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Francis Ford Coppola, Cotton Club (1984)

Sceneggiatura: William Kennedy, Francis Coppola e Mario Puzo, ispirata al libro fotografico: The Cotton Club: a Pictorial and Social History of the Most Famous Symbol of the Jazz Era, di Jim Haskins
Fotografia (Technicolor): Stephen Goldblatt
Montaggio: Barry Malkin, Robert Q. Lovett
Suono: Edward Beyer
Scenografia: Richard Sylbert
Coreografia: Michael Smuin e Hanry Le Tang
Musica: John Barry, Bob Wilber (brani originali di Duke Ellington e Cab Calloway)
Produzione: Robert Evans per la Totally Indipendent Ltd.
Durata: 128’
Interpreti: Richard Gere (Dixie Dwyer), Nicholas Cage (Vincent ‘Mad Dog’ Dwyer), Gwen Verdon (mamma Dwyer), Gregory Hines (Sandman Williams), Maurice Hines (Clay Williams), James Remar ( Dutch Schultz), Julian Beck (Sol Weinstein), John Ryan (Joe Flynn), Diane Lane (Vera Cicero), Lonette McKee (Lila Rose Oliver), Bob Hoskins (Owney Madden), Fred Gwynne (Frenchy), Allen Garfield (Abbadabba Berman), Larry Fishburne (Bumpy Rhodes), Tom Waits (Irving Stark), Joe D’Alessandro (Lucky Luciano), Zane Mark (Duke Ellington), Larry Marshall (Cab Calloway), Gregory Rozakis (Charlie Chaplin), Vincent Jerosa (James Cagney).
Breve sinossi: Nel mitico locale di Harlem, il Cotton Club, in un arco di tempo che va dal 1928 al 1931, si avvicendano le vite di gangster, ballerini, cantanti, personaggi noti e meno noti che assistono agli spettacoli memorabili di Duke Ellington, Cab Calloway e altri artisti di fama mondiale. È l’era del proibizionismo e gruppi di gangster rivali si contendono il mercato illegale degli alcolici. Il famigerato gangster Dutch Schultz s’impone per efferatezza ma presto sconterà il suo debito con la morte, fatto fuori dai sicari di Lucky Luciano, alleatosi con Owney Madden, il proprietario del Cotton Club. La morte del gangster consentirà all’amante Vera Cicero di coronare l’amore per il trombettista Dixie Dwyer che nel frattempo farà carriera ad Hollywood interpretando ruoli di capimafia. Parallelamente si sviluppano le vicende della cantante mulatta Lila Rose Oliver e del ballerino di tip-tap nero Sandman Williams, entrambi determinati a sfondare nel mondo dello spettacolo anche a discapito degli affetti famigliari… Intorno a loro si muovono le vite di madri di famiglia, scugnizzi e scagnozzi sfortunati come il fratello di Dixie, Vincent “Mad Dog” Dwyer, destinato a finire trivellato di colpi come il suo capo, Dutch Schultz.
Sullo sfondo delle vicende narrate è la sottile segregazione tra bianchi e neri che vuole che sul palco del Cotton Club si esibiscano i neri mentre il pubblico sia costituito di soli bianchi.
In Cotton Club la componente meta-cinematografica informa tutta la pellicola e di questa Coppola si avvale per perpetrare un’operazione di sovvertimento delle logiche di produzione del sistema hollywoodiano. Cotton Club, a conti fatti, è un piano diabolico che ostenta buon viso a cattivo gioco. Con una metafora si potrebbe dire che è Coppola il vero ed abile gangster del film. Paradossalmente, sebbene si tratti di un gangster movie, sembra che egli ne voglia negare la legittimità erodendolo dall’interno. Basti pensare al film nel film, Mob Boss, il cui protagonista è interpretato da Dixie Dwyer, che del gangster non ha nulla se non, forse, la controfigura… Dixie è una mosca bianca non solo tra i musicisti neri coi quali si abbandona a informali jazz sessions ma anche per quella nota sentimental-malinconica, dal sapore di soap opera, che sortisce un effetto stridente in diverse occasioni: nel dialogo col fratello Vincent “Mad Dog” Dwyer alle prese con il rapimento di Frenchy, nell’intimità con Vera, e nel diverbio con Dutch nel locale della ragazza. Dixie si lancia in polpettoni moralisti che servono solo a sospendere temporaneamente l’azione producendo un effetto straniante, come se l’attore avesse sbagliato battuta e il suo interlocutore non sapesse come proseguire: «Cosa fai Dutch? Tu fai del male a tutti. Vuoi strapparle il cuore? E intrometterti sempre nella vita degli altri? Per l’amor di Dio, credi di essere Gengis Khan? Tu trasformi la vita delle persone in merda. Quanti ancora ne vuoi ammazzare?» (1). Ancora più disarmante è la confidenza che Dixie fa a Dutch, asserendo che tutto ciò che ha imparato sui gangster lo deve proprio a lui, spodestando così il più cattivo dei cattivi del titolo di capomafia. A tale operazione contribuisce anche la caratterizzazione del rapporto di Dutch con la moglie che lo tratta come uno zimbello, ridicolizzandolo attraverso le scenate di gelosia e dunque proiettandone la figura sullo sfondo della farsa. Che dire poi dell’improbabile coppia Owney/Frenchy? Paiono una rivisitazione di Stanlio e Ollio nelle due gag che li vedono protagonisti: quella in cui urinano serenamente nel bagno ammettendo l’impossibilità di vivere l’uno senza l’altro e quella veramente esilarante “dell’orologio” che segue il rilascio di Frenchy, rapito da “Mad Dog”.
Sgomberato il campo dai veri gangster, Coppola imbraccia il mitra e trivella di colpi una produzione da 50 milioni di dollari, aggirando sottilmente il “proibizionismo hollywoodiano”, vero bersaglio di questa operazione cinematografica: «Andare a proporre un film in America è come andare davanti ad una commissione dei Soviet. Guai se non rientri nelle categorie di ‘prodotto’ previste. Ormai in America o fai delle commedie demenziali o delle space operas, o delle soap operas. Dopo di che puoi usare lo stile e il linguaggio che vuoi, purché ci sia del naturalismo. Se provi ad uscire da questi schemi è la fine» (2). Ciò che importa è fare sold out al botteghino, ovvero ricevere i plausi del pubblico pagante come quelli che al vero inizio del film sono rivolti alle ballerine “alte, ambrate e fantastiche” che danzano sulla pista del Cotton Club, e ai titoli di testa, in cui i nomi degli attori e della produzione sono scritti obliquamente, in omaggio agli anni Trenta, e in un formato tridimensionale, tronfi di una gloria che deriva loro dall’essere assurti allo star system. Con una simmetria impeccabile, che non può non essere il frutto di un piano finemente premeditato, alla fine del film si ripete lo scroscio di applausi che suggella l’happy end e la straordinaria compenetrazione della dimensione reale (fittizia) con quella fantastica veicolata dal musical che in questa ultima parte diviene appunto debordante, eccessivo, contaminante. La realtà diviene un palcoscenico in cui le diverse trame e fili del film pervengono ad una risoluzione. E tra coloro che applaudono assume un ruolo chiave un uomo che ha probabilmente dormito per l’intera durata dello spettacolo e, una volta destatosi per il fragore delle mani battenti, preso nel vortice dell’euforia degli astanti, inizia ad applaudire pure lui… Senza cognizione di causa? Perché richiamato dal gregge? L’interrogativo è davvero cruciale per comprendere le ragioni che sottendono le intenzioni del regista.
Nonostante l’impeccabile struttura della trama, costruita sulle simmetrie dei plots delle coppie di bianchi e neri (Vera/Dixie, Angelina/Sandman, Mad Dog/Clay, Owney-Frenchy/Dutch) e la musica e le performance spettacolari che rendono gloria alla memoria del locale di Harlem, la maggior parte della critica ha riconosciuto che l’operazione coppoliana è stata fallimentare, non solo rispetto agli incassi ma anche per un «congelamento, questo rigor mortis di un progetto intellettualistico e cerebrale» per cui Cotton Club risulterebbe «raffreddato o meglio “freddato” […] da un’intelligenza da computer» (3). D’altra parte la cerebralità dell’operazione è apertamente dichiarata nella scena che segue il montage sequence dedicato alla carriera di Dixie nel cinema e alla grande depressione del 1929: Frances, la moglie di Dutch, sta completando un cruciverba inserendo la parola gangster, che non a caso s’incrocia con le parole rids e rages a descrivere il clima dei crime movies. Non solo, altri incroci di parole descrivono la costellazione dei significati entro cui si muovono le gang rivali impegnate nel traffico illecito di alcolici durante il proibizionismo (spar, paid, unite, beer, war) e l’ambiente ricco e raffinato della malavita (spas, oleos, chics).
4._Il_cruciverba_sul_gangster_film
Coppola ammicca giocosamente allo spettatore rivelandogli le regole dello spettacolo e importunandolo perché gli impedisce di abbandonarsi alla trama che ha confezionato appositamente per il piacere dell’entertainment. Lo mette puntualmente di fronte alla sua posizione di spettatore come nello straordinario «tip tap luttuoso» (4) in cui si esibisce Sandman Williams che, facendo le veci di un rullo di tamburi, scandisce i passi compiuti dai sicari di Lucky Luciano, il parvenue della nuova scena mafiosa, che segneranno la fine del vecchio boss, Dutch.
2._Lucky_Luciano
La performance di Sandman culmina nell’omicidio ‘trionfale’ di Dutch, suggellato dai soliti plausi dello spettatore in/out, fittizio/reale che, dietro il pretesto della finzione e della mendacità del simulacro, fonda la glorificazione e sacralizzazione della violenza, motivo ispiratore di Apocalypse Now (id., 1979). La spettacolarizzazione della violenza conduce alla sua inevitabile (e supposta) innocuità. Ciò viene ribadito in un’altra scena, certo più scanzonata, ma ugualmente potente. Si tratta del diverbio danzante tra Dixie e Vera al Bamville Club. I due si schiaffeggiano mentre ballano sulla pista, circondati da altre coppie, ma nessuno prende sul serio l’evento, anzi viene interpretato come un nuovo ballo, magari di ascendenza dadaista, che viene presto emulato! Così, per il semplice fatto di avvenire sullo stage, al cinema o a teatro, la realtà viene travisata, edulcorata, riaffermando il potere del simulacro.
Cotton Club è un film forse troppo bello, leccato, spasmodicamente filologico (basti pensare ai mascherini ad aride o a tendina che separano una scena dall’altra) ma anche “frankensteiniano”, non solo per la presenza fisica e vocale di Fred Gwynne, ma soprattutto per la maniacale, “fanatica” ricostruzione degli ambienti e dei personaggi che a cavallo degli anni Venti e Trenta popolavano il noto locale di Harlem e che suggeriscono a Coppola la sfilata dei sosia di Duke Ellington, di Cab Calloway, di Armstrong, di Charlie Chaplin, di Gloria Swanson e così via. Così il palcoscenico e il backstage del Cotton Club si trasformano in un sovraffollato museo delle cere che reca con sé un indelebile marchio mortifero, una delle cifre del cinema di Coppola che acquisirà sostanza concreta nel film Dracula di Bram Stocker (Bram Stocker’s Dracula, 1992).
Sebbene Coppola affidi, apparentemente, la buona riuscita del film ai godibilissimi spettacoli musicali e di danza e all’avvincente e ben orchestrato arrangiamento dei plots e subplots narrativi, tuttavia ne mina, dall’interno, il successo commerciale attraverso diversi accorgimenti: privando il personaggio del gangster di un’anima, nonché appiattendo tutti i comprimari attraverso un’estenuata estetizzazione o un gusto di tipo macchiettistico; chiamando in causa lo spettatore facendogli “scontare” il piacere della visione; disorientando la critica attraverso un’operazione di ibridazione condotta su due livelli, ovvero facendo convergere i due generi classici del cinema hollywoodiano, il musical e il gangster movie, e proponendo un rimescolamento del suo stesso cinema, tanto che Cotton Club parrebbe nascere dalla rilettura de Il padrino (The Godfather, 1972) attraverso Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982) (5).
di Rebecca Amanda Snyder
(1) Traduzione mia
(2) Da interviste a «L’unità» e «La Repubblica» del 23-12-1984, cit. in F. LA POLLA, Cotton Club, in «Cineforum», n. 241, Gennaio 1984, in Francis Ford Coppola: The Last Tycoon, Rimini/cinema, stampa 1986, p. 59
(3) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p. 97
(4) R. TROTTA, Francis Ford Coppola, Le mani, Recco 1996, pp. 44-46
(5) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, cit., p. 94

Francis Ford Coppola, The Rain People (1969)

Sceneggiatura: Francis Ford Coppola da un suo racconto inedito
Fotografia (Technicolor): Wilmer Butler
Montaggio: Blackie Malkin
Suono: Walter Murch e Nathan Boxer
Scenografia: Leon Erickson
Musica: Ronald Stein e Carmine Coppola
Produzione: Bart Patton e Ronald Colby per Warner Bros
Durata: 102’
Interpreti: Shirley Knight (Natalie Ravenna), James Caan (Kilgannon, detto Killer), Robert Duvall (Gordon), Marya Zimmet (Rosalie), Tom Aldredge (Alfred), Laurie Crewes (Ellen), Andrew Duncan (padre di Ellen), Margaret Fairchild (madre di Ellen)
Premi: Gran Premio del festival di San Sebastian, 1969, come miglior film e miglior regia
Breve sinossi: Natalie Ravenna è una giovane donna incinta alle prese con le ansie e le paure del divenire madre. Una mattina decide di lasciare la casa dove vive col marito e partire senza meta, alla ricerca della propria identità. Lungo il viaggio incontrerà Kilganon, detto Killer. Il ragazzo ha subito un grave incidente durante una partita di rugby che gli è costato un ritardo mentale e un’innocenza disarmante. Congedato dal college in cui studiava con una piccola somma di danaro, è solo al mondo. Ella se ne prende cura come fosse suo figlio: cercherà di affidarlo alla famiglia di un’amica del ragazzo e di trovargli un lavoro ma i suoi tentativi si dimostreranno vani. Quando infine deciderà di “adottarlo” e dunque di avverare il suo destino di madre, sarà troppo tardi perché Killer, nel tentativo di salvarla dalle grinfie dell’agente Gordon, l’uomo con cui Natalie si era volontariamente appartata, le morrà in grembo dopo essere stato freddato dai colpi di pistola sparati dalla figlia del poliziotto.
The Rain People è un “film di formazione”, imperniato sulla vicenda di una giovane donna che, frustrata dalla vita famigliare-domestica e dall’imminente maternità, decide, in una mattina piovosa, di lasciare la casa maritale e partire senza una meta, a bordo della sua station wagon, alla ricerca della propria identità o, più cinicamente, con l’intenzione di consumare il proprio addio al nubilato. L’arrovellamento interiore di Natalie Ravenna è espresso magistralmente dal colpo di genio del regista che nelle prime inquadrature è intento a mettere letteralmente a fuoco, e dunque a conferire nitidezza, alle paure di una donna che si sente inadeguata al ruolo di madre: la prigione dei legami e delle responsabilità famigliari si reificano nelle catene che sostengono i sedili di due altalene in un parco vicino casa. Nei due flash-back della sua vita comprendiamo ch’ella si dibatte tra l’amore istituzionalizzato nel matrimonio e l’amore appassionato, selvaggio, libero consumato nell’atto sessuale. In The Rain People il tema del matrimonio come legame di potere e giuramento verrà ripreso, evidentemente con ben altro spessore, nel film successivo, Il Padrino (The Godfather, 1972), capolavoro di Coppola. Ma questo film contiene in nuce anche altri elementi che lo raccordano a opere più mature come La conversazione (The Conversation, 1974). Il marito di Natalie, Vinny, non lo conosciamo attraverso le sembianze fisiche (eccetto per la scena iniziale quando lo scorgiamo abbracciato alla moglie nel letto e per una fotografia che ella conserva nel portafoglio) ma attraverso la voce e il dialogo che intrattiene con la moglie che lo contatta da tre sperdute cabine telefoniche degli Stati Uniti. Tre momenti che scandiscono i tre atti del film e che segnano la graduale trasformazione nel rapporto di coppia: Natalie imparerà ad assumersi le proprie responsabilità grazie all’incontro con Killer mentre il marito, per la gioia delle femministe, sarà costretto, dalla determinazione di lei, a deporre le armi di uomo autoritario e possessivo e rispettare il volere della moglie, anche se questo significa l’aborto del figlio che porta in grembo. Sta di fatto però che Natalie non è in grado di affrontare il marito vis à vis, la sua totale presenza fisica la disarmerebbe, perciò si relaziona con un surrogato, la voce di lui filtrata da un telefono a gettoni. Vinny è una voce, la voce è il fantasma di Vinny. La voce è un riflesso della persona e ne rivela dunque solo dei dati parziali. Questo è uno dei temi attorno al quale ruota La conversazione: nella spasmodica ricerca della verità su un delitto che si sta per compiere, l’investigatore privato Harry Caul (Gene Hackman) cerca di dipanare il filo aggrovigliato di una conversazione che ha intercettato su commissione. Ma la verità che emergerà dalla maniacale dedizione di Harry è parziale, anzi si rivelerà uno dei tasselli di un piano diabolico in cui anch’egli si ritroverà incastrato.
Natalie ribadisce la preferenza per l’abolizione della presenza del corpo-realtà nel momento in cui decide di unirsi all’agente Gordon. Preferisce stare al buio: «è meglio, così mi piace, è come se parlassimo al telefono». La voce ha dunque un forte potere evocativo, anche se il rischio è quello di deformare la realtà…
Il gusto per la smaterializzazione dei corpi e, specularmente, la materializzazione dei fantasmi è evidente, fin da questo primo saggio d’autore, nella scena in cui Natalie, attraverso una sorta di rituale di seduzione, invita Killer ad entrare nella camera del motel dove si sono fermati per la notte.
Il trucco pesante sul volto ne marca la personalità schizofrenica (per usare le parole di Coppola), esplicitamente, e un po’ accademicamente, dichiarata nello sdoppiamento del volto allo specchio.

2._La_per..
La sequenza che segue è un pezzo da fuoriclasse e anche un manifesto della poetica di Coppola: i fantasmi prendono vita e si apre uno squarcio nel territorio del fantastico… Natalie e Killer, grazie ad un ben congegnato sistema di specchi, si parlano senza che i loro sguardi si incrocino e anche quando i loro corpi si incontrano nella danza difficilmente siamo in grado di localizzarli: potrebbero essere qui e altrove.

1._Il_gioco_degli_specchi
La sequenza assume poi toni esilaranti quando Natalie, mettendo in pratica il proprio manuale di seduzione, propone a Killer il gioco infantile «Simon says…» attraverso il quale ella può dar sfogo alle proprie velleità di dominatrice e femme fatale ma il ragazzo lo prende alla lettera facendo crollare il mondo artificiale creato dalla donna e rendendola ridicola ai propri occhi, seppur involontariamente. E d’altra parte è proprio questa la funzione di Killer all’interno del percorso di formazione di Natalie: fornire alla donna uno specchio nel quale riflettersi e comprendere se stessa.
Il candore e l’innocenza di Killer (il cui nome stride decisamente col personaggio conferendogli così una grande tenerezza), le domande apparentemente puerili e banali che egli le pone sono imprescindibili per la crescita di Natalie («Quali problemi ha?», «Perché se ne è andata?», «Perché non sta con me?», «Mi vuole bene?»).
In questo senso Killer è il compagno ideale per Natalie in cerca della propria identità, un’accoppiata questa che si ritrova, come ha osservato Roger Ebert, in qualsiasi buon road-movie: «La giovane moglie di The Rain People e il personaggio interpretato da Peter Fonda in Easy Rider (id., Dennis Hopper, 1969) sono i discendenti del mitico Huckleberry Finn. Le regole del gioco vogliono che il viaggio sia intrapreso sempre da due compagni: l’uno complicato e problematico, l’altro innocente e più spensierato. Così Huck Finn prende con sé lo schiavo, Jim. Peter Fonda si accompagna ad un “fumato” (interpretato da Dennis Hopper). Shirley Knight raccoglie un autostoppista (James Caan) che era un giocatore di rugby al college prima che un colpo alla testa sul campo lo rimbecillisse» (1).
Alle piccole grandi tragedie personali di Natalie e Killer si aggiunge la vicenda dell’agente Gordon, segnato dalla perdita della moglie e di un figlio nell’incendio divampato nella loro casa, e ora alle prese con la figlia minore che non sa gestire. La patina dell’uniforme da poliziotto, che proietta il personaggio di Gordon all’interno di una costellazione di significati che descrivono il suo ruolo istituzionale (sicurezza, autorità, legalità e così via), viene letteralmente disintegrata dal regista tramite la scelta di farlo piroettare sulla motocicletta come un pavone nell’atto di corteggiare la bella Natalie. L’acme di questo processo di smascheramento coincide con la presentazione dell’alloggio di Gordon, una roulotte condivisa con la figlioletta, una piccola peste che, oltre ad offrire uno spunto comico nella scena dell’inseguimento tra padre e figlia, mette ancora più in risalto la condizione di impotenza e precarietà vissuta da Gordon. Risulta quasi scontato sottolineare le filiazioni di questo personaggio in Apocalypse Now (id., 1979).
La drammaticità delle sofferenze patite dai personaggi si stempera in questo film grazie agli spunti comici e alle trovate esilaranti. Da ciò deriva il carattere forte e delicato insieme che contraddistingue The Rain People: la levità con cui vengono declinate le tragedie personali dei personaggi contribuisce ad ammantare il film di un’atmosfera da favola malinconica. Anche i luoghi risentono di questo “umore”: se, come è stato giustamente notato, l’anonimità e la desolazione dei luoghi tradiscono ascendenze dal cinema di Antonioni, è anche vero che l’imprescindibile elemento pop di certo paesaggio americano li riscatta da un sentimento di solitudine senza sbocco. È il caso del drive-in, versione diurna, cui approdano Natalie e Killer per ritrovare una vecchia compagna di scuola del ragazzo. Si tratta di una sorta di cimitero in cui le postazioni per le automobili sono marcate da quelle che paiono “stele” funerarie. Eppure la desolazione del luogo è vivacizzata dalla musica rock di sottofondo, dalle luci a forma di stella del cabinotto dei tickets, e dalle scritte pop che proliferano sulla facciata del chiosco del drive-in che, in tutto il loro appeal, smorzano il carattere oppressivo del paesaggio e contribuiscono a scongiurarne il senso di solitudine e incomunicabilità.

3._Il_drive-in_diurno
Un ennesimo set letteralmente popolato di scritte, la cui funzione è quella di pubblicizzare un tipo di attrazione zoologica, è il parco delle meraviglie gestito da Alfredo, «WHOA! HERE IT IS, NEBRASKA’S REPTILE RANCH AND ZOO», il beffardo datore di lavoro di Killer. La location è un luogo pieno di ogni cosa immaginabile: animali, souvenirs, cinture, bambole, un cimitero per le macchine ecc…

4._Il_Reptile_Ranch_di_Alfred

Un genere di posto che non potrebbe mai essere ricostruito negli studios hollywoodiani ma è come un objet trouvé, un tesoro prezioso, espressione della più verace cultura popolare americana, scovato da Coppola e dalla sua troupe che, per cinque mesi, girò il film on the road, in esterni, trasferendosi su un camioncino attraverso mezza America, dallo stato di New York al Wyoming, sotto l’egida del progetto rivoluzionario dell’American Zoetrope, che portava con sé «l’ideologia antihollywoodiana – sia dal punto di vista del modo di produzione sia da quello della “poetica”» e attraverso il quale esplodeva «l’Europa e il mito del regista consacrato alla critica alta» e si ribadiva «la ‘ribellione’ allo star system» (2).

di Rebecca Amanda Snyder
(1) R. EBERT, The Rain People, in «Chicago Sun-Times», 19 settembre 1969, consultabile all’indirizzo: http://rogerebert.suntimes.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/19690919/REVIEWS/909190301/1023
(2) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p. 29

Alain Resnais, Je t’aime je t’aime (1968)

Titolo originale: Je t’aime, je t’aime; regia: Alain Resnais; sceneggiatura: Jacques Sternberg; fotografia: (Eastmancolor panoramico) Jean Boffety; suono: Albert Bonfanti; montaggio: Colette Leloup, Albert Jurgenson; scenografia: Jacques Dugied, Auguste Pace (per la macchina del tempo); musiche: Krzysztof Penderecki; interpreti: Claude Rich (Claude Ridder), Olga Georges-Picot (Catrine), Anouk Ferjac (Wiana Lust), Georges Jamin (Dr. Delavoix), Van Doude (direttore del Centro), Dominique Rozan (Dr. Hesaerts, medico del Centro), Alain Robbe-Grillet (Hughes Mechelynck, ufficio stampa), Cathrine Robbe-Grillet (segretaria), Jean Michaud (direttore della casa editrice), Jacques Doniol-Valcroze (dirigente nella casa editrice), Jean Claude Romer (invitato); produzione: Mag Bodard; coproduzione: Parc Film, Fox Europa; distribuzione: Twentieth Century Fox; durata: 91’; anno: 1968
Festivals: Invitato al festival di Cannes, non vi fu proiettato per l’interruzione della manifestazione. Festival d’Acapulco
Claude Ridder ha tentato il suicidio ma senza successo. Un manipolo di scienziati del non meglio identificato Centro di ricerche Crespel gli propone di fungere da cavia per un esperimento molto ambizioso: il primo viaggio a ritroso nel tempo della durata di un minuto, in compagnia di un topolino bianco. Ridder si ritrova al punto preciso del suo passato in cui era il 15 settembre 1967 alle 16. Ma qualcosa va storto: in un movimento oscillatorio tra presente e passato, ripercorre «16 anni della sua vita, dalle ore 11 del 7 dicembre 1951 (data del primo impiego come imballatore di libri e riviste) alle ore 5 del 5 agosto 1967 (data del tentato suicidio)» (1). Egli cade a spirale nel proprio passato: il lavoro d’ufficio, il volto di Catrine, le interminabili attese alla fermata del tram, le donne, un poster di Magritte appeso alle pareti, il mare, il tragico epilogo della sua vita. Le presenze del passato lo avviluppano per poi inghiottirlo senza più nessuna possibilità di ritorno.
Je t’aime je t’aime è un film che ha riscosso favori contrastanti da parte della critica, i detrattori ne hanno tutt’al più concesso il titolo di opera minore, gli estimatori lo amano alla follia. Gli strali della critica si sono appuntati in particolare sulla struttura del racconto filmico, ravvisandone un disordine o alternativamente un intellettualismo derivante dall’applicazione dogmatica del metodo della scrittura automatica, di matrice surrealista.
Qualcuno in particolare ha espresso disappunto o esplicita irritazione per la scelta operata da Resnais e dallo sceneggiatore Sternberg di affidare l’unità dell’impianto dell’opera alla dimensione science-fiction che ne avrebbe ridotto il potenziale di sperimentazione e appesantito la narrazione attraverso «la macchinosità dell’apparato scientifico» a discapito del «progetto di autenticità e di essenzialità caotica della ricerca esistenziale» (2), realizzato attraverso il viaggio a ritroso nel tempo effettuato dal protagonista, Claude Ridder.
In realtà la «gotica, farraginosa, surrealistica macchina del tempo» (3) tanto deprecata da certa critica, è lì ad omaggiare proprio la macchina cinema (almeno quella pesante, ingombrante, analogica in auge nel 1967): quel bozzolo fatto di morbide protuberanze ha l’aspetto di un ventre materno immediatamente richiamato dal liquido amniotico in cui si ritrova immerso Claude Ridder durante la vacanza in Costa Azzurra; di certo quello stesso abitacolo si è ispirato ai comics e non lesina una strizzatina d’occhio ai b-movies; ma è anche vero che quella zucca gigante smaccatamente artificiosa, alimentata da innumerevoli quanto aggrovigliati cavi elettrici, rimanda istintivamente ai baracconi delle meraviglie delle fiere o dei luna park in cui il cinema è nato per il divertimento delle folle. La sua forma misteriosa e attraente invita lo spettatore ad entrarvi, ad esplorarne le viscere per provare sensazioni irripetibili; d’altra parte è categorica la posizione di Resnais riguardo alla vocazione del cinema: «Se Bresson parla di un cinema-scrittura opposto a un cinema-spettacolo, io mi considero dalla parte del cinema-spettacolo, forse a torto, ma è in questo senso che lavoro» (4).
1._Macchina_tempo
Resnais ‘crede’ alle fiabe e alla magia del cinema, ma per fruirne è necessario assumere lo sguardo del bambino; solo così è possibile entrare nella tenda-zucca e, letteralmente e fattivamente, scomparire come Claude Ridder. La macchina del tempo, il viaggio, l’esotismo fondano il proprio realismo sulla natura indicale del mezzo, tanto che al cinema il passato (e il futuro) hanno la stessa pregnanza del presente proprio perché scorrono sulla pellicola secondo un ordine paratattico in un eterno presente, quell’hic et nunc che fonda l’essenza ontologica del cinema. In questo senso non si può parlare al cinema di flashback o flashforward: «Si parla spesso di flashback: penso di non aver ancora fatto un flashback nella mia vita, soprattutto non in Je t’aime je t’aime, dove siamo in un presente totale, poiché seguiamo Ridder e non lo lasciamo mai nel suo viaggio. Non ci scappa un secondo. Il tempo, allora, non corrisponde affatto alla nozione di svolgimento, ed è per forza un presente» (5). È Per questo motivo che Resnais esprime forti perplessità riguardo alla possibilità di parlare del suo cinema come memoria, come se fosse una realtà di secondo grado rispetto al presente.
A proposito della struttura del film, niente è più falso dell’affermazione per cui i frammenti della vita di Claude Ridder, che compongono il puzzle del suo viaggio nel passato, sarebbero ordinati casualmente.
In realtà tale struttura è costruita in maniera assai rigorosa, e si avvale di due tipi di ordine: un ordine del racconto che si confa alla dimensione fantascientifica del film e un ordine musicale che invece presiede all’organizzazione delle rivisitazioni del passato esperite dal protagonista.
L’esplorazione degli episodi frammentari del passato si organizza in quattro nuclei: il rapporto di Ridder col lavoro d’ufficio, l’incontro e il ménage quotidiano con Catrine, la morte di Catrine e gli interrogatori della polizia, la frequentazione di altre donne e i tradimenti di Ridder. Questi nuclei rappresentano i temi centrali delle immersioni nel passato di Ridder e straordinario è il modo in cui il regista li ha ‘orchestrati’. Sebbene si possa riconoscere un ordine cronologico tra di essi (per esempio il tema dell’omicidio di Catrine viene annunciato solo a metà film), il loro sviluppo non è lineare ma funziona secondo un meccanismo di propagazione. Si potrebbe parlare di un effetto eco su quattro temi maggiori e, scivolando nel dominio dell’udito, evocare le parole dello stesso Resnais a proposito del cinema come struttura musicale: «Credo che se si definisse il film con un diagramma eseguito su una carta millimetrata, si arriverebbe a scoprire una forma vicina alla forma sonora del quartetto: temi, variazioni a partire dal primo movimento, di qui le ripetizioni, i ritorni, che possono essere insopportabili per quelli che non entrano nel gioco del film» (6).
2._Claude_e_Catrine
Questo tipo di trattamento delle immagini, il cui funzionamento non si pone all’insegna dello svolgimento cronologico e razionale, propone una nuova modalità di conoscenza: si attualizza cioè una scrittura dell’affettività che non procede per implicazioni logiche del tipo causa-effetto ma per intensità via via crescenti. Le istanze di tipo psicologico, emozionale ed esistenziale si danno attraverso serie di ripetizioni differenti che si sedimentano nella mente e nel cuore dello spettatore. Resnais, in una scena che vede occupato Ridder in una conversazione telefonica alle prese con la correzione di alcune bozze, e che precede il fatidico momento clou del suicidio, fa probabilmente riferimento a due tipi di conoscenza, l’una visiva e l’altra tattile. Attraverso l’occhio si attualizza un tipo di conoscenza rappresentazionale, di tipo logico-inferenziale, attraverso il tatto invece si esplicita un tipo di conoscenza determinata dalla reiterazione e di tipo progressivo, più lento, che favorisce la familiarizzazione coi dati per stratificazioni successive.
Resnais ravvisava comunque la necessità della cornice fantascientifica in quanto «supporto che, in certo modo, aguzza l’immaginazione e mette forse lo spettatore in uno stato infantile» (7). Insomma, affinché il film susciti l’emozione dello spettatore, è necessario rispettare la classica struttura in tre atti senza abbandonarsi alla sperimentazione pura come quella che aveva in mente Sternberg quando pensava ad un film della lunghezza di 12 o 24 ore da fruire in qualsiasi momento e che precorreva le sperimentazioni della video arte e si allineava all’arte d’avanguardia di Andy Warhol (8).
Così il racconto di fantascienza si svolge secondo i tre atti canonici attraverso i quali si articola ogni buona sceneggiatura: Claude Ridder, sopravvissuto al tentativo di suicidio, viene avvicinato dagli scienziati del Centro di ricerche Crespel che gli propongono di fare da cavia umana per un esperimento di viaggio nel passato (inciting event al 10’), egli si sottopone all’esperimento ma qualcosa va storto (prima svolta al 22’). Esattamente a metà film (punto centrale al 45’) Claude Ridder comprende che l’esperimento presenta una falla, si solleva dal lettino e chiede aiuto. In questo preciso momento, come “da copione”, assistiamo ad una trasformazione radicale del protagonista che da soggetto passivo qual era, non interessato alla vita e contraddistinto da un atteggiamento spleenetico nei confronti del mondo, diviene attivo. La comoda poltrona ergonomica sulla quale il suo corpo è adagiato si arricchisce di connotazioni terapeutiche identificandosi col lettino dello psicanalista: il flusso di coscienza, la riemersione dei ricordi e la coazione a ripetere sempre lo stesso frammento di riemersione dalle acque (dall’inconscio) del Midi si palesa come un vero e proprio meccanismo di elaborazione del lutto il cui acme coincide con la confessione e auto-assoluzione dell’omicidio di Catrine (seconda svolta al 70’). Il terzo atto si risolve poi nella rivisitazione del suicidio di Ridder e nella morte definitiva nella coincidenza di tempo presente e tempo passato.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le Mani, Genova 1997, p. 109
(2) P. BERTETTO, Alain Resnais, Il Castoro cinema/La Nuova Italia, Milano 1976, p. 120
(3) Ibidem, p. 108
(4) Intervista di Patrick Bureau in «Les Lettres françaises», 2 maggio 1968, pp. 18-19, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, Biblioteca di B&N, Documenti e Strumenti n. 5, 2002, p. 230
(5) Intervista di Luce Sand in «Jeune cinéma», 31, maggio 1968, pp. 2-8, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 229
(6) Cit. in P. BERTETTO, Alain Resnais, cit., p. 3
(7) Intervista di Luce Sand in «Jeune cinéma», 31, maggio 1968, pp. 2-8, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 228
(8) Si pensi per esempio a Sleep (1963), un lunghissimo long take della durata di 5ore e 20 minuti che riprende John Giorno, amico di Andy Warhol, mentre sta dormendo.

Alain Resnais, Providence (1978)

Titolo originale: Providence; Regia: Alain Resnais; sceneggiatura: David Mercer; fotografia: Ricardo Aronovich; suono: René Magnol (effetti elettroacustici: Jean Schwarz); montaggio: Albert Jurgenson; scenografia: Jacques Saulnier; costumi: Catherine Leterrier; musiche: Miklós Rósza interpreti: John Gielgud (Clive Langham), Dirk Bogarde (Claud Langham), Ellen Burstyn (Sonia Langham), David Warner (Kevin Woodford), Elaine Stritch (Molly Langham e Helen Wiener), Denis Lawson (Dave Woodford), Cyril Luckham (Mark Edington); produzione: Michel Choquet, Antoine Gannagé per Action Film, SFP, FR3, Citel Film (Ginevra); distribuzione: durata: 110’; anno: 1978
Premi: Premio César 1978 per la regia
Lo scrittore Clive Langham, recluso nella propria atavica dimora, è intento a porre mano al suo ultimo romanzo durante una notte insonne innaffiata di Chablis e contrappuntata da ulcere e incubi spaventosi. I protagonisti dell’opera sono i componenti della sua famiglia, sui quali egli infierisce senza sosta, muovendo i fili dei loro destini e facendone lo specchio di un’umanità alla deriva, destinata alla regressione animale. In uno scenario apocalittico i funzionari di uno stato tecnocratico militarizzano la città fantasma e predispongono campi di concentramento per i reietti mentre in interni borghesi si consumano gelosie e acredini famigliari.
Col sorgere del nuovo giorno i fantasmi notturni si dileguano lasciando il posto ad un idilliaco quadretto famigliare. Ma al di là delle apparenze, interrogativi inquietanti serpeggiano tra i convitati …
Centrale in Providence è il discorso sulla creazione letteraria e, per estensione, sull’origine e il processo dell’atto creativo, demandato all’entità che dà il titolo al film: «da una parte, è il nome della proprietà in cui uno dei personaggi principali (Clive Langham) sta concludendo la sua vita. Ma […] si può dire, ed è il secondo senso del titolo, che egli si comporta con i suoi personaggi come le mani della Provvidenza, di una Provvidenza spesso sarcastica, ma che non fa sempre tutto quello che vuole» (1). L’ingerenza della mano ordinatrice di Clive sul destino dei personaggi, grazie all’ “intermediazione” dello sceneggiatore Mercer, s’inscrive nella lezione di Ronald D. Laing, per il quale i colpevoli dei comportamenti devianti dei figli sono i genitori che a quelli si sostituiscono deresponsabilizzandoli (2). In questo senso lo scrittore manipola le vite di coloro che compongono il “romanzo” della sua famiglia interferendo o proiettandosi nei loro vissuti personali. Eppure i personaggi sfuggono puntualmente al suo controllo acquisendo autonomia e apportando un contributo alla creazione dell’opera, avverando un’istanza extratestuale: «La prima cosa che faccio sempre è dare la totalità della sceneggiatura agli attori il più presto possibile prima delle riprese, in maniera che possano esprimersi e apportare le loro idee, che sono spesso eccellenti e che si possono qualche volta aggiungere al film» (3).
Clive Langham non è dunque il meneur de jeu o il “maestro di cerimonia” dell’intera opera in quanto si fa condurre dal racconto i cui fili sono forse manovrati, in ultima analisi, dal regista e dallo sceneggiatore Mercer. Eppure anche questa ipotesi non è del tutto convincente: «Si ha l’impressione che una sceneggiatura non dipenda dalla volontà. Nasce così (…) Abbiamo tentato di fare un cinema puramente istintivo» (4).
Esiste dunque un maître d’ ordre che ha dato forma, stile, corpo e “musica” all’opera filmica? Chi ne è l’artefice? Esiste una Provvidenza che, attraverso eventi apparentemente casuali, ma in realtà ordinati, esegue le volontà di un demiurgo misterioso?
Qual miglior risposta poteva dare Resnais se non quella “criptata” nella splendida sequenza iniziale? La mdp si attarda per diversi secondi sull’insegna del nome della villa, Providence, località del Rhode Island in cui H.P. Lovecraft nacque e morì in una sorta di «clausura volontaria» (5) così simile a quella di Clive. Poi parte un movimento e lo sguardo vaga e si perde tra le foglie, i rami e le fronde degli alberi senza più alcun appiglio ed orizzonte di riferimento.
1._Il_lume_cerebrale
Il campo del quadro cinematografico diviene luogo di astrazione temporale e spaziale: torna alla memoria la figura mitica del labirinto, l’immagine di intricate sinapsi o circonvoluzioni cerebrali, ovvero la moltitudine dei percorsi che si offrono al creatore. L’occhieggiare della luce solare nell’intrico delle fronde è il coacervo del ribollio delle idee, il brain storming creativo che precede la provvidenziale apparizione di un lume (nel film la plafoniera che illumina l’ingresso dell’austera dimora di Clive) che queste energie raccoglie e concentra per poi diffondere e ordinare nella produzione artistica. Non si tratta più della luce solare, diffusa, informe che filtra tra i rami degli alberi ma di un lume artificiale e dunque cerebrale che ha un punto d’origine determinato e che diffonde un nitido e circoscritto fascio luminoso. Così, per l’intera durata del film, siamo traghettati nella memoria, nei ricordi, nei desideri del vecchio scrittore, in balia di sprazzi di lucidità o dell’assoluto ottenebramento della facoltà raziocinante. Compiamo continui viaggi nel tempo (come il protagonista di Je t’aime, Je t’aime) all’interno di un tessuto narrativo fortemente lacerato, ellittico, cortocircuitato che trova eco nella mise-en-scène e nelle location del film, che contemplano ville “marienbadiane”, improbabili aule di tribunali, pittoreschi sfondi di cartapesta e stadi adibiti a campi di concentramento.
La città “impossibile” in cui si svolgono i fatti, sebbene “fatta a pezzi” con l’intento di «creare l’immagine di un paese “esitante” come se il romanziere Clive non avesse ancora scelto» (6), è un luogo che trascende ogni indicazione storica per situarsi in una dimensione atemporale e dunque esemplare, come una novella Babele, città della discordia e dell’incomprensione. E la metafora biblica è particolarmente congeniale ad offrirci una chiave di lettura del secondo atto del film, che è la costruzione lucida, quanto mai disincantata nella sua amarezza, di un’umanità alla deriva, di un paradiso perduto, luogo di perdizione e dannazione abitato da vittime (i vecchi nelle strade deportati nello stadio per essere giustiziati e gli uomini-lupo che assistono alla trasmutazione mostruosa dei propri corpi) e carnefici (l’apparato militare di uno stato tecnocratico che esegue i massacri e lo stesso Claud che diviene l’aguzzino del fratello Kevin).
2._Uomo_lupo
Non passa inosservata, in questo scenario apocalittico, la puntuale effrazione dei comandamenti del Decalogo per ciò che riguarda i rapporti famigliari che intercorrono tra i personaggi principali. Claud “disonora” sistematicamente il padre col quale vive un rapporto conflittuale per l’incompatibilità delle rispettive intime nature, lui razionale e freddamente calcolatore, il padre Clive focoso e dissoluto. L’accusa contro il padre si trasforma in una “requisitoria” nella scena esilarante di Claud-Bogarde che volteggia nel proprio studio sfoggiando grande eloquenza di avvocato mentre detta alla segretaria basita un testo che trasuda puro odio filiale.
Così Molly, la madre di Claud, incarnata nell’amante Ellen, viene disonorata dal figlio medesimo che desidera il rapporto carnale e quindi incestuoso.
L’adulterio è all’ordine del giorno e mutualmente messo in pratica dalla coppia Claud-Sonia.
Claud non esita nemmeno un secondo ad uccidere il fratello minore Kevin in una scena di fratricidio che attualizza la vicenda di Caino ed Abele.
Insomma, ciò che si mette in scena è l’egoismo, il cinismo, la natura luciferina ed istintiva dell’uomo in tutte le sue possibili declinazioni.
Pure, come in ogni capolavoro, le interpretazioni del film sono plurime e la lettura biblica può essere arricchita, per esempio, da quella freudiana sul cui pedale già altri hanno insistito mettendo in evidenza come nel passaggio dal secondo al terzo atto, caratterizzato da un’atmosfera sobria e morbida in cui i protagonisti “inscenano”, questa volta, un idillio familiare, si scivoli dal complesso di Laio in quello di Edipo con i figli che accusano il padre (7). D’altra parte, a confortarci nella convinzione di un’opera traboccante di temi e spunti e quindi foriera di un effluvio di reminiscenze, è Resnais stesso: «Quando ho cominciato a lavorare con David Mercer a partire dal primo script (…) mi ha chiesto di prendere, alla maniera di un ferrovecchio, tutto quello che mi interessava. Ha messo il tutto in un cassetto, un po’ come faceva Giraudoux con le sue prime versioni, e abbiamo ripreso l’insieme conservando unicamente i personaggi» (8).
Al di là delle diverse declinazioni ermeneutiche che il film suggerisce e dei temi che propone, come quello del rifiuto e dell’accettazione della morte, dell’eutanasia, ciò che irrefutabilmente colpisce lo spettatore è lo spregiudicato dispiegamento dei sentimenti nutriti dai personaggi che rasenta la blasfemia. Il cadavere dell’uomo anziano, soggetto all’autopsia del medico legale, diviene il “correlativo oggettivo” della condizione di vita dei protagonisti del film che, senza infingimenti, rinunciando al pudore o a qualsivoglia bon ton borghese, dichiarano apertamente l’odio, gli appetiti sessuali, il disprezzo, l’insofferenza per il prossimo in un’escalation di matrice surrealista. Tanto che in questo film Resnais si è lasciato travolgere dal fascino di un lessico volgare, sconcio, spudorato, frutto del puro istinto. La regressione animale degli uomini-lupo è speculare alla disumanità dei protagonisti.
Ciò che è notevole osservare è che questa “pornografia” dei sentimenti, in diversi frangenti, sembra derivare da una contingenza estetica che nasce in primis dal conflitto tra la voce narrante di Clive Langham e la parte “residuale” che giocano i protagonisti nella scena. In altre parole il conflitto tra testo letterario e testo filmico si risolve mutualmente in un “prosciugamento” o, all’inverso, nella “superfetazione” di uno dei termini: se la voce fuoricampo commenta alcune scene anticipandone gli sviluppi, è giocoforza che queste siano chiamate non di certo a reiterare quanto espresso dal commento di Clive, ma a produrre una “variazione”, creare un ritmo che a volte si traduce in un’esasperata enfatizzazione (fino alle derive surrealiste) di ciò che è suggerito dalla voce narrante, altre volte nella sua negazione.
Questo manifesto e compiaciuto gioco tra forma e contenuto, che assume toni sarcastici e irridenti, smorza la drammaticità e il carattere apocalittico degli accadimenti, facendo emergere la marca d’autore che contraddistingue il cinema di Resnais e che si risolve in una leggerezza e umorismo disarmanti.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) Intervista di R. Benayoun in «Positif», n. 190 febbraio 1977, pp. 6-13, in Maurizio Regosa (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, Biblioteca di B&N, Documenti e Strumenti n. 5, 2002, p. 253
(2) S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria, Le mani, Genova 1997, p. 123
(3) Intervista di J. Delmas-F. Gastellier in «Jeune Cinéma», n. 101 marzo 1977, pp.3-7, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 261
(4) Intervista di A. Remond in «Télérama», 9 febbraio 1977, pp. 80-82 in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 248
(5) S. ARECCO, Alain Resnais o la persistenza della memoria, cit., p. 123
(6) Intervista di Claude Beylie in «Écran», n. 55 del 15 febbraio 1977, pp. 24-27 in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit., p. 253
(7) Tullio Kezich, «Il Corriere della Sera», 1977
(8) Intervista di R. Benayoun in «Positif», n. 190 febbraio 1977, pp. 6-13, in M. REGOSA (a cura di ) Alain Resnais. Il metodo, la creazione, lo stile, cit. p. 254

Jim Jarmusch, Int. Trailer. Night (2002)

Episodio di Ten Minutes Older: The Trumpet
Regia: Jim Jarmusch; soggetto e sceneggiatura: Jim Jarmusch; fotografia: Frederick Elmes; costumi: John A. Dunn; montaggio: Jay Rabinowitz; musica: Paul Englishby: interpreti: Chloë Sevigny; produzione: Ulrich Felsberg e Stacey Ellen Smith; origine: Gran Bretagna/Spagna/Germania/Finlandia/Olanda/Cina; durata: 10’
Breve sinossi: Un’attrice si prende una pausa dal lavoro sul set. Raggiunge la propria roulotte, si stende su un divano, leva le scarpe strette per distendere i piedi intorpiditi e accende una sigaretta. Le sono concessi solo dieci minuti. Nel mentre riceve una telefonata dal proprio compagno ma il desiderio di intimità è sempre frustrato dai mestieranti che si avvicendano nella roulotte per curarle trucco e capigliatura, sistemare i microfoni che le sono stati applicati sul corpo o per servirle la cena. Docilmente, si presta alle richieste di ciascuno. Conclusa la pausa, esce dal trailer lasciando dietro di sé le note delle Variazioni Goldberg di Bach, che saturano lo spazio di una solitudine malinconica.
Ten Minutes Older è un progetto cinematografico del 2002 diviso in due parti intitolate The Trumpet e The Cello. Il progetto prevedeva una serie di cortometraggi che avessero come tema centrale il “Tempo”. I cortometraggi sono stati girati da quindici registi famosi. Ognuno di loro ha sintetizzato in pochi minuti la propria visione del tempo attraverso l’arte cinematografica. Il progetto è un omaggio ad un cortometraggio di Herz Frank girato in Russia nel 1978, dall’omonimo titolo Ten minutes older.
Int. Trailer Night, il cortometraggio firmato da Jarmusch, avrebbe potuto essere girato anche senza battute di dialogo: la potenza cinematografica e la poetica di Jarmusch emergono da ogni singola inquadratura. Jarmusch si avvale di rarefatti movimenti di macchina per creare un linguaggio al tempo stesso onirico e realista, ovvero surrealista, per condensare il concetto in una parola che gli è certo congeniale.
Minimalismo, essenzialità e pulizia visiva sono mezzi attraverso i quali egli si serve per filmare una realtà netta eppure traboccante di significati altri, spesso irresistibilmente ironica e insieme trasognata e malinconica, dai contorni affilati e definiti favoriti dall’uso del bianco e nero: «adoro il bianco e nero, trovo che sia un modo per dare allo spettatore meno informazioni inutili: il mio fine è quello di dare un’informazione essenziale» (1).
Int. Trailer Night è un film che riflette sul tempo cinematografico offrendoci un gioco di scatole cinesi. Chloë Sevigny è la protagonista di un film in corso di lavorazione. Si prende una pausa e si reca nella sua roulotte per concedersi un break di 10 minuti e ritagliare un suo tempo intimo: accende una sigaretta e riceve una telefonata dal fidanzato. Il suo desiderio di intimità è vanificato dalle continue intromissioni dei lavoranti della troupe e così la roulotte, come una zucca incantata, diviene il luogo di un altro film, il trailer della sua vita, fatto di piccoli sketch sapientemente orchestrati.
Il film è un saggio in miniatura del cinema di Jarmusch sotto diversi aspetti.
Innanzitutto per l’immancabile rito della sigaretta che induce alla rilassatezza e all’ozio e le cui volute di fumo, traccianti nell’aria arabeschi effimeri, preludono ai successivi accadimenti, apparentemente insignificanti e irrisori.
1.-Chloë-..
Ai tempi e ai luoghi della pregnanza e dello spettacolo Jarmush privilegia i momenti off, le pause, i cosiddetti momenti morti o quelli che il regista definisce «moments in between» (2). Tali aporie temporali diventano, nel cinema jarmuschiano dell’interstizio, i luoghi della chance, le occasioni per impercettibili détournements, pieghe, increspature della realtà che ne denunciano anche l’intrinseca tragicità. La violenza morbida cui è soggetta Chloë Sevigny, “importunata” dalle varie maestranze che compongono la troupe, non è scevra di un’ironia che, in un baleno, scivola nell’abiezione. Si pensi alla scena che vede il tecnico del suono insinuare le proprie mani sotto il vestito dell’attrice, all’altezza del sedere e del seno, e sotto gli occhi imperterriti di un’altra inserviente, mentre l’attrice conversa con il fidanzato nel proprio rifugio. La scena, surreale, si tinge di malinconia grazie alle note del Bach delle Variazioni Goldberg.
La musica, nei film di Jarmusch, si lega strettamente alle azioni dei personaggi, non è mai semplice accompagnamento (3) e, nella fattispecie, ha la funzione di qualificare ed amplificare lo stato d’animo dell’attrice, un po’ mesta, un po’ annoiata; e ciò avviene sempre in sordina, senza clamore, con l’aspetto e i risvolti, non di una ferita aperta, ma di una emorragia interna.
Int. Trailer. Night è infine costruito per avvenimenti non necessariamente correlati gli uni agli altri. In diversi film del regista newyorkese il viaggio dell’eroe non conosce apparentemente un vero e proprio sviluppo ma egli rivive lo stesso genere di situazione, magari da un’angolazione di poco differente. Si potrebbe dire che torna sempre non proprio al punto di partenza, ma poco più in là. Basti pensare ai road movies jarmuschiani come Permanent Vacation (1980), Stranger than Paradise (1984), ma anche il più recente Broken Flowers (2005). Il protagonista è un flâneur ciondolante che avanza, nell’incedere incerto del proprio passo, come sospinto da forza di inerzia, spesso torna senza scampo al punto di partenza per poi, finalmente e insospettatamente, imboccare una strada che niente aveva fatto presagire. Sta di fatto che una qualche trasformazione avviene ma non è possibile coglierne l’origine causale perché ogni cosa si attesta sul “piano di immanenza”, non consentendo semplici decifrazioni della realtà ma risolvendosi semmai in un sempre rinnovato effetto di stupore, impalpabile e indecifrabile, evanescente, dissolventesi nell’aria come fumo di sigaretta.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) http://filmup.leonardo.it/
(2) da un’intervista realizzata nel 1987, in Peter Von Bagh, Mika Kaurismäki, “In Between Things”, in AA.VV., Jim Jarmusch Interviews, a cura di L. HERTZBERG, University Press of Mississippi, 2001, p. 75
(3) MOSCA U., Jim Jarmusch, Il Castoro Cinema, Milano 2000, p. 8.

Jim Jarmusch, Year of the Horse (1997)

Regia: Jim Jarmusch; fotografia (35 mm, col. Eb/n): L.A. Johnson, Jim Jarmusch; montaggio: Jay Rabinowitz; suono: Tim Mulligan; musica: Neil Young & Crazy Horse; interpreti: Neil Young, Ralph Molina, Frank «Poncho» Sampedro, Billy Talbot; produzione: Bernard Shakey, Elliot Rabinowitz, L.A. Johnson per Shakey Pictures; origine U.S.A.; durata: 105’; Festivals: presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel settembre del 1997
Il rock’n roll movie assemblato da Jarmusch sulla band dei Crazy Horse, capeggiata da Neil Young, è insieme un omaggio ad uno dei cantautori prediletti dal regista newyorkese nonché l’occasione per restituire un favore all’artista per la composizione della colonna sonora di Dead Man (1994). Nondimeno il documentario gli consente di creare un prodotto in cui la musica riveste, finalmente e compiutamente, un ruolo da protagonista. La filmografia del regista è infatti costellata di collaborazioni con musicisti che hanno contribuito ai suoi lavori in qualità di co-registi-sceneggiatori (John Lurie) o prestando brani musicali o le loro poderose e sensuali sembianze allo sguardo rispettoso seppure impietoso della cinepresa (Tom Waits, Iggy Pop, Screamin’ Jay Hawkins, Jack e Meg White).
La musica, nei suoi film, si lega strettamente alle azioni dei personaggi, non è mai semplice accompagnamento (1) e in Year of the Horse ne diviene la protagonista assoluta facendo esplodere tutta la sua valenza magica e ipnotica, effetto che viene potenziato dal suono in Dolby Digital. Fuckin’Up, Slip Away, Barstool Blues, Stupid Girl, Tonight’s the Night, Big Time, Sedan Delivery, Like a Hurricane e l’acustica Music Arcade sono le canzoni che scandiscono le tappe del tour e offrono ai fans di Neil Young, Ralph Molina, Billy Talbot e Frank “Poncho” Sampedro un’esperienza acustica irripetibile, simile alla trance, garantita dalla perfetta armonia e coesione del gruppo. Le riprese rispettosamente frontali o tutt’al più scivolanti sull’asse di ripresa fino a intercettare frenetiche dita che graffiano le corde di una chitarra elettrica, fanno trasparire la volontà del regista di preservare la “sacralità” dell’evento per non inficiarne la freschezza. Tutt’al più Jarmusch tenta di restituire la magia della musica attraverso il caleidoscopico montaggio della luce dei ceri collocati sul palco e riprendendo Young mentre, in una sorta di rituale sciamanico, attraversa il palco in lungo e in largo recando sul palmo della mano un grosso cero che poi, a canzone ultimata, viene scaraventato in terra a suggellare la fine della performance musicale. Purtroppo lo schermo cinematografico, alle volte fatalmente piatto e impermeabile alle emozioni, non sempre restituisce tale magia e in ciò risiede un limite del film.
Le performances lunghe ed estenuate di Young (durante il concerto di Vienne in Francia, e quello di Gorge nello stato di Washington), che hanno messo a dura prova una parte di critica poco incline a riconoscere legittimità artistica al “teatro filmato”, contrappuntano come pietre miliari un tessuto narrativo frastagliato, spurio, composto di materiali attinti da fonti diverse e che si avvalgono di supporti eterogenei, quali il 16 mm, il Super 8, il video Hi-8. L’epopea del gruppo è raccontata attraverso inserzioni di backstage del tour del 1976 proveniente dalla cineteca personale di Neil Young, mentre il materiale del 1986 proviene dal documentario Muddy Track (1986), girato dallo stesso Young sotto lo pseudonimo di Bernard Shakey. Le interviste ai componenti della band, al padre di Young, ai tecnici, il materiale fotografico che documenta la parabola dolorosa delle vite del chitarrista Danny Whitten, del roadie Bruce Berry e del produttore David Briggs e, infine, un inserto di animazione (Red Ball Express) firmato da Steve Segal, completano il ritratto della band, le cui cifre essenziali sono l’energia, la potenza e anche la fierezza, come si evince da una delle didascalie che campeggiano sullo schermo e che rimanda al nome della band ma anche al capo pellerossa cui questa si ispira, Crazy Horse, descritto con le parole independent, generous, energetic, open. 
1._YEAR_OF_THE_HORSE
E il vessillo dell’indipendenza viene impugnato fin dalle prime pagine del diario visivo della band, girato orgogliosamente in Super 8. Il “manifesto” grunge, graffiante e tuttavia scanzonato, come si evince dalle foto segnaletiche attraverso cui vengono presentati i componenti della band, si fa dunque esplicito nella volontà di utilizzare un formato sporco e sgranato in perfetta continuità con una scenografia minimalista e, forse, affettatamente trasandata e pop: una sedia e una lavatrice sullo sfondo di una stanza spoglia sono gli unici arredi di un “garage” dove vengono intervistati i musicisti.
2._NEIL_YOUNG
Insomma, fin dalle prime battute, l’atteggiamento è di sfida e di manifesta provocazione, seppure stemperato da un’ironia quasi grottesca in cui l’ “umanesimo” di Young incontra, provvidenzialmente, la tempra malinconica di Jarmusch. Ma tale equilibrio è fragile e la personalità del regista viene sopraffatta dal carisma trascinante di Young. Year of the Horse è un figlio illegittimo di Jarmusch, non c’è posto qui per i suoi diseredati e flâneurs malinconici. L’elezione crepuscolare del cinepoeta che si considera «a minor poet who writes fairly small poems» (2) viene spazzata via dal vento beat del monumentale Young, il re dei diseredati, colui che, con la levità e l’irresistibile innocenza di un infante nonché il “pragmatismo” di un americano, può sfidare addirittura Dio in persona («Chi credi di essere, Dio?», «Sì, già»), incontrare un tizio di nome Jesus all’Hammersmith Odeon di Londra e augurargli, questa volta, di farcela ed infine rianimare l’antica sede di un anfiteatro romano sulle rive del Rodano (Vienne in Francia) con la magia della musica e la carica magnetica della sua presenza fisica, immortalandosi cariatide della musica («Il teatro è vecchio, la chitarra è una Old Black, io (Cragg, tecnico del sound per la chitarra) sono vecchio, i Crazy Horse son vecchi, e l’attrezzatura è vecchia»).
3._JARMUSCH_e_YOUNG_COMMENTANO_IL_VECCHIO_TESTAMENTO
Così pure il viaggio visivo on the road al seguito della band, solcato dalle highways americane e da nuvole infiammate al tramonto, è un omaggio al paesaggio americano delle praterie sterminate, alla libertà dei roadies della beat generation. È un paesaggio fortemente evocativo ma che poco ha a che spartire con quello più concettuale e interiore di Jarmusch, poco incline a riconoscerne la referenzialità, per esempio nella riconoscibilità geografica dei luoghi, ma piuttosto a rivelarne aspetti inattesi e stranianti che tradiscono la lezione surrealista: si pensi al muro bainco di neve di Cleveland o al grigiore desolante della Florida in Stranger than Paradise (1984), o ancora alla città di New York in Permanent Vacation (1980), colta come discarica post-atomica o sobborgo diroccato e infestato di vegetazione parassitaria.
Non diversamente i luoghi in between tanto cari a Jarmusch che, in Year of the Horse, si concretizzano nelle stanze d’albergo, negli angusti corridoi del backstage e in interni di autobus, trovano la loro controparte nel palcoscenico, luogo naturale dell’attività performativa di Neil Young e dei Crazy Horse. Là si compone l’universo jarmuschiano delle facezie quotidiane contrassegnate da un’irresistibile leggerezza dell’essere, mentre sul palco prende forma la pregnante poetica di Young. È così che Year of the Horse acquista il suo ritmo nell’alternanza di pieni e vuoti, di forte e piano, frutto di un lavoro corale, come lascia intendere Jarmusch quando abbandona la cinepresa e dunque la sua posizione di privilegiato orchestratore del lavoro e si fa riprendere accanto all’amico e collega Young.
di Rebecca Amanda Snyder
(1) MOSCA UMBERTO, Jim Jarmusch, Il Castoro Cinema, Milano 2000, p. 8.
(2) intervista realizzata nel 1989 in Luc Sante, “Mistery Man”, in AA.VV., Jim Jarmusch Interviews, a cura di L. HERTZBERG, University Press of Mississippi, 2001, p. 92

Locarno 2014, Pardo d’oro a Lav Diaz per From what is before

Pardo d’oro 2014 a Lav Diaz per il suo From what is before. Il festival del film di Locarno dà prova di grande apertura mentale, comprovata dall’aggiudicazione del massimo riconoscimento al regista filippino e alla sua monumentale opera di 338 minuti, quasi sfidando, di rimpallo, il festival di Cannes che, nella sua scorsa edizione, ha onorato della Palma d’oro Winter sleep, del turco Nuri Bilge Ceylan, di ‘soli’ 198 minuti. Un film lunghissimo, dunque, che assurge a stendardo di un festival che non fa concessioni a nessuno e che, a ogni nuova edizione, non perde occasione per dichiarare il suo incondizionato amore per il cinema o, meglio, il “film”, nastro fatto di immagini e suoni, velo di Maya che ci regala, a seconda dei casi, consolatorie, giubilatorie piuttosto che salvifiche esperienze estetiche.

Ponendosi in marcato dissenso (o assoluto disinteresse) con il cinema mainstream e le sue logiche di mercato, From what is before è un’opera che, per la sua lunghezza e lentezza, mutuate dall’assenza di movimento della macchina da presa, cristallizzata in silenti piani fissi, invita ad un’ esperienza estetica che si sgancia da una fruizione di tipo spettacolare, rappresentazionale e quindi, di per sé, mistificante ma va oltre, facendo coincidere il tempo della visione con quello della vita. Lo spettatore è libero (anche, letteralmente, di lasciare la sala) di impregnarsi di immagini e suoni, che investono qualcosa che è dell’ordine della sensazione piuttosto che dell’emozione. Una volta compiuto questo atto di fede, anche la nozione di tempo diviene relativa, perché non più esperito linearmente come concatenazione di causa ed effetto ma il suo trascorrere è funzionale ad un’intensificazione delle sensazioni.

Ciò che ci consegna, innanzitutto, From what is before, è il racconto del legame fusionale dell’uomo con la natura sottolineato da un magnifico bianco e nero in cui corpi umani e natura si compenetrano, bagnati, come sono, della stessa luce. Tale rapporto con la natura viene di volta in volta investito di sacralità (i canti tribali che inneggiano alla divinità della pioggia, Itang offerente di fronte al mare in burrasca) e di oscuro fatalismo (alcune capanne bruciano nella notte mentre il bestiame viene decimato per un’epidemia batterica). La comunione con la natura è sigillata nei lunghi piani fissi in cui l’uomo attraversa spazi sterminati o si rintana tra le frasche per ripararsi dal temporale in un silenzio estatico rotto solo dal ticchettio della pioggia.
Le Filippine, battute dai monsoni, da uragani, tifoni e, alternativamente, soggette a siccità o a piovisità prolungate e intense, diventano il luogo privilegiato della lotta dell’uomo con la natura.

Una natura che è spesso matrigna, imperscrutabile e che, alle volte, genera creature bizzarre, come l’indifesa Joselina, venere senza discernimento e mostro taumaturgo. Itang si prende cura, sacrificando tutta sé stessa, della sorella affetta da autismo. La consapevolezza di questa disgrazia e del destino crudele che l’attende, spingono Itang ad affidarsi ad una religione meticcia: la più intensa sequenza del film è forse quella in cui Itang si reca alla scogliera e, allargando le braccia al cielo, prega, di fronte al mare in burrasca, una Vergine ‘indigena’, alla quale fa un’offerta votiva per propiziare una miracolosa guarigione della sorella. Attraverso questo brano di sublime poesia Lav Diaz ci parla non solo della struggente tensione dell’uomo verso il trascendente ma anche del popolo filippino, un variegato di etnie in cui la cultura e confessione cristiane, importate dai conquistatori Spagnoli a partire dal Seicento, si sono ibridate a rituali tribali e superstizioni arcaiche.

Secondo le parole del regista, From what is before “si basa sulle mie memorie di infanzia, due anni prima che la Legge Marziale venisse dichiarata nelle Filippine. Fu l’avvento del periodo buio della nostra storia, fu catastrofico. Ogni cosa nel film proviene dalla mia memoria, tutti i personaggi sono veramente esistiti, ne ho solo cambiato i nomi”. Alla luce di questa dichiarazione, il soggetto principe del film dovrebbe essere la devastazione del villaggio filippino ad opera delle milizie di Marcos. In realtà, a parte l’ultimissima parte in cui una brigata di spietati boia cacciano con violenza dal villaggio gli ultimi resistenti, l’intervento dei soldati stanziali è piuttosto sporadico e, apparentemente, non troppo invasivo, lasciando che i destini dei singoli personaggi si compino autonomamente e indipendentemente dalla presenza dei miliziani. Per questo l’impressione è che ci sia uno scollamento tra i due assi narrativi, come se si trattasse di due galassie distinte che si sfiorano per caso, senza alcun rapporto di necessità, ma che confluiscono verso lo stesso scenario finale: la dissoluzione del villaggio.

D’altra parte, queste due macrostorie appartengono a ‘tempi’ diversi. Gli abitanti del bario filippino e i fatti che li riguardano sono investiti di un’aura sacra e agiscono in una dimensione mitica: Tony, il commerciante di vini, abusa di Joselina, definita ‘kapre’ (demone), dalle malevoci diffuse da Heding. Questo atto di profanazione segnerà il destino del villaggio conducendo tutti gli abitanti a macchiarsi di una colpa: l’oltraggio subito da Joselina menerà Itang all’omicidio della sorella e poi al suicidio; padre Guido, la guida spirituale del villaggio, mente sull’accaduto per ‘salvare’ la memoria delle due sorelle; Sito sopprime Tony dopo la delazione del piccolo Hacob.
L’altro asse narrativo, che costituisce un fatto storico, è rappresentato dall’ arrivo nel villaggio delle truppe di Marcos ed è formato dalla relazione triangolare di tre attori: l’insieme degli abitanti del villaggio ostili all’accampamento dei soldati, la spia infiltrata Heding e il general Perdido, due ‘emanazioni’ di Marcos. Secondo questo altro punto di vista la causa della fine della comunità è l’insofferenza e la paura degli abitanti che, uno dopo l’altro, abbandonano il villaggio lasciando il campo al dittatore.

La difficoltà o il mistero del film risiede nella convivenza della dimensione sospesa del mito, interpellante il sacro e l’umano, e della contingenza storica, ricostruita attraverso alcuni brani non sempre adeguati al tono tutto sommato lirico del film e, talvolta, scadenti nel grottesco. Si pensi all’incontro tra Heding, deposta dopo due anni dal suo incarico di agente segreto infiltrato nel villaggio per sondarne gli umori verso il regime, e il general Perdido: i due brindano all’avanzata delle truppe, burlandosi malignamente degli abitanti del villaggio.
L’impressione è che queste due istanze, invece di rafforzarsi l’un l’altra, rischino di far scivolare il film verso una deriva o confusione di significato che non gli giova.

A meno che si voglia leggere la vittoria delle truppe di Marcos e, dunque, della sua sanguinosa dittatura, attraverso lo specchio dell’ irriducibile isolamento esistenziale dei personaggi. Perché se l’impressione iniziale è quello di un corpo sociale coeso da riti e credenze comuni, di un villaggio di uomini e donne legati da genuini affetti familiari o di vicinato, che praticano prioritariamente il baratto senza che il denaro ne abbia deteriorato i rapporti, in realtà il film è una costellazione di solitudini e miserie private : l’alienazione mentale di Joselina è per Itang un calvario familiare cui non si può sottrarre ; Sito intrattiene con il figlio adottivo Hacob, che progetta segretamente di lasciare il villaggio per ricongiungersi coi genitori naturali, una relazione parentale basata sulla menzogna ; Tony è l’impunito profanatore di altari sacri e il violentatore di Joselina ; il maturo scrittore che torna nel villaggio natio dopo un lungo peregrinare, è ormai estraneo alla comunità e forse più devoto al passato, a trascriverne le memorie e a sigillare la fine di un’epoca.

Locarno 2014: “Perfidia” di Bonifacio Angius

Ha 32 anni, è sardo. Ha le idee chiare, il carisma e la stoffa di un vero meneur du jeu. La sua scuola è il cinema : Scorsese, Fellini, Leone, Cassavetes, Chaplin sono i modelli che ha fatto suoi, non in maniera superficiale e ossequiosamente debitoria, ma assimilandoli perfettamente e instaurando una filiazione ideale coi Maestri.

Quel che è certo è che questo fuoriclasse che si chiama Bonifacio Angius farà molta strada.

Il suo primo lungometraggio, Perfidia, selezionato al festival del film di Locarno, non ci consegna solamente un desolante e verace spaccato di provincia sassarese, ma anche un ritratto potente della relazione padre/figlio, della desolazione di un’intera generazione (quella dei trentenni italiani) spazzata via dalla storia, e della progressiva perdita di riferimenti istituzionali e spirituali nella vita del singolo.

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Alla morte della madre, il trentacinquenne Angelino si ritrova tutto solo col padre Peppino. Quest’ultimo sembra accorgersi, forse troppo tardi, dello stato di assoluta catatonia in cui è immerso il figlio. Si adopera allora per trovargli un lavoro coi soli mezzucci di cui dispone, rivolgendosi a qualche vecchia conoscenza o affidandosi al favoritismo clientelare.

Ma Angelino non è fatto per lavorare, è un emarginato, un ‘alieno’ o, come lo definisce lo stesso Angius, “un personaggio buttato nel mondo, che non capisce e non viene capito”. Angelino parla a monosillabi, nel suo sguardo si coglie, di volta in volta, lo stupore di un bambino, la gravità del profeta, l’imperturbabilità dello stoico.

L’atmosfera cupa, desolante che aleggia nel film ed è mutuata da una prodigiosa luce metallica, viene stemperata dalle gags dei due compagni di ventura (che non cadono mai nel bozzettismo), dalla loro becera ignoranza, dalle azioni maldestre e goffe di Angelino e dalla sfortuna che lo perseguita. Il film non è giocato, cioè, sul tasto monoemozionale di una tristezza disperante ma è felicemente contrappuntato da schegge di tragicomicità che obbligano le labbra dello spettatore ad incresparsi in un sorriso ironico.

Si esperisce così, in questo film, l’esperienza del male come perversione: Perfidia ci dice (nel discorso del catechista alla radio che attraversa in filigrana tutto il film) che il Diavolo esiste, è dappertutto e ha un ghigno, si beffa di noi e mescola volentieri le carte, insinuando il Male laddove pensavamo ci fosse del Bene.

In questo film, dove ogni inquadratura è meditata, giusta e ottenuta attraverso un lavoro di sottrazione, anche quando indugia in una sorta di rêverie felliniana, il racconto dei singoli casi umani è talmente potente ed evocativa che attinge ad uno spessore universale.

Il cast del film è misto, formato da non attori, attori di teatro e semiprofessionisti, capeggiati dallo straordinario Stefano Deffenu (“la prima era quasi sempre buona”) e dal pregevolissimo Mario Olivieri.

Bonifacio Angius è prolifico, sta già lavorando alla sceneggiatura di un altro film, una storia d’amore tra tre reietti della società: lui è violento, pieno d’amore ed alcolizzato, lei è stralunata, internata in un ospedale psichiatrico ed è perseguitata dall’idea che qualcuno le abbia rapito il proprio figlio, una sorta di ‘pinocchietto’ costretto in un centro di accoglienza per minori. È con impazienza che attendiamo di vedere la storia di questi tre outsiders sul grande schermo.

Anche Stefano Deffenu lavora dietro la cinepresa e sta attualmente preparando un documentario a partire da alcune riprese che ha fatto in India e il cui soggetto è un gruppo di bambini indiani.

Locarno 2014: le erranze di Un jeune poète

Il festival del film di Locarno riserva, come al solito, nella sezione « Cineasti del presente », delle belle sorprese. È il caso del piccolo gioiello di rohmeriana memoria Un jeune poète di Damien Manivel.

Il film del giovane cineasta francese racconta, in una cinquantina di scene, le erranze del flaneur e poeta diciottenne Rémi Taffanel nella cittadina marittima di Sète con rare freschezza e levità.

Rémi ricerca, insegue, provoca l’ispirazione : lo cogliamo in biblioteca mentre punta a caso il dito nel dizionario per trovare la parola d’oro che gli evochi nuovi orizzonti immaginativi ; si immerge in mare per domandare l’arcano ad un polpo di passaggio ; interroga i passanti o si attarda con gli avventori di un bar ; nomina le farfalle e gli oggetti del mondo con lo sguardo primigenio di un fanciullino pascoliano ; Rémi sogna, si innamora, si strugge per una cocente delusione amorosa e, allora, si rifugia nell’alcol o va a meditare, romantico giovane Foscolo, sulla ‘tomba del poeta’.

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Questo piccolo capolavoro è stato girato in fretta e furia l’estate scorsa. Un mese prima delle riprese Manivel ha scritto una cinquantina di ‘situazioni’ eppoi, arrivato sul posto, ha lasciato che il caso e l’improvvisazione prendessero il sopravvento. E ciò nonostante, il film è di un rigore impressionante. Costruito alternativamente su piani fissi (alcuni dei quali sprigionano un magnetismo alla Kaurismaki) e sui piani sequenza, risponde alle necessità imposte dal film, e nella fattispecie, « al soggetto del film, Rémi, alla sua gestualità e a quel poco di denaro di cui disponevamo ».

Autoprodotto con un budjet ridotto all’osso e una équipe formata da quattro persone (tutti compresi) questa piccola meraviglia è nata grazie ad una videocamera, una pertica, dei microfoni cravatta e la luce di una calda estate mediterranea.

Manivel può vantare un indubbio talento, confortato da un occhio coltivato (ha frequentato il Fresnoy, istituto dedicato alla crezione artistica audiovisiva) e rivolto verso l’Oriente, in particolare ai cineasti taiwanesi Tsai Ming Lian e Hou Hsiao Hsien, o al cinema americano underground del primo Jim Jarmusch: Manivel dice di essersi ispirato a Permanent Vacation , non tanto sul piano artistico ma relativamente al procedimento adottato: «volevo fare un piccolo film modesto, dove non succedono tante cose ma che, tuttavia, rimangono bene in testa».

Locarno 2014, “Sils Maria”: un formidabile trio al femminile

Il film di Olivier Assayas, presentato nella scorsa edizione del festival di Cannes e a Locarno per il premio Excellence award Moet & Chandon a Juliette Binoche, è stato qualificato dalla critica come, tutto sommato, un “buon film”. Nonostante la tiepida accoglienza che gli è stata riservata, non si può non ammirarlo per la grande intelligenza con cui è stato concepito e confezionato e per il sorprendente trio al femminile formato da Juliette Binoche, Kristen Stewart e Chloë Grace Moretz.

Sils-Maria

Il soggetto del film è stato suggerito ad Assayas dalla stessa Juliette Binoche e mette in scena la crisi di identità, sia sul piano esistenziale che professionale, di un’attrice quarantenne, Maria Enders, interpretata dalla stessa Binoche che, all’apice del proprio successo, si trova a dover fare i conti con l’età e le giovani leve dello star system hollywoodiano. L’istanza diegetica trova riscontro ideale nella scelta del cast: da una parte troviamo un’acclamata attrice francese, la Binoche, quintessenza del cinema d’autore europeo (premiata a Cannes, Venezia e Berlino, è passata davanti la cinepresa di registi del calibro di Godard, Kieslowski, Haneke, Dumont), dall’altra le due attrici statunitensi Kristen Stewart, portata alla ribalta per la sua interpretazione nella saga Twilight, e Chloë Grace Moretz, nel film l’antieroina Jo-Ann Ellis, che soffierà subdolamente alla Enders/Binoche il ruolo di vedette nella pièce teatrale Maloja Snake, decretando così l’ineluttabile declino della rivale. Quest’ultimo personaggio, interpretato dalla Moretz, è verosimilmente ispirato alla vita e alla carriera della giovane attrice americana, vero e proprio camaleonte artistico e mediatico: si è destreggiata nei ruoli e nei generi più diversi, passando dai film horror e di supereroi alle serie tv fino alle vette del cinema di Scorsese e Tim Burton, sempre, ben inteso, posando per la press people internazionale, in uno spasmodico quanto strategico desiderio di fagocitare lo spazio mediatico.

Ed è proprio questo uno dei tasti su cui preme, in maniera convincente, il film di Olivier Assayas: la carta del successo si gioca sul piano della popolarità mediatica, anche di bassa lega. Memorabile è la sequenza in cui le due attrici comprimarie e il regista della pièce si incontrano per un confronto professionale che, infine, non avrà luogo perché vanificato dall’emergenza dello scandalo amoroso originato dalla relazione segreta tra Jo-Ann e il suo amante: un’orda di paparazzi sorprende la giovane coppia clandestina, mentre Maria assiste alla scena ignorata da tutti e all’ombra del successo suscitato dalla sua rivale.

Ciò che interessa al pubblico è la notizia shock, ad effetto, la rivelazione di relazioni intime illegittime o poco ortodosse. Ed è così che Assayas asseconda il nostro desiderio, per poi sconfessarlo, attraverso un trailer che costituisce un intelligentissimo contrappunto al film. Nel trailer vengono suggeriti una relazione omosessuale tra la matura Maria Enders e la giovane assistente Valentine (“Ciò che ti tiene sveglia la notte è il desiderio per me”) e un atteggiamento sfrontato quanto ostile da parte di Jo-Ann nei confronti di Maria (“Te ne vai come se io non esistessi”, “E allora?”). In realtà ci si accorge, vedendo il film, del travisamento della realtà: le battute pronunciate da Maria e Valentine sono quelle del copione di Maloja Snake mentre, nel secondo caso, la risposta arrogante di Jo-Ann a Maria è di natura professionale e non personale.

Assayas ci invita a squarciare il velo delle apparenze e a decomporre la ‘fiction’ confezionata nel trailer, per scoprire la realtà e complessità delle relazioni umane in un progetto che lui stesso ha definito come “un documentario in forma di fiction”. Ciò che avviene nelle coulisses del mondo dello spettacolo sarà allora più banale di ciò che il trailer dava ad intendere ma, non per questo, meno drammatico e crudele. Secondo questa nuova prospettiva, la porta che si schiude sulle natiche di Valentine dormiente non traduce il desiderio sessuale di Maria ma l’infrazione dell’intimità di una giovane assistente defraudata della propria vita privata per assistere, sostenere e compiacere l’ego di una celebrità, servendo, alternativamente, da confidente e capro espiatorio, fino al crudele epilogo: Valentine sparisce e viene sostituita da una nuova assistente. Non diversamente, Jo-Ann non è la ragazzina ribelle e apparentemente immatura che Maria scopre in rete o in tv, ma una scaltra ‘trasformista’ in grado di interpretare nell’arte come nella vita i ruoli più diversi alternando, a suo vantaggio, sfrontatezza, audacia e aplomb politicamente corretto.

Insomma, un film che merita plausi per la sorprendente interpretazione del trio femminile e la sua capacità di sedurre il pubblico in maniera sapiente, lenta ma efficace come quelle nuvole di Sils Maria che, come un serpente, si avviluppano attorno alle montagne svizzere e si impadroniscono del paesaggio fino a cancellarlo.

Il film uscirà nelle sale francesi il 20 agosto e sarà distribuito in Italia dalla Good Films in date ancora da definire.