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Francis Ford Coppola, Apocalypse Now Redux, 2001

Regia: Francis Ford Coppola
Produttore: Francis Ford Coppola, Kim Aubry per la versione Redux
Sceneggiatura: John Milius, Francis Ford Coppola, Michael Herr
Soggetto: ispirato al romanzo di Joseph Conrad, Heart of darkness (1899)
Co-produttori: Fred Roos, Gray Frederickson e Tom Sternberg
Direttore della fotografia: Vittorio Storaro
Scenografia: Dean Tavoularis, Angelo P. Graham, George Nelson
Montaggio: Richard Marks, Walter Murch, Gerald B. Greenberg e Lisa Fruchtman
Suono: Walter Murch
Musiche: Carmine Coppola e Francis Ford Coppola, Mickey Hart, The End (The Doors), Cavalcata delle Valchirie (Richard Wagner), Suzie Q (Dale Hawkins)
Costumi: Charles E. James
Durata: 196 min
Interpreti: Marlon Brando (colonnello Kurtz), Robert Duvall (tenente-colonnello Kilgore), Martin Sheen (il capitano Willard), Frederic Forrest (Chef), Albert Hall (Chief), Sam Bottoms (Lance), Laurence Fishburne (Clean), Dennis Hopper (il fotogiornalista), G.D. Spradlin (il generale), Harrison Ford (il colonnello), Jerry Ziesmer (il civile), Scott Glenn (Colby), Chyntia Wood (Playmate dell’anno), Colleen Camp (Playmate Miss Maggio), Linda Carpenter (Playmate “Miss Agosto”), Christian Marquand (Hubert de Marais), Aurore Clément (Roxanne Serrault), Michel Pitton (Philippe de Marais), Franck Villard (Gaston de Marais), David Olivier (Christian de Marais), Chrystel Le Pelletier (Claudine), Robert Julian (le tuteur), Yvon Le Seaux (le sergent Lefevre), Roman Coppola (Francis de Marais), Giancarlo Coppola (Gilles de Marais).
Premi e Festival: Apocalypse Now: Palma d’Oro e Premio FIPRESCI al Festival Internazionale del Film di Cannes nel 1979; Golden Globe per Miglior regia, Miglior attore non protagonista a Robert Duvall, Miglior colonna sonora nel 1980; Premio Oscar per Miglior fotografia a Vittorio Storaro e Miglior sonoro a Walter Murch nel 1980; Premio BAFTA per Miglior regia e Miglior attore non professionista a Robert Duvall nel 1980; David Donatello per Miglior regista straniero nel 1980. Apocalypse Now Redux: Prima Mondiale al Festival Internazionale del Film di Cannes nel 2001.
Breve sinossi: È il 1969. Il capitano Willard è a Saigon, mentre imperversa la guerra del Vietnam, per compiere una missione speciale: egli dovrà risalire il fiume Nung, nella giungla cambogiana, per scovare il colonnello Kurtz, apparentemente impazzito, affrancatosi dall’esercito per costituire un proprio impero dove è adorato da una folta schiera di indigeni e di protetti, una sorta di armata personale ostile al potere americano. Una volta insidiatosi tra le sue file dovrà porre fine al suo comando uccidendolo senza scrupoli. Inizia così per il capitano Willard un vero e proprio viaggio nell’inferno della guerra del Vietnam, punteggiato dall’incontro di personaggi surreali come il tenente colonnello Kilgore che, sulle note della Cavalcata delle Valchirie di Wagner, distrugge col napalm ettari di foreste e villaggi abitati da civili vietnamiti, mentre invita i “suoi” a fare surf tra le granate che esplodono sul campo di battaglia. Una volta lasciato il “ciclope” Kilgore, Willard e il suo equipaggio proseguono il loro viaggio mitico attraverso una guerra rock and roll e psichedelica, sempre più folle ed insensata: playmates venute dal cielo si esibiscono per “ritemprare” lo spirito dei soldati, mentre antichi coloni francesi, impiantati nell’angolo più remoto della giungla, rimembrano gli anni d’oro della colonizzazione francese in Indocina. Una volta superato l’ultimo baluardo militare americano, Willard incontrerà finalmente il colonnello Kurtz, già da tempo ammalato ed in cerca di colui al quale affidare le sue memorie e il suo pensiero, fatto di umanità ed orrore, fierezza e crudeltà, saggezza e follia… Un sacrificio e un rituale cruenti suggelleranno la morte di Kurtz e la “rinascita” di Willard.
Apocalypse Now Redux fu presentato fuori concorso a Cannes nel 2001 in una veste rinnovata rispetto alla versione originale del 1979, trattandosi di una pellicola più lunga di 53 minuti valorizzata da un restyling al Technicolor e da un potenziamento sonoro ottenuto grazie al missaggio in Dolby Digital Sorround.
É significativo riconoscere come alcune dichiarazioni di Coppola, a proposito dell’imminente uscita del film nel 1979, potessero rivelarsi profetiche vent’anni dopo, alla luce degli eventi che si sarebbero prodotti esattamente quattro mesi dopo la presentazione del film a Cannes, l’11 maggio 2001, ovvero l’attentato al World Trade Center di New York dell’11 settembre. Fotografare questi due avvenimenti e metterli in relazione consente di cogliere uno snodo fondamentale all’interno dello “zeitgeist” dell’epoca e di gettar luce sullo statuto dell’immagine nel cinema di Coppola.
Nel lontano, ma forse non troppo, 1979 il regista (prima di essere incensato con la Palma d’Oro), in un’intervista esclusiva (1), dichiarava che con Apocalypse Now aveva voluto combinare un film “catastrofico” con un soggetto difficile di matrice filosofica, sottolineandone il potere sociale e affermando che un film spettacolare e un feuilleton popolare alla televisione potevano creare un governo e mantenerlo al potere. In questo senso Apocalypse Now manifestava una vocazione politica: «dà al pubblico esattamente ciò che vuole ma con un obiettivo che non suppone […] Cerco di fare un film che la gente voglia andare a vedere, e tuttavia li porterò là dove si sentiranno a disagio […]. Non so cosa capiterà con questo film tanto esce dall’ordinario […] per l’idea di Bene e di Male che vi è sottesa […]. Tratta delle persone e della morale […]. Le persone si battono fino alla morte per la loro idea di Bene e di Male […]. Si comincia a riflettere e a chiedersi se tutto ciò è veramente Bene o Male, vero o falso […]. Forse la morale è relativa, la morale è come la gravità, qui appare logica ma laggiù non ha più senso. Laggiù è la guerra».
Se caliamo tali dichiarazioni nello scenario “apocalittico” (anche nel senso più triviale del termine) dell’11 settembre, non potremo disconoscerne la grande attualità: l’impatto dei due aerei di linea sulle torri del WTC e il loro conseguente crollo fu prima di tutto un grande spettacolo mediatico e, per parafrasare le parole di Coppola citate sopra, di carattere catastrofico al quale il “pubblico” era preparato e che forse attendeva con l’ansia famelica delle premonizioni che non si sono ancora avverate, premonizioni alimentate dalla propaganda e dall’azione strategica degli apparati di sicurezza nazionale. L’11 settembre è stato l’occasione per perpetrare una guerra in nome del Bene contro il Male, materializzatosi nel terrorismo di matrice islamica, nuova minaccia cui far fronte, anche coi mezzi della guerra preventiva.
La compresenza del film di Coppola e dell’attentato del WTC, in quel fatidico inizio di terzo millennio, offre anche l’occasione per evidenziare l’asse del passaggio progressivo da una concezione dominante di una minaccia all’altra, per la cui elaborazione si è mobilitata l’industria americana della produzione strategica e l’industria dell’immagine: alla minaccia sovietico-comunista cui rimanda Apocalypse Now, in cui la guerra del Vietnam è presentata come «esperienza collettiva del male nel nome della grande strategia della lotta contro il comunismo» (2), passando attraverso quella rappresentata da Saddam Hussein, succede quella delle «reti clandestine» (3), in primis il terrorismo di matrice islamica.
Con l’11 settembre tale minaccia si è verificata di fatto (4) , e lo schermo della fiction che si frapponeva tra il pubblico e le sue paure, si è dissolto. Ciò ha determinato la sensazione, da parte della popolazione, di essere in un film, di non saper più distinguere il vero dal falso. Anche la morale, nella pretesa identificazione del Male con un nemico “esterno”, ha cominciato a vacillare nel momento in cui si è riconosciuto che l’ “invenzione” di un Asse del Male coincideva con i desideri dell’industria degli armamenti, delle agenzie d’intelligence, del cosiddetto “complesso militare-industriale”. L’11 settembre la guerra non è stata combattuta oltremare, in un Vietnam esotico ed ostile, ma la sua follia mortifera si è prodotta in seno alla più grande potenza mondiale e, secondo l’ipotesi più estrema, in nome di una morale fondata sul diritto militare invece che su quello civile e che, pur di «proteggere il modo di vita americano» (5), ha condotto all’immolazione di una parte della popolazione, in un gioco auto-sacrificale atto a rifondare l’identità della nazione.
Anche in Apocalypse Now è presente questo aspetto auto-sacrificale e rifondativo nell’ultima sequenza del film, in cui Kurtz si fa ammazzare per mano di Willard. Il suo sacrificio “rituale” determina la “rinascita” del capitano, come si evince nella scena simbolica in cui Willard emerge dalle acque, con il volto trasfigurato in una maschera di guerriero: l’assassino Kurtz («Io ho visto l’orrore, l’orrore che tu hai visto. Ma non hai il diritto di chiamarmi assassino. Hai il diritto di uccidermi, hai il diritto di fare ciò. Ma non hai il diritto di giudicarmi») trova il proprio riscatto attraverso il sacrificio di sé ed è questo l’inquietante messaggio di salvezza di cui Willard, l’ “uomo nuovo”, si fa ambasciatore. Il sacrificio di sé diventa, dunque, il presupposto imprescindibile per il proprio riscatto e per rifondare e perpetuare la propria identità o memoria.

Captain_Willard
Tale messaggio è rintracciabile nel film su scala più ampia e coinvolge, questa volta, non la sfera individuale-simbolica ma il corpo dell’esercito, costituendo lo spunto per la trama, ovvero la spedizione segreta del capitano Willard in Cambogia con l’obiettivo di uccidere il colonnello Kurtz, uno che ha scelto un’altra via, un altro linguaggio, un’altra Legge rispetto al diritto, alla disciplina e all’ordine militare. Il colonnello Kurtz, al pari del tenente-colonnello Kilgore, semina morte e distruzione «senza metodo» ma, a differenza di quest’ultimo, si è affrancato dall’esercito, divenendo un dissidente, una “cellula impazzita”, costituendo non tanto una minaccia per i contingenti militari americani quanto per la credibilità dell’immagine della guerra in patria. Il suo sacrificio è indispensabile al fine di preservare tale immagine e continuare a dirigere l’opinione pubblica.
É in questo senso che Coppola ci offre una chiave di lettura per interpretare la guerra imperialista condotta dagli Stati Uniti: essa fonda la propria legittimità su un atto auto-sacrificale ed è, prima di tutto, una guerra “narcisistica”, combattuta contro un nemico interno, che assume le sembianze del doppio. Sono numerosissime le occasioni in cui la figura simbolica del doppio viene evocata e cristallizza il senso del film. Oltre alla specularità delle figure Kilgore/Kurtz cui si è accennato, la prima scena del film ne racchiude il senso: Willard è in una stanza d’albergo a Saigon in attesa di attendere gli ordini della missione cui è stato preposto. In uno stato allucinato osserva la sua immagine allo specchio e contro di essa sferra un pugno ferendosi la mano e cospargendo inavvertitamente il proprio corpo di sangue. Il fantasma del doppio s’impossessa anche dell’identità del nemico che viene nominato con l’appellativo Charlie. Il nomignolo affibbiatogli, per la sua connotazione heimlich, testimonia certamente di un’operazione strategica volta al suo “addomesticamento” per esorcizzarne l’alterità insondabile ma, allo stesso tempo, Charlie è, in Heart of Darkness di Conrad, al quale Apocalypse Now è ispirato, il nome proprio del capitano Marlow, i.e. Willard nel film. Ancora, nella scena della piantagione francese, assente nella versione del 1979 e aggiunta integralmente nella versione Redux, Roxanne rivela a Willard che dentro di lui risiedono contemporaneamente l’amore e l’odio.
Le immagini dell’11 settembre, nella loro fulgida e irrefutabile evidenza, sono il manifesto della sindrome del nemico interiore e della lotta col doppio: ciò cui, all’unanimità, abbiamo assistito è stato lo spettacolo dello schianto di due aerei di linea americani contro i simboli dell’impero economico e finanziario americano: le torri gemelle del WTC. Il nemico (in quanto minaccia esterna) era, di fatto, invisibile.
Non diversamente in Apocalypse Now il nemico “dichiarato”, il Viet Cong, è invisibile: gli unici vietnamiti o cambogiani che vediamo sono dei civili, fantasmatiche comparse che scorrono sullo sfondo dello schermo o vittime inermi colte in disperati tentativi di autodifesa. L’“assenza” del nemico è la dichiarazione, da parte del regista, che la guerra del Vietnam è stata prima di tutto una guerra di conquista imperialista.
Tuttavia tale guerra è stata combattuta e alla fine vinta dal Vietnam del Nord e dalle forze del Fronte di Liberazione Nazionale con il sacrificio di oltre tre milioni di morti tra vietnamiti, cambogiani e laotiani. Ma Coppola ha rinunciato a descrivere o ad addentrarsi nell’alterità radicale dei combattenti dell’altro fronte, circoscrivendo il mirabolante viaggio di Willard al palcoscenico dell’isteria americana, all’imagerie che ruota attorno alla guerra del Vietnam, con gli armamenti, gli elicotteri, la musica rock, le droghe e la psichedelia. Coppola ha scelto di rimanere al di qua del “fronte” e in questo risiede la problematicità del film.
Nelle intenzioni del regista Apocalypse Now non doveva essere un film documentario ma «su come l’America fa le cose, un grande show» (6). Purtuttavia l’impressione è che, nonostante la volontà di denuncia, difficilmente Apocalypse Now si possa considerare un film antimilitarista, rischiando semmai di divenire un’ennesima apologia della guerra (7). Quasi interamente finanziato dallo stesso Coppola che, dopo il successo de Il Padrino (The Godfather, 1972) e Il Padrino-Parte II (The Godfather: Part II, 1974) aveva costituito un vero e proprio impero, capace di concorrere con gli studios di Hollywood in quanto a capacità produttive, il film doveva innanzitutto soddisfare esigenze da botteghino: «Ci ho messo dentro di tutto, sesso, violenza, humour. È volgare, puro intrattenimento, eccitante, pieno di azione. Volevo che le persone venissero a vederlo» (8). Dunque la disposizione del regista nei confronti della sua opera era molto simile a quella di un impresario dello spettacolo. La follia devastatrice della guerra, raccontata attraverso un linguaggio surreale e attingendo al repertorio del film di genere, rischia di essere presentata “benignamente” come esperienza euforica, viaggio allucinato, piuttosto che teatro di atrocità e crudeltà, piattaforma ineluttabile del dramma umano.
Per cui è lecito domandarsi se Apocalypse Now non si allinei in un certo qual modo alla produzione hollywoodiana, fortemente embricata al potere istituzionale, con esso costantemente in dialogo e spesso volta a sostanziarne il pensiero strategico attraverso «una descrizione della guerra americana che non rende conto della sua realtà ma che la completa rendendola accettabile, rendendo eufemistica la sua terribile efficacia tecnologica e strategica» (9). Sebbene Coppola abbia affermato a più riprese che Apocalypse Now non fosse un film strettamente sul Vietnam (ma esperienza interiore, viaggio allegorico-filosofico ove l’uomo si confronta con le proprie paure), ciò non toglie che il Vietnam c’è e il rischio è stato quello di non render conto della sua realtà ma di farla evaporare nel mito e di «creare una storia alternativa immaginata e trasformata in spettacolo collettivo che costituisce un universo mentale ove l’attualità strategica è giocata o rigiocata, dove può essere dibattuta e perfezionata» (10) .
Il pensiero strategico, d’altra parte, gioca ininterrottamente sulla ibridazione, l’oscillazione, la compenetrazione tra realtà e finzione, realtà e immagine cinematografica. Apocalypse Now e l’attentato dell’11 settembre sono due eventi che testimoniano dell’ambivalenza di realtà e finzione. L’attentato dell’11 settembre fu l’avveramento di un film catastrofico: l’avvenimento in cui si dava concretezza e densità all’immagine cinematografica.
D’altro canto, come in un destino incrociato, le vicende di produzione di Apocalypse Now, film di denuncia sulla guerra in Vietnam, testimoniano della “partecipazione” di Coppola ad una guerra reale, quella condotta dal presidente filippino Marcos contro i ribelli comunisti rifugiatisi nelle isole meridionali delle Filippine (11). Poiché la U.S. Army si rifiutò di collaborare alla produzione del film, Coppola decise di girarlo nelle Filippine e trovò in Marcos un alleato, a sua volta sostenuto dalla CIA e dallo State Department. Per girare alcune scene, tra cui quelle in elicottero, Coppola affittò i mezzi filippini. Sul set era sempre presente un generale delle forze aeree che, nell’evenienza, avrebbe sottratto (come di fatto avvenne) i velivoli a Coppola per andare a combattere la guerra contro i ribelli. Portando il discorso all’estremo si potrebbe dire che, per rendere possibile la realizzazione di Apocalypse Now, Coppola foraggiò simbolicamente, seppur indirettamente, una vera guerra anticomunista.
Egli affermò che il fatto di essere un regista, di autoprodurre un’opera dal budget stellare di 13 milioni di dollari (cifra che aumentò notevolmente in corso di produzione fino a raggiungere il tetto dei 30 milioni di dollari) e di essere lontano in un paese orientale, lo faceva sentire in uno stato simile a quello di Kurtz (12). Ebbene, se trasferiamo la metafora sul piano della produzione cinematografica, potremmo paragonare Coppola al produttore dispotico di una Piccola Hollywood di cui egli fu il meneur du jeu e che si contrapponeva alla Grande Hollywood ma che di questa condivideva molti aspetti, tra cui il cô spettacolare, megalomane, estetizzante e anestetizzante…
di Rebecca Amanda Snyder
(1) L. Bloch-Morhange, D. Alper, Entretien avec Francis Ford Coppola in «Cahiers du cinéma», Juillet-Août 1979,
pp. 7-24
(2) J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, Autrement Frontières, Paris 2010, p. 35
(3) Ibidem
(4) J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, cit., p. 133
(5) Cit. in J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, cit. p. 132. Si tratta di una battuta pronunciata nel film Swordfish (Dominic Sena, 2001), uscito in sala un mese prima dell’11 settembre, dal capo di una cellula nera dell’FBI impegnata in una guerra segreta volta alla perpetrazione di attentati terroristici contro fittizi «nemici d’America» per legittimare la guerra e «proteggere il modo di vita americano».
(6) Sono le parole rivolte a Vittorio Storaro sul set di Apocalypse Now nel documentario Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse, realizzato nel 1991da F. Bahr e G Hickenlooper a partire dal materiale amatoriale girato da Eleonor Coppola sul set del film
(7) C. Zimmer, «Apocalypse Now» ou la fuite dans le symbole in «Manière de voir 88», Août-Septembre 2006, pp. 36-39, consultabile anche sul web al sito: http://www.monde-diplomatique.fr/mav/88/ZIMMER/13691
(8) Dal documentario Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse, cit.
(9) J.-M. Valantin, Hollywood, le Pentagone et le monde. Les trois acteurs de la stratégie mondiale, cit., p. 5
(10) Ivi, p. 9
(11) Dal documentario Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse, cit.
(12) Ibidem

Francis Ford Coppola, Cotton Club (1984)

Sceneggiatura: William Kennedy, Francis Coppola e Mario Puzo, ispirata al libro fotografico: The Cotton Club: a Pictorial and Social History of the Most Famous Symbol of the Jazz Era, di Jim Haskins
Fotografia (Technicolor): Stephen Goldblatt
Montaggio: Barry Malkin, Robert Q. Lovett
Suono: Edward Beyer
Scenografia: Richard Sylbert
Coreografia: Michael Smuin e Hanry Le Tang
Musica: John Barry, Bob Wilber (brani originali di Duke Ellington e Cab Calloway)
Produzione: Robert Evans per la Totally Indipendent Ltd.
Durata: 128’
Interpreti: Richard Gere (Dixie Dwyer), Nicholas Cage (Vincent ‘Mad Dog’ Dwyer), Gwen Verdon (mamma Dwyer), Gregory Hines (Sandman Williams), Maurice Hines (Clay Williams), James Remar ( Dutch Schultz), Julian Beck (Sol Weinstein), John Ryan (Joe Flynn), Diane Lane (Vera Cicero), Lonette McKee (Lila Rose Oliver), Bob Hoskins (Owney Madden), Fred Gwynne (Frenchy), Allen Garfield (Abbadabba Berman), Larry Fishburne (Bumpy Rhodes), Tom Waits (Irving Stark), Joe D’Alessandro (Lucky Luciano), Zane Mark (Duke Ellington), Larry Marshall (Cab Calloway), Gregory Rozakis (Charlie Chaplin), Vincent Jerosa (James Cagney).
Breve sinossi: Nel mitico locale di Harlem, il Cotton Club, in un arco di tempo che va dal 1928 al 1931, si avvicendano le vite di gangster, ballerini, cantanti, personaggi noti e meno noti che assistono agli spettacoli memorabili di Duke Ellington, Cab Calloway e altri artisti di fama mondiale. È l’era del proibizionismo e gruppi di gangster rivali si contendono il mercato illegale degli alcolici. Il famigerato gangster Dutch Schultz s’impone per efferatezza ma presto sconterà il suo debito con la morte, fatto fuori dai sicari di Lucky Luciano, alleatosi con Owney Madden, il proprietario del Cotton Club. La morte del gangster consentirà all’amante Vera Cicero di coronare l’amore per il trombettista Dixie Dwyer che nel frattempo farà carriera ad Hollywood interpretando ruoli di capimafia. Parallelamente si sviluppano le vicende della cantante mulatta Lila Rose Oliver e del ballerino di tip-tap nero Sandman Williams, entrambi determinati a sfondare nel mondo dello spettacolo anche a discapito degli affetti famigliari… Intorno a loro si muovono le vite di madri di famiglia, scugnizzi e scagnozzi sfortunati come il fratello di Dixie, Vincent “Mad Dog” Dwyer, destinato a finire trivellato di colpi come il suo capo, Dutch Schultz.
Sullo sfondo delle vicende narrate è la sottile segregazione tra bianchi e neri che vuole che sul palco del Cotton Club si esibiscano i neri mentre il pubblico sia costituito di soli bianchi.
In Cotton Club la componente meta-cinematografica informa tutta la pellicola e di questa Coppola si avvale per perpetrare un’operazione di sovvertimento delle logiche di produzione del sistema hollywoodiano. Cotton Club, a conti fatti, è un piano diabolico che ostenta buon viso a cattivo gioco. Con una metafora si potrebbe dire che è Coppola il vero ed abile gangster del film. Paradossalmente, sebbene si tratti di un gangster movie, sembra che egli ne voglia negare la legittimità erodendolo dall’interno. Basti pensare al film nel film, Mob Boss, il cui protagonista è interpretato da Dixie Dwyer, che del gangster non ha nulla se non, forse, la controfigura… Dixie è una mosca bianca non solo tra i musicisti neri coi quali si abbandona a informali jazz sessions ma anche per quella nota sentimental-malinconica, dal sapore di soap opera, che sortisce un effetto stridente in diverse occasioni: nel dialogo col fratello Vincent “Mad Dog” Dwyer alle prese con il rapimento di Frenchy, nell’intimità con Vera, e nel diverbio con Dutch nel locale della ragazza. Dixie si lancia in polpettoni moralisti che servono solo a sospendere temporaneamente l’azione producendo un effetto straniante, come se l’attore avesse sbagliato battuta e il suo interlocutore non sapesse come proseguire: «Cosa fai Dutch? Tu fai del male a tutti. Vuoi strapparle il cuore? E intrometterti sempre nella vita degli altri? Per l’amor di Dio, credi di essere Gengis Khan? Tu trasformi la vita delle persone in merda. Quanti ancora ne vuoi ammazzare?» (1). Ancora più disarmante è la confidenza che Dixie fa a Dutch, asserendo che tutto ciò che ha imparato sui gangster lo deve proprio a lui, spodestando così il più cattivo dei cattivi del titolo di capomafia. A tale operazione contribuisce anche la caratterizzazione del rapporto di Dutch con la moglie che lo tratta come uno zimbello, ridicolizzandolo attraverso le scenate di gelosia e dunque proiettandone la figura sullo sfondo della farsa. Che dire poi dell’improbabile coppia Owney/Frenchy? Paiono una rivisitazione di Stanlio e Ollio nelle due gag che li vedono protagonisti: quella in cui urinano serenamente nel bagno ammettendo l’impossibilità di vivere l’uno senza l’altro e quella veramente esilarante “dell’orologio” che segue il rilascio di Frenchy, rapito da “Mad Dog”.
Sgomberato il campo dai veri gangster, Coppola imbraccia il mitra e trivella di colpi una produzione da 50 milioni di dollari, aggirando sottilmente il “proibizionismo hollywoodiano”, vero bersaglio di questa operazione cinematografica: «Andare a proporre un film in America è come andare davanti ad una commissione dei Soviet. Guai se non rientri nelle categorie di ‘prodotto’ previste. Ormai in America o fai delle commedie demenziali o delle space operas, o delle soap operas. Dopo di che puoi usare lo stile e il linguaggio che vuoi, purché ci sia del naturalismo. Se provi ad uscire da questi schemi è la fine» (2). Ciò che importa è fare sold out al botteghino, ovvero ricevere i plausi del pubblico pagante come quelli che al vero inizio del film sono rivolti alle ballerine “alte, ambrate e fantastiche” che danzano sulla pista del Cotton Club, e ai titoli di testa, in cui i nomi degli attori e della produzione sono scritti obliquamente, in omaggio agli anni Trenta, e in un formato tridimensionale, tronfi di una gloria che deriva loro dall’essere assurti allo star system. Con una simmetria impeccabile, che non può non essere il frutto di un piano finemente premeditato, alla fine del film si ripete lo scroscio di applausi che suggella l’happy end e la straordinaria compenetrazione della dimensione reale (fittizia) con quella fantastica veicolata dal musical che in questa ultima parte diviene appunto debordante, eccessivo, contaminante. La realtà diviene un palcoscenico in cui le diverse trame e fili del film pervengono ad una risoluzione. E tra coloro che applaudono assume un ruolo chiave un uomo che ha probabilmente dormito per l’intera durata dello spettacolo e, una volta destatosi per il fragore delle mani battenti, preso nel vortice dell’euforia degli astanti, inizia ad applaudire pure lui… Senza cognizione di causa? Perché richiamato dal gregge? L’interrogativo è davvero cruciale per comprendere le ragioni che sottendono le intenzioni del regista.
Nonostante l’impeccabile struttura della trama, costruita sulle simmetrie dei plots delle coppie di bianchi e neri (Vera/Dixie, Angelina/Sandman, Mad Dog/Clay, Owney-Frenchy/Dutch) e la musica e le performance spettacolari che rendono gloria alla memoria del locale di Harlem, la maggior parte della critica ha riconosciuto che l’operazione coppoliana è stata fallimentare, non solo rispetto agli incassi ma anche per un «congelamento, questo rigor mortis di un progetto intellettualistico e cerebrale» per cui Cotton Club risulterebbe «raffreddato o meglio “freddato” […] da un’intelligenza da computer» (3). D’altra parte la cerebralità dell’operazione è apertamente dichiarata nella scena che segue il montage sequence dedicato alla carriera di Dixie nel cinema e alla grande depressione del 1929: Frances, la moglie di Dutch, sta completando un cruciverba inserendo la parola gangster, che non a caso s’incrocia con le parole rids e rages a descrivere il clima dei crime movies. Non solo, altri incroci di parole descrivono la costellazione dei significati entro cui si muovono le gang rivali impegnate nel traffico illecito di alcolici durante il proibizionismo (spar, paid, unite, beer, war) e l’ambiente ricco e raffinato della malavita (spas, oleos, chics).
4._Il_cruciverba_sul_gangster_film
Coppola ammicca giocosamente allo spettatore rivelandogli le regole dello spettacolo e importunandolo perché gli impedisce di abbandonarsi alla trama che ha confezionato appositamente per il piacere dell’entertainment. Lo mette puntualmente di fronte alla sua posizione di spettatore come nello straordinario «tip tap luttuoso» (4) in cui si esibisce Sandman Williams che, facendo le veci di un rullo di tamburi, scandisce i passi compiuti dai sicari di Lucky Luciano, il parvenue della nuova scena mafiosa, che segneranno la fine del vecchio boss, Dutch.
2._Lucky_Luciano
La performance di Sandman culmina nell’omicidio ‘trionfale’ di Dutch, suggellato dai soliti plausi dello spettatore in/out, fittizio/reale che, dietro il pretesto della finzione e della mendacità del simulacro, fonda la glorificazione e sacralizzazione della violenza, motivo ispiratore di Apocalypse Now (id., 1979). La spettacolarizzazione della violenza conduce alla sua inevitabile (e supposta) innocuità. Ciò viene ribadito in un’altra scena, certo più scanzonata, ma ugualmente potente. Si tratta del diverbio danzante tra Dixie e Vera al Bamville Club. I due si schiaffeggiano mentre ballano sulla pista, circondati da altre coppie, ma nessuno prende sul serio l’evento, anzi viene interpretato come un nuovo ballo, magari di ascendenza dadaista, che viene presto emulato! Così, per il semplice fatto di avvenire sullo stage, al cinema o a teatro, la realtà viene travisata, edulcorata, riaffermando il potere del simulacro.
Cotton Club è un film forse troppo bello, leccato, spasmodicamente filologico (basti pensare ai mascherini ad aride o a tendina che separano una scena dall’altra) ma anche “frankensteiniano”, non solo per la presenza fisica e vocale di Fred Gwynne, ma soprattutto per la maniacale, “fanatica” ricostruzione degli ambienti e dei personaggi che a cavallo degli anni Venti e Trenta popolavano il noto locale di Harlem e che suggeriscono a Coppola la sfilata dei sosia di Duke Ellington, di Cab Calloway, di Armstrong, di Charlie Chaplin, di Gloria Swanson e così via. Così il palcoscenico e il backstage del Cotton Club si trasformano in un sovraffollato museo delle cere che reca con sé un indelebile marchio mortifero, una delle cifre del cinema di Coppola che acquisirà sostanza concreta nel film Dracula di Bram Stocker (Bram Stocker’s Dracula, 1992).
Sebbene Coppola affidi, apparentemente, la buona riuscita del film ai godibilissimi spettacoli musicali e di danza e all’avvincente e ben orchestrato arrangiamento dei plots e subplots narrativi, tuttavia ne mina, dall’interno, il successo commerciale attraverso diversi accorgimenti: privando il personaggio del gangster di un’anima, nonché appiattendo tutti i comprimari attraverso un’estenuata estetizzazione o un gusto di tipo macchiettistico; chiamando in causa lo spettatore facendogli “scontare” il piacere della visione; disorientando la critica attraverso un’operazione di ibridazione condotta su due livelli, ovvero facendo convergere i due generi classici del cinema hollywoodiano, il musical e il gangster movie, e proponendo un rimescolamento del suo stesso cinema, tanto che Cotton Club parrebbe nascere dalla rilettura de Il padrino (The Godfather, 1972) attraverso Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982) (5).
di Rebecca Amanda Snyder
(1) Traduzione mia
(2) Da interviste a «L’unità» e «La Repubblica» del 23-12-1984, cit. in F. LA POLLA, Cotton Club, in «Cineforum», n. 241, Gennaio 1984, in Francis Ford Coppola: The Last Tycoon, Rimini/cinema, stampa 1986, p. 59
(3) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p. 97
(4) R. TROTTA, Francis Ford Coppola, Le mani, Recco 1996, pp. 44-46
(5) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, cit., p. 94

Francis Ford Coppola, The Rain People (1969)

Sceneggiatura: Francis Ford Coppola da un suo racconto inedito
Fotografia (Technicolor): Wilmer Butler
Montaggio: Blackie Malkin
Suono: Walter Murch e Nathan Boxer
Scenografia: Leon Erickson
Musica: Ronald Stein e Carmine Coppola
Produzione: Bart Patton e Ronald Colby per Warner Bros
Durata: 102’
Interpreti: Shirley Knight (Natalie Ravenna), James Caan (Kilgannon, detto Killer), Robert Duvall (Gordon), Marya Zimmet (Rosalie), Tom Aldredge (Alfred), Laurie Crewes (Ellen), Andrew Duncan (padre di Ellen), Margaret Fairchild (madre di Ellen)
Premi: Gran Premio del festival di San Sebastian, 1969, come miglior film e miglior regia
Breve sinossi: Natalie Ravenna è una giovane donna incinta alle prese con le ansie e le paure del divenire madre. Una mattina decide di lasciare la casa dove vive col marito e partire senza meta, alla ricerca della propria identità. Lungo il viaggio incontrerà Kilganon, detto Killer. Il ragazzo ha subito un grave incidente durante una partita di rugby che gli è costato un ritardo mentale e un’innocenza disarmante. Congedato dal college in cui studiava con una piccola somma di danaro, è solo al mondo. Ella se ne prende cura come fosse suo figlio: cercherà di affidarlo alla famiglia di un’amica del ragazzo e di trovargli un lavoro ma i suoi tentativi si dimostreranno vani. Quando infine deciderà di “adottarlo” e dunque di avverare il suo destino di madre, sarà troppo tardi perché Killer, nel tentativo di salvarla dalle grinfie dell’agente Gordon, l’uomo con cui Natalie si era volontariamente appartata, le morrà in grembo dopo essere stato freddato dai colpi di pistola sparati dalla figlia del poliziotto.
The Rain People è un “film di formazione”, imperniato sulla vicenda di una giovane donna che, frustrata dalla vita famigliare-domestica e dall’imminente maternità, decide, in una mattina piovosa, di lasciare la casa maritale e partire senza una meta, a bordo della sua station wagon, alla ricerca della propria identità o, più cinicamente, con l’intenzione di consumare il proprio addio al nubilato. L’arrovellamento interiore di Natalie Ravenna è espresso magistralmente dal colpo di genio del regista che nelle prime inquadrature è intento a mettere letteralmente a fuoco, e dunque a conferire nitidezza, alle paure di una donna che si sente inadeguata al ruolo di madre: la prigione dei legami e delle responsabilità famigliari si reificano nelle catene che sostengono i sedili di due altalene in un parco vicino casa. Nei due flash-back della sua vita comprendiamo ch’ella si dibatte tra l’amore istituzionalizzato nel matrimonio e l’amore appassionato, selvaggio, libero consumato nell’atto sessuale. In The Rain People il tema del matrimonio come legame di potere e giuramento verrà ripreso, evidentemente con ben altro spessore, nel film successivo, Il Padrino (The Godfather, 1972), capolavoro di Coppola. Ma questo film contiene in nuce anche altri elementi che lo raccordano a opere più mature come La conversazione (The Conversation, 1974). Il marito di Natalie, Vinny, non lo conosciamo attraverso le sembianze fisiche (eccetto per la scena iniziale quando lo scorgiamo abbracciato alla moglie nel letto e per una fotografia che ella conserva nel portafoglio) ma attraverso la voce e il dialogo che intrattiene con la moglie che lo contatta da tre sperdute cabine telefoniche degli Stati Uniti. Tre momenti che scandiscono i tre atti del film e che segnano la graduale trasformazione nel rapporto di coppia: Natalie imparerà ad assumersi le proprie responsabilità grazie all’incontro con Killer mentre il marito, per la gioia delle femministe, sarà costretto, dalla determinazione di lei, a deporre le armi di uomo autoritario e possessivo e rispettare il volere della moglie, anche se questo significa l’aborto del figlio che porta in grembo. Sta di fatto però che Natalie non è in grado di affrontare il marito vis à vis, la sua totale presenza fisica la disarmerebbe, perciò si relaziona con un surrogato, la voce di lui filtrata da un telefono a gettoni. Vinny è una voce, la voce è il fantasma di Vinny. La voce è un riflesso della persona e ne rivela dunque solo dei dati parziali. Questo è uno dei temi attorno al quale ruota La conversazione: nella spasmodica ricerca della verità su un delitto che si sta per compiere, l’investigatore privato Harry Caul (Gene Hackman) cerca di dipanare il filo aggrovigliato di una conversazione che ha intercettato su commissione. Ma la verità che emergerà dalla maniacale dedizione di Harry è parziale, anzi si rivelerà uno dei tasselli di un piano diabolico in cui anch’egli si ritroverà incastrato.
Natalie ribadisce la preferenza per l’abolizione della presenza del corpo-realtà nel momento in cui decide di unirsi all’agente Gordon. Preferisce stare al buio: «è meglio, così mi piace, è come se parlassimo al telefono». La voce ha dunque un forte potere evocativo, anche se il rischio è quello di deformare la realtà…
Il gusto per la smaterializzazione dei corpi e, specularmente, la materializzazione dei fantasmi è evidente, fin da questo primo saggio d’autore, nella scena in cui Natalie, attraverso una sorta di rituale di seduzione, invita Killer ad entrare nella camera del motel dove si sono fermati per la notte.
Il trucco pesante sul volto ne marca la personalità schizofrenica (per usare le parole di Coppola), esplicitamente, e un po’ accademicamente, dichiarata nello sdoppiamento del volto allo specchio.

2._La_per..
La sequenza che segue è un pezzo da fuoriclasse e anche un manifesto della poetica di Coppola: i fantasmi prendono vita e si apre uno squarcio nel territorio del fantastico… Natalie e Killer, grazie ad un ben congegnato sistema di specchi, si parlano senza che i loro sguardi si incrocino e anche quando i loro corpi si incontrano nella danza difficilmente siamo in grado di localizzarli: potrebbero essere qui e altrove.

1._Il_gioco_degli_specchi
La sequenza assume poi toni esilaranti quando Natalie, mettendo in pratica il proprio manuale di seduzione, propone a Killer il gioco infantile «Simon says…» attraverso il quale ella può dar sfogo alle proprie velleità di dominatrice e femme fatale ma il ragazzo lo prende alla lettera facendo crollare il mondo artificiale creato dalla donna e rendendola ridicola ai propri occhi, seppur involontariamente. E d’altra parte è proprio questa la funzione di Killer all’interno del percorso di formazione di Natalie: fornire alla donna uno specchio nel quale riflettersi e comprendere se stessa.
Il candore e l’innocenza di Killer (il cui nome stride decisamente col personaggio conferendogli così una grande tenerezza), le domande apparentemente puerili e banali che egli le pone sono imprescindibili per la crescita di Natalie («Quali problemi ha?», «Perché se ne è andata?», «Perché non sta con me?», «Mi vuole bene?»).
In questo senso Killer è il compagno ideale per Natalie in cerca della propria identità, un’accoppiata questa che si ritrova, come ha osservato Roger Ebert, in qualsiasi buon road-movie: «La giovane moglie di The Rain People e il personaggio interpretato da Peter Fonda in Easy Rider (id., Dennis Hopper, 1969) sono i discendenti del mitico Huckleberry Finn. Le regole del gioco vogliono che il viaggio sia intrapreso sempre da due compagni: l’uno complicato e problematico, l’altro innocente e più spensierato. Così Huck Finn prende con sé lo schiavo, Jim. Peter Fonda si accompagna ad un “fumato” (interpretato da Dennis Hopper). Shirley Knight raccoglie un autostoppista (James Caan) che era un giocatore di rugby al college prima che un colpo alla testa sul campo lo rimbecillisse» (1).
Alle piccole grandi tragedie personali di Natalie e Killer si aggiunge la vicenda dell’agente Gordon, segnato dalla perdita della moglie e di un figlio nell’incendio divampato nella loro casa, e ora alle prese con la figlia minore che non sa gestire. La patina dell’uniforme da poliziotto, che proietta il personaggio di Gordon all’interno di una costellazione di significati che descrivono il suo ruolo istituzionale (sicurezza, autorità, legalità e così via), viene letteralmente disintegrata dal regista tramite la scelta di farlo piroettare sulla motocicletta come un pavone nell’atto di corteggiare la bella Natalie. L’acme di questo processo di smascheramento coincide con la presentazione dell’alloggio di Gordon, una roulotte condivisa con la figlioletta, una piccola peste che, oltre ad offrire uno spunto comico nella scena dell’inseguimento tra padre e figlia, mette ancora più in risalto la condizione di impotenza e precarietà vissuta da Gordon. Risulta quasi scontato sottolineare le filiazioni di questo personaggio in Apocalypse Now (id., 1979).
La drammaticità delle sofferenze patite dai personaggi si stempera in questo film grazie agli spunti comici e alle trovate esilaranti. Da ciò deriva il carattere forte e delicato insieme che contraddistingue The Rain People: la levità con cui vengono declinate le tragedie personali dei personaggi contribuisce ad ammantare il film di un’atmosfera da favola malinconica. Anche i luoghi risentono di questo “umore”: se, come è stato giustamente notato, l’anonimità e la desolazione dei luoghi tradiscono ascendenze dal cinema di Antonioni, è anche vero che l’imprescindibile elemento pop di certo paesaggio americano li riscatta da un sentimento di solitudine senza sbocco. È il caso del drive-in, versione diurna, cui approdano Natalie e Killer per ritrovare una vecchia compagna di scuola del ragazzo. Si tratta di una sorta di cimitero in cui le postazioni per le automobili sono marcate da quelle che paiono “stele” funerarie. Eppure la desolazione del luogo è vivacizzata dalla musica rock di sottofondo, dalle luci a forma di stella del cabinotto dei tickets, e dalle scritte pop che proliferano sulla facciata del chiosco del drive-in che, in tutto il loro appeal, smorzano il carattere oppressivo del paesaggio e contribuiscono a scongiurarne il senso di solitudine e incomunicabilità.

3._Il_drive-in_diurno
Un ennesimo set letteralmente popolato di scritte, la cui funzione è quella di pubblicizzare un tipo di attrazione zoologica, è il parco delle meraviglie gestito da Alfredo, «WHOA! HERE IT IS, NEBRASKA’S REPTILE RANCH AND ZOO», il beffardo datore di lavoro di Killer. La location è un luogo pieno di ogni cosa immaginabile: animali, souvenirs, cinture, bambole, un cimitero per le macchine ecc…

4._Il_Reptile_Ranch_di_Alfred

Un genere di posto che non potrebbe mai essere ricostruito negli studios hollywoodiani ma è come un objet trouvé, un tesoro prezioso, espressione della più verace cultura popolare americana, scovato da Coppola e dalla sua troupe che, per cinque mesi, girò il film on the road, in esterni, trasferendosi su un camioncino attraverso mezza America, dallo stato di New York al Wyoming, sotto l’egida del progetto rivoluzionario dell’American Zoetrope, che portava con sé «l’ideologia antihollywoodiana – sia dal punto di vista del modo di produzione sia da quello della “poetica”» e attraverso il quale esplodeva «l’Europa e il mito del regista consacrato alla critica alta» e si ribadiva «la ‘ribellione’ allo star system» (2).

di Rebecca Amanda Snyder
(1) R. EBERT, The Rain People, in «Chicago Sun-Times», 19 settembre 1969, consultabile all’indirizzo: http://rogerebert.suntimes.com/apps/pbcs.dll/article?AID=/19690919/REVIEWS/909190301/1023
(2) V. ZAGARRIO, Francis Ford Coppola, Il castoro, Roma 1995, p. 29