegiato della lotta dell’uomo con la natura.

Una natura che è spesso matrigna, imperscrutabile e che, alle volte, genera creature bizzarre, come l’indifesa Joselina, venere senza discernimento e mostro taumaturgo. Itang si prende cura, sacrificando tutta sé stessa, della sorella affetta da autismo. La consapevolezza di questa disgrazia e del destino crudele che l’attende, spingono Itang ad affidarsi ad una religione meticcia: la più intensa sequenza del film è forse quella in cui Itang si reca alla scogliera e, allargando le braccia al cielo, prega, di fronte al mare in burrasca, una Vergine ‘indigena’, alla quale fa un’offerta votiva per propiziare una miracolosa guarigione della sorella. Attraverso questo brano di sublime poesia Lav Diaz ci parla non solo della struggente tensione dell’uomo verso il trascendente ma anche del popolo filippino, un variegato di etnie in cui la cultura e confessione cristiane, importate dai conquistatori Spagnoli a partire dal Seicento, si sono ibridate a rituali tribali e superstizioni arcaiche.

Secondo le parole del regista, From what is before “si basa sulle mie memorie di infanzia, due anni prima che la Legge Marziale venisse dichiarata nelle Filippine. Fu l’avvento del periodo buio della nostra storia, fu catastrofico. Ogni cosa nel film proviene dalla mia memoria, tutti i personaggi sono veramente esistiti, ne ho solo cambiato i nomi”. Alla luce di questa dichiarazione, il soggetto principe del film dovrebbe essere la devastazione del villaggio filippino ad opera delle milizie di Marcos. In realtà, a parte l’ultimissima parte in cui una brigata di spietati boia cacciano con violenza dal villaggio gli ultimi resistenti, l’intervento dei soldati stanziali è piuttosto sporadico e, apparentemente, non troppo invasivo, lasciando che i destini dei singoli personaggi si compino autonomamente e indipendentemente dalla presenza dei miliziani. Per questo l’impressione è che ci sia uno scollamento tra i due assi narrativi, come se si trattasse di due galassie distinte che si sfiorano per caso, senza alcun rapporto di necessità, ma che confluiscono verso lo stesso scenario finale: la dissoluzione del villaggio.

D’altra parte, queste due macrostorie appartengono a ‘tempi’ diversi. Gli abitanti del bario filippino e i fatti che li riguardano sono investiti di un’aura sacra e agiscono in una dimensione mitica: Tony, il commerciante di vini, abusa di Joselina, definita ‘kapre’ (demone), dalle malevoci diffuse da Heding. Questo atto di profanazione segnerà il destino del villaggio conducendo tutti gli abitanti a macchiarsi di una colpa: l’oltraggio subito da Joselina menerà Itang all’omicidio della sorella e poi al suicidio; padre Guido, la guida spirituale del villaggio, mente sull’accaduto per ‘salvare’ la memoria delle due sorelle; Sito sopprime Tony dopo la delazione del piccolo Hacob.
L’altro asse narrativo, che costituisce un fatto storico, è rappresentato dall’ arrivo nel villaggio delle truppe di Marcos ed è formato dalla relazione triangolare di tre attori: l’insieme degli abitanti del villaggio ostili all’accampamento dei soldati, la spia infiltrata Heding e il general Perdido, due ‘emanazioni’ di Marcos. Secondo questo altro punto di vista la causa della fine della comunità è l’insofferenza e la paura degli abitanti che, uno dopo l’altro, abbandonano il villaggio lasciando il campo al dittatore.

La difficoltà o il mistero del film risiede nella convivenza della dimensione sospesa del mito, interpellante il sacro e l’umano, e della contingenza storica, ricostruita attraverso alcuni brani non sempre adeguati al tono tutto sommato lirico del film e, talvolta, scadenti nel grottesco. Si pensi all’incontro tra Heding, deposta dopo due anni dal suo incarico di agente segreto infiltrato nel villaggio per sondarne gli umori verso il regime, e il general Perdido: i due brindano all’avanzata delle truppe, burlandosi malignamente degli abitanti del villaggio.
L’impressione è che queste due istanze, invece di rafforzarsi l’un l’altra, rischino di far scivolare il film verso una deriva o confusione di significato che non gli giova.

A meno che si voglia leggere la vittoria delle truppe di Marcos e, dunque, della sua sanguinosa dittatura, attraverso lo specchio dell’ irriducibile isolamento esistenziale dei personaggi. Perché se l’impressione iniziale è quello di un corpo sociale coeso da riti e credenze comuni, di un villaggio di uomini e donne legati da genuini affetti familiari o di vicinato, che praticano prioritariamente il baratto senza che il denaro ne abbia deteriorato i rapporti, in realtà il film è una costellazione di solitudini e miserie private : l’alienazione mentale di Joselina è per Itang un calvario familiare cui non si può sottrarre ; Sito intrattiene con il figlio adottivo Hacob, che progetta segretamente di lasciare il villaggio per ricongiungersi coi genitori naturali, una relazione parentale basata sulla menzogna ; Tony è l’impunito profanatore di altari sacri e il violentatore di Joselina ; il maturo scrittore che torna nel villaggio natio dopo un lungo peregrinare, è ormai estraneo alla comunità e forse più devoto al passato, a trascriverne le memorie e a sigillare la fine di un’epoca.