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Locarno 2014, gli “incubi” di Dario Argento

Il mostro sacro del cinema horror nostrano, Dario Argento, è stato invitato alla Sessantasettesima edizione del festival del film di Locarno, in occasione della Retrospettiva Titanus. Una bella opportunità per ripercorrere la vita e la carriera del Maestro attraverso il suo primo film L’ uccello dalle piume di cristallo (1970) e una serie di brevissimi e allucinatissimi Incubi di Dario Argento, suite di nove cortometraggi di due tre minuti l’uno, realizzati per il programma Rai «Giallo» nel 1987.

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Uno di questi cortometraggi, la cui scena clou è l’autosbudellamento della protagonista, fu censurato dalla stessa Rai e miracolosamente sopravvissuto grazie ad un estimatore di Dario Argento che ne filmò una copia pirata prima che l’originale fosse fatto sparire.

L’intento di Dario Argento? Quello di «dare degli sberloni agli spettatori» inoculando nelle case degli italiani «dei piccoli film feroci, politicamente scorretti, al limite del razzismo»: sullo schermo assistiamo a stupri, massacri perpetrati da colf di colore o da non meglio precisati ‘stranieri’, epidemie di vermi sottocutanei e giochi infantili che si avvalgono di braccia e teste mozzate. Insomma un profluvio di schizzi di sangue e orrori indicibili, il tutto confezionato in maniera volontariamente amatoriale, low-fi, kitsch, scampoli di veri B-movies accompagnati da un sound track che attinge ai suoi film precedenti piuttosto che a Michael Jackson o ai Sex Pistols.

In sala, tra risate e mancati conati di vomito, i film sono stati accolti in maniera giubilatoria da un pubblico giovane che, secondo Argento, è in grado di apprezzare la sua «sincerità».

A ottobre verrà edito il libro autobiografico del regista in cui racconta la propria vita senza fatti inediti perché  ormai della mia vita si sa già tutto, non c’è piu nulla da scoprire visto che è già stato scritto molto». Ciò che, invece, rimarrà per sempre un mistero è la sua doppia identità, «quel Dario Argento che non conosco bene e che ogni tanto apre la sua parte oscura e ci guarda dentro».

A chi gli domanda quale sia la ricetta per incutere paura, il regista risponde che non lo sa, sarebbe troppo facile: «è una predisposizione dell’animo, io racconto le profondità della mia parte oscura e, fortunatamente, ho il privilegio di avere un buon dialogo con essa. Quelle che racconto sono storie terribili che non turbano la mia coscienza. La mia paura è sempre stata quella di avere un vaso di Pandora con dentro tutte queste mostruosità e che, un giorno si sarebbe rotto davanti ai miei occhi. Ma questo non è successo, il vaso è infrangibile».

Il regista rievoca la propria giovinezza e ci racconta di quando, bambino, si ammalò di una febbre reumatica che lo costrinse a letto per diverso tempo. In quella circostanza fece l’incontro con le opere di Poe e di Lovecraft: un mondo di figure bizzarre, strane, cominciò a popolare il suo immaginario per poi prendere vita, più tardi, nei suoi film, in Profondo Rosso (1975), poi in Suspiria (1977) e in Inferno (1980).

Argento non manca poi di omaggaire il padre della psicanalisi, Sigmund Freud, che lo ha aiutato a «dialogare» coi propri sogni e senza il quale «non ci sarebbe nulla; non ci sarebbe l’arte, il cinema, la musica; senza Freud vivremo ancora come dei selvaggi medievali».

Ed infine, a questa lunga schiera di padre putativi, s’aggiunge l’«architetto» Michelangelo Antonioni da cui ha ereditato «l’importanza della casa», di volta in volta «casa filosofale» e «casa alchemica».

Per quanto riguarda i progetti futuri, il regista resta vago, ci dice che deve «interrogare» la sua parte oscura ma apre qualche spiraglio quando ci rivela di riservare interesse per l’occultismo e «la ferocia in famiglia» perché «tutto nasce lì, quando si è fragili e bambini».

Ciò che, malauguratamente, è certo è che i suoi prossimi film, alcuni episodi per una serie televisiva, non verranno realizzati in Italia ma negli Stati Uniti, perché là « c’è più libertà di raccontare, più soldi, più apertura a tematiche e generi diversi mentre in Italia è sempre la commedia che comanda ».

Rithy Panh: La lotta contro l’oblio dà un senso alla mia vita

In occasione della Giornata mondiale del rifugiato dello scorso 20 giugno, la Cinémathèque Française ha omaggiato il regista cambogiano Rithy Panh con la proiezione del suo film L’image manquante, vincitore, nel 2013, della sezione “Un certain regard” del festival di Cannes. La proiezione è stata seguita da un incontro tra Rithy Panh e l’artista visivo Christian Boltanski che si sono interrogati sul ruolo delle immagini nella trasmissione della memoria collettiva e nella lotta contro l’oblio.

«Da diversi anni cerco un’immagine mancante: una fotografia scattata tra il 1975 e il 1979 dai Khmers Rossi quando governavano la Cambogia. Una sola immagine non prova un crimine di massa ma dà a pensare, fa meditare, e serve da fondamento alla storia». Queste sono le parole d’esordio pronunciate ne L’image manquante, l’opera cinematografica di Rithy Panh che racconta il genocidio della popolazione cambogiana perpetrato quarant’anni fa dal partito comunista di Kampuchea.

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All’inizio del suo lungo progetto Rithy Panh era alla ricerca dell’immagine di una esecuzione che potesse testimoniare del genocidio. Durante una decina d’anni ha condotto delle inchieste in Cambogia, interrogando la popolazione e gli stessi Khmer Rossi ottenendo poco più del silenzio in un paese non ancora pronto ad ammettere l’esistenza di tali massacri. Le uniche immagini sopravvissute, e in abbondanza, erano quelle di propaganda, che i Khmers Rossi avevano abbandonato nelle fogne o tra le rovine all’indomani dell’invasione vietnamita. Il materiale sarebbe poi stato recuperato e conservato, in condizioni precarie, nella sede della direzione del cinema di Phnom Penh e, infine, digitalizzato in Francia ad opera del regista.

Dopo un anno e mezzo di riprese, il regista si decise a visitare la sua casa d’infanzia, nella quale non aveva più messo piede dall’età di dodici anni, epoca in cui, assieme alla famiglia, fu deportato nei campi di lavoro forzato. L’interno della casa era stato trasformato in una sorta di bar karaoke. Talmente forte era la voglia di fantasticare dell’infanzia che il regista domandò ad uno scultore di ricreare un modellino della casa e di popolarlo di qualche statuina in argilla, materiale con cui era solito giocare da bambino. Alla vista della statuina che prendeva corpo nelle mani dello scultore, i ricordi d’infanzia sono risorti in tutta la loro purezza e vitalità. In quel momento è stato evidente che i protagonisti del film sarebbero state queste statuine venute dall’acqua e dalla terra, depositarie dell’anima dei testimoni e, come quest’ultimi, destinati a scomparire e a ritornare alla terra.

È attraverso la naïveté dello sguardo di un bambino che il film ha trovato la sua ragion d’essere e, allo stesso tempo, la sua carica drammatica: le statuine sono gioiose, colorate e individualizzate e costituiscono un potente contrappunto alle immagini di massa, ‘totalitarie’, della propaganda Khmer, che mostrano uomini e donne grigi, uguali e alienati. Attraverso questo gesto di ricostruzione dell’ “immagine mancante” e di riappropriazione delle immagini di archivio il regista ha voluto non solo far rivivere la memoria del popolo cambogiano, ma anche smascherare il messaggio di propaganda del partito comunista.

L’immagine mancante risiede, dunque, nella memoria individuale del regista, nei ricordi della sua infanzia che, grazie al mezzo cinematografico, si caricano di un afflato universale capace di nutrire la memoria collettiva, unico baluardo nella lotta contro l’oblio. A mano a mano che il lavoro di ricostruzione trovava il suo fondamento nell’animazione del popolo d’argilla, divenne chiaro al regista che la ricerca documentaria dell’immagine iniziale, quella d’archivio, perdeva di senso perché la “morte in diretta”, come l’ha definita André Bazin, è oscena, non mostrabile.

Per Christian Boltanski la necessità di servirsi di un filtro tra la realtà e ciò che si mostra nasce dalla necessità di preservare la dignità delle persone. Mostrare le immagini del genocidio o di una sola esecuzione significherebbe partecipare al crimine, esserne complici e indurre lo spettatore a partecipare della fascinazione per esso. L’artista francese, la cui opera offre una riflessione sullo statuto dell’immagine e dell’arte attraverso materiali semplici come indumenti e fotografie, ha spesso lavorato con immagini di archivio facendo rivivere il ricordo delle grandi tragedie del XX secolo, ma non ha mai mostrato immagini di cadaveri. Singolare eccezione è Scratch (2002), un libro le cui pagine sono interamente ricoperte di una pellicola d’argento che cela immagini di cadaveri spagnoli. Tuttavia, l’atto di raschiare la pellicola per portare alla luce le macabre vestigia dipende dalla volontà del fruitore dell’opera e non dall’artista che sceglie, volontariamente, di non mostrare tali immagini.

Come ne L’image manquante, anche Boltanski ha lavorato sui temi dell’infanzia, dell’identità e della morte nel tentativo reiterato di promuovere l’incontro tra la memoria individuale, quella che l’artista chiama “piccola memoria”, fatta di eventi ed immagini minori che spariscono con l’individuo, e la memoria collettiva, che fonda la storia del genere umano ed è conservata nei libri.

Tutto il suo lavoro è teso a scandagliare e a preservare dall’oblio la “piccola memoria” di ciascun individuo, mettendone in evidenza l’unicità e la fragilità.

Tuttavia, per Boltanski, ogni operazione di salvataggio dall’oblio è intrinsecamente votata al fallimento perché nell’atto stesso del ricordo è la sua negazione ed è proprio questo sentimento di lacerazione e mesta malinconia che trasuda nelle sue opere, dove ogni presenza si converte in assenza. È il caso, per esempio, dell’installazione Archivi del cuore di Christian Boltanski, allestita sull’isola giapponese d’Ejima. Il visitatore è invitato a lasciare la registrazione delle pulsazioni del suo cuore in una cabina apposita, poi la visita prosegue in un corridoio buio dove si odono le pulsazioni di altri cuori, provenienti dal mondo intero. Al centro del soffitto pende una lampadina che lampeggia al ritmo dei battiti cardiaci illuminando la silhouette dei visitatori riflessa negli specchi appesi alle pareti. Si esperisce così, ossessivamente, nell’alternanza tra luce e tenebre, la natura transeunte dell’uomo.

Totalmente all’opposto è l’atteggiamento vitalistico di Rithy Panh rispetto ai temi della morte e della scomparsa. Per il regista cambogiano il senso della propria vita è immanente a questo mondo: ciò che gli interessa affermare attraverso il cinema non è il progressivo e inesorabile dissolvimento delle cose nell’oscurità e nel silenzio ma la lotta contro l’oblio. Anche la relazione coi morti è differente: le statuine che rappresentano i defunti non sono fantasmi perché i fantasmi terrorizzano, ma anime benevole che ci accompagnano durante il corso della vita. Lo stesso regista si rappresenta tra i morti come statuina ed è lieto e a suo agio insieme a loro. Come non pensare allora al film Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti del regista tailandese Apichatpong Weerasethakul? Durante la cena in veranda compaiono, all’improvviso, la moglie e il figlio defunti dello zio Boonmee e con essi egli intrattiene una serena quanto malinconica conversazione. L’incontro con le anime dei morti non ha nulla di inquietante ma è reale e fa parte della vita quotidiana.

Serge Toubiana ha commentato gli esiti estetici diversi, seppur complementari, dei due invitati proponendo una spiegazione socio-antropologica dell’arte: il pessimismo malinconico di Boltanski si spiegherebbe con la pratica di un’arte solitaria mentre il carattere engagé del cinema di Rithy Panh deriverebbe dal fatto che un’opera cinematografica è, prima di tutto, il risultato di un processo collettivo. Si tratta sicuramente di un’interpretazione interessante ma ciò che non si può in alcun modo ignorare è la grande differenza del loro background culturale.

All’incrocio delle tradizioni cristiana ed ebraica, Christian Boltanski si compiace nel tratteggiare un nuovo “cristianesimo” di cui sarebbe il solo aderente. La sua opera sarebbe allora abitata, se non dalla nozione di un Dio personale, dalla persona umana che conserva, in ogni modo, la nozione di trascendenza, per la netta separazione tra la parte unica ed inafferrabile della persona, di natura quasi divina, e la parte effimera che le serve da supporto.

Nel film di Rithy Panh la nozione di immanenza prevale su quella di trascendenza, manifestando un profondo radicamento ad un pensiero di matrice buddista: il soffio vitale divino è presente nella materia del mondo e la scomparsa non è vissuta come perdita lacerante ma premessa di un futuro incontro.

La tragicommedia, ecco la vera vocazione di Bruno Dumont! Incontro con il regista

Bruno Dumont, l’autore de L’Humanité (1999) e Hors Satan (2011), non si smentisce e continua a stupire con la sua ultima opera, P’tit Quinquin, selezionata alla Quinzaine des réalisateurs dell’ultima edizione del Festival di Cannes.

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Coloro che sono abituati a godersi l’opera del cineasta ‘bressoniano’ in piccole sale d’essai, saranno spiazzati nell’apprendere che Dumont si è cimentato, questa volta, in una commedia poliziesca realizzata per Artè e concepita come una miniserie per la televisione francese, costituita di quattro episodi di cinquantadue minuti l’uno. Ma il cineasta francese fa presto tabula rasa dello snobismo intellettuale di bassa lega: «per me non c’è nessuna differenza tra cinema e televisione: in entrambi i casi c’è una videocamera, degli attori e qualcuno disposto a guardare. C’è del buono e cattivo cinema come della buona e cattiva televisione. Sono quindi lieto che si possa apportare del valore alla televisione».

Il film è stato girato in otto settimane nel villaggio di Audresselles, nella regione natale del regista, nel Nord-Pas-de-Calais. P’tit Quinquin, un ragazzino dal volto deformato e leporino, è a capo di una banda di teppistelli che trascorrono le vacanze estive a colpi di petardi e corse in bicicletta. Un delitto efferato mette fine alla calma apparente della cittadina: del sangue umano viene ritrovato all’interno di una mucca (“è la bestia umana, comandante! – Non siamo qui per filosofeggiare, Carpentier!”). Si avvia così una strampalata inchiesta poliziesca condotta da una coppia di improbabili commissari: il comandante pare uscito da un film di Tati, è totalmente strambo e pieno di tic mentre il suo assistente Carpentier è un essere linfatico e filosofo, con la passione per le due ruote. Al primo delitto ne seguiranno altri e, mentre le vicende dei due poliziotti si incrociano con quelle dei ragazzini, vengono messe allo scoperto aberrazioni e nefandezze della cittadina: crimini di sesso, inquietanti consanguineità, razzismo, rivalità intestine. Si prendono di mira, a colpi di gag, anche le istituzioni, la polizia, l’esercito e la religione: «è un film totalmente irrispettoso, penso che ci faccia bene, che ci liberi e ci faccia sopportare ciò che è difficile tollerare. E d’altronde, non c’è giudizio, nessuno mi ha contestato nulla, perché siamo al di là di una qualsivoglia critica politica o sociologica, siamo all’interno della natura umana».

L’idea di fare una commedia è nata dalla voglia di lavorare su un film di genere e dalla riflessione sulla sua opera precedente: «io amo il film di genere, quando ho avuto voglia di fare un film horror ho fatto Twentynine Palms, quando ho fatto Flandres pensavo al film di guerra. Poi mi son reso conto che, nei miei film, la commedia è sempre stata presente là dove c’era la tragedia. Così ho deciso di tornare sui miei passi, di fare la parodia di me stesso, e sono approdato al tragicomico perché è più pieno, mi consente di toccare in profondità le cose. Se ne L’humanité abbiamo tutti i colori dell’umanità, tuttavia si resta nella tragedia. In P’tit Quinquin, invece, c’è la comicità, che fa veramente parte della vita. Continuerò a lavorare nel senso della tragicommedia».

Alla frustrazione di coloro che vorrebbero sapere chi è il colpevole dei crimini, Dumont risponde con un invito a elevarsi dalla ‘realtà’ del film offrendoci la chiave filosofica e metacinematografica per la sua comprensione: «siamo al di là di questa questione, siamo passati oltre la colpevolezza e l’innocenza, la razionalità esplode, niente è serio nel film, non c’è un’interpretazione sociologica da decriptare. Tutto è talmente artificiale e teatrale che una ricerca della verità sarebbe ipocrita: è per questo che l’inchiesta non mena a nulla e i due commissari non fanno che girare in tondo. Ciò che mi interessa, però, è che tale ricerca avvenga in una forma assolutamente accessibile: il filosofo che ricerca la verità non mi interessa, bisogna trovare delle forme terra terra alla metafisica».

L’aspetto assolutamente irreale e fantastico del film è assicurato dalle stravaganti performances degli attori: «i personaggi che popolano P’tit Quinquin sono delle astrazioni. La dimensione dei personaggi è sproporzionata, inumana, perché è questo che ci consegna il cinema: dei personaggi di una grande alterità».

P’tit-Quinquin-Poster

È sorprendente come Dumont sia riuscito ad assemblare un cast tanto eccezionale affidandosi esclusivamente ad attori di associazioni amatoriali o a perfetti sconosciuti di cui intuisce il potenziale drammatico. Per citare due esempi: P’tit Quinquin è stato recrutato mettendo un annuncio su un giornale per il casting di bambini tra gli otto e i dieci anni, mentre il comandante e il suo assistente sono dei giardinieri. Il comandante è forse il personaggio più strabiliante: «È un interprete intrigante, mi ascolta docilmente ed interpreta le mie indicazioni in una maniera fuori dall’ordinario, facendo dei gesti smisurati. Insieme siamo andati in cerca del burlesque. La camminata a falcate, per esempio, è qualcosa che ha inventato dopo che gli avevo detto che una camminata normale mi innervosiva. È dissonante e misterioso, ed è questo che è straordinario».

La ricerca della stravaganza e della straordinarietà è un lavoro che Dumont ha fatto con tutti gli interpreti del film. Il suo metodo consiste nel creare un personaggio approssimativo e di costruirlo, poi, insieme agli interpreti, affinché appaia giusto, intonato alla persona.

Dopo l’esperienza cinematografica Camille Claudel 1915 (2013), Dumont ha deciso di continuare a lavorare con le persone handicappate e ha annesso nel cast il personaggio di Dany: «L’ho trovato in un centro specializzato. Gli ho spiegato il suo ruolo e lui mi ha detto che gli interessava partecipare. Abbiamo cercato insieme come interpretare il suo personaggio. Gli ho chiesto di fare qualcosa di un po’ strano e lui se ne è venuto fuori con le sue smorfie e la giravolta che vediamo spesso. Mi ha detto che gli piaceva farlo ed è così che Dany appare vero».

La serie televisiva uscirà in Francia il prossimo settembre, mentre l’intero film di ben duecento minuti potrà contare sulla distribuzione internazionale.

“L’attore ha la memoria di un pesce rosso!”, incontro con i fratelli Dardenne

All’indomani della presentazione a Cannes del loro ultimo film, Due giorni una notte, la Cinemathèque Française omaggia i due cineasti belgi con una retrospettiva della loro opera e un incontro seguito alla proiezione del film Le fils (2002).
Un’occasione per riscoprire le origini del loro cinema, marcato dall’esperienza teatrale e dal genio di Armand Gatti, e approfondire, con la profondità e lo humour che li contraddistingue, le tecniche di regia adottate dai due cineasti, dalla direzione ‘bressoniana’ degli attori all’utilizzo privilegiato del piano sequenza.

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Quali sono state le influenze nel vostro cinema? Siete passati per il genere documentario ma avete anche una formazione teatrale. Come siete approdati al cinema?

Jean-Pierre Dardenne: Siamo arrivati al cinema attraverso il teatro, grazie ad Armand Gatti. Abbiamo lavorato come assistenti, in realtà eravamo un pò dei tuttofare, avevamo diciotto e vent’anni. Gatti ci ha dato fiducia, è il nostro padre spirituale. Poi, naturalmente, ci si batte anche contro il proprio padre e noi, fortunatamente, eravamo in due!

Che cosa avete imparato da Gatti?

Luc Dardenne: Innanzitutto la precisione, il fatto che non esiste il pressapochismo. Con Gatti abbiamo fatto un film in Irlanda (Nous étions tous des noms des arbres (1982)). Abbiamo imparato osservando. I suoi attori non erano professionisti ma, per la maggior parte, irlandesi del luogo. Sul set ci è capitato uno che doveva interpretare un belligerante dell’IRA e doveva provocare un’esplosione con la dinamite. Ma questa persona, un vero sordomuto, si è rifiutato di girare la scena perché, sebbene irlandese e cattolico, era contrario a un tipo di intervento armato. Così Gatti si è trovato a dover riscrivere la scena: il film cambiava a seconda delle vite delle persone.

Lavorate spesso con gli stessi attori, con una coerenza quasi seriale, come in un’ ideale trasmissione dei ruoli. È il caso del “figlio” nell’omonimo film del 2002 (Le fils), che ritroviamo in veste di mafioso ne Le silence de Lorna (2008).

J.P.D: Spero che non ci sia troppa coerenza! Comunque avviene solo con gli uomini e non con le donne… Diciamo che questo tipo di scelta deriva dalla nostra formazione teatrale, e dal fatto che a teatro si lavora spesso con lo stesso gruppo di persone. E quindi cerchiamo di andare a ritrovare coloro con cui abbiamo già lavorato, anche se non si tratta che di una giornata di riprese.

Potete parlarci della direzione e della formazione degli attori?

L.D.: Con tutto il rispetto per la persona, noi consideriamo gli attori come della materia da modellare per diversi mesi. Lavoriamo con loro almeno quaranta giorni prima delle riprese. A seconda delle scene li guidiamo su come si devono sedere, cadere, correre, o azzuffare… così come i silenzi e i momenti in cui arriva la parola. Filmiamo tutto con la videocamera e, a fine giornata, guardiamo il materiale girato. In base a quello continuiamo il lavoro l’indomani. Eppoi li vestiamo tutte le mattine: il nostro principio è che quando un attore si trova bene in certi abiti, è bene cambiarli per rompere l’immagine di sé che si sono creati. Gli attori professionisti si identificano nelle immagini di se stessi come attori, mentre i non professionisti nell’immagine di sé come persone nella vita, soprattutto quando sono adolescenti. Per esempio, Emilie Dequenne, che interpreta Rosetta nell’omonimo film, non voleva camminare in strada con degli stivali in gomma. Ciascuno ha dei difetti o, meglio, qualcosa nel suo corpo che non vuole mostrare, questo vale soprattutto per gli attori non professionisti: bisogna fare tabula rasa di tutto ciò, solo così si è liberi. Ma questo vale anche per gli attori professionisti: è stato il caso di Cécile de France, che interpreta Samantha ne Le gamin au vélo (2011). Ad un certo punto lei non capiva più ciò che volevamo ed era vero, perché sia io che Jean-Pierre siamo in uno stato di perenne ricerca. Quando un attore non si pone più domande è un buon segno, vuol dire che è arrivata la libertà. Inoltre effettuiamo sempre le riprese nell’ordine della sceneggiatura proprio perché il personaggio è in divenire.

Immagino che l’utilizzo del piano sequenza nel vostro cinema richieda una coreografia molto precisa. Gli attori, colti nelle loro azioni e gesti, formano un balletto di energia.

J.P.D.: Ogni volta che cominciamo un nuovo film ci diciamo che non faremo più dei piani sequenza… ma alla fine non possiamo farne a meno, è più forte di noi. Forse è l’influenza del teatro. Ciò che ci interessa è registrare la presenza dell’attore ed è ottenibile facendo coincidere il tempo della ripresa col tempo della visione. Penso che il piano sequenza sia il nostro destino. Ad ogni modo so che bisogna cercare di evitare i pericoli insiti nel piano sequenza, ovvero l’ostentazione dell’abilità dell’attore, della prodezza, il virtuosismo.

Il piano sequenza registra il tempo ma anche lo spazio e la distanza tra i personaggi.

L.D.: Certamente… Le fils (2002) racconta proprio la distanza tra i due personaggi principali: il falegname Olivier e Francis, l’omicida del figlio d’Olivier. Abbiamo scritto la sceneggiatura attorno a questa distanza e, per le riprese, ci siamo serviti di una piccola cinepresa, maneggevole, leggera e dotata di bracci che ci ha consentito di distaccarci dai corpi e di dissociare l’occhio dalla visione.
J.P.D.: Nel film viene registrata anche un’altra distanza, quella tra i personaggi e le cose. Olivier non tocca le cose che, poco prima, sono state maneggiate da Francis. Ciò che ci ha sorpreso è che Olivier si dimostrava distaccato nei confronti del ragazzo anche al di fuori delle riprese. Non voleva che si avvicinasse, lo evitava. Abbiamo poi capito che si comportava così per aiutare se stesso e il ragazzo nel lavoro d’interpretazione. Solo alla fine, coerentemente alla riconciliazione prevista nella sceneggiatura, Olivier propende per un riavvicinamento.

Uno dei pregi del vostro cinema è quello di presentare dei personaggi complessi, non univoci, non riducibili ad alcuna formula sociale. Come costruite i vostri personaggi?

J.P.D.: Li consideriamo più come delle persone che come dei personaggi. È come se la cinepresa entrasse ed uscisse da una storia che è cominciata prima del suo arrivo. E poi lasciamo a ciascuno la sua chance. Non sappiamo nemmeno noi ciò che guida i personaggi. Abbiamo voluto conservare questa opacità, lasciare il mistero di ogni individuo. Non vogliamo delle silhouettes portatrici di un discorso.

A proposito del mistero e dell’opacità dei personaggi, ciò mi ha fatto pensare ad alcuni metodi del cinema americano, e in particolare al genere poliziesco, per il modo di entrare in una storia attraverso l’azione, la prova fisica dei personaggi. C’è, nei vostri film, un’ idea di serie B, nel senso che il tempo conta, bisogna iniziare prima di tutto con l’azione.

J.P.D.: Quando costruiamo una scena pensiamo, innanzitutto, a ciò che vogliamo nascondere. Ciò che organizza il piano è la posizione della cinepresa nello spazio e ciò che nascondiamo. Per creare la tensione tra Francis et Olivier, per esempio, abbiamo deciso di nascondere alla vista Francis per diverso tempo. Non ne vediamo che dei dettagli, un’ombra, in modo da far crescere la tensione e stimolare la curiosità nel pubblico.

Penso che il pubblico sia molto frustrato per questa fine brutale, per il fatto che il rapporto tra i due personaggi non si chiarifichi. Non si capisce ciò che Olivier cerca nel ragazzo, che è l’assassino di suo figlio.

J.P.D.: Il film appartiene più allo spettatore che al regista. Molti film di genere sono basati sulla vendetta… basti pensare ai western, ai polizieschi… Il nostro film non è basato sulla vendetta.
L.D.: Innanzitutto non si tratta di un assassino ma di un omicida. Premetto che non mi piace il perdono facile perché è inumano. Quando si incomincia a perdonare tutto non si sa più dove si è, non si sa più chi sono le vittime e i carnefici. Ma ciò che racconta il film è l’impossibilità dell’omicidio, della vendetta. Tale impossibilità rende Olivier un padre, perché è ciò che si insegna al proprio figlio: il divieto di uccidere. Il film racconta di come si può resistere alla vendetta.

Perché avete scelto questo attore dal volto angelico per interpretare un assassino? Non ne ha l’aspetto.
L.D.: Non esiste un “aspetto” di assassino!

Il personaggio dell’omicida, Francis, non conosce l’identità del suo insegnante, mentre l’attore che lo interpreta sì. Come si concilia questa consapevolezza durante il lavoro di interpretazione di un attore non professionista?

J.P.D.: Quando si sta girando un film, che siate attori professionisti o debuttanti, sì è nel presente e nel presente Francis è l’apprendista che deve indossare la salopette che il suo maestro gli ha consegnato, e non deve manifestare nient’altro che questo.
L.D.: Diamo delle indicazioni talmente precise all’attore, come “prendi quel bicchiere”, “conta fino a sei e siediti”, “alzati e poi girati” che lui è talmente assorbito dall’azione da eseguire che dimentica di essere un omicida. L’attore agisce senza memoria, ha la memoria di un pesce rosso!

Pyramide Distribution: “il marketing è una questione di feeling”

Eric Lagesse è il direttore generale del gruppo Pyramide, società di distribuzione francese, e di Pyramide International, struttura di vendita all’estero, che ha come obiettivo di mettere in relazione i produttori con i distributori internazionali con cui Pyramide ha stabilito una partnership: sullo scacchiere internazionale la società diretta da Lagesse conta una decina di partners in Svizzera, sei in Belgio, quattro in Svezia, e una ventina sia in Giappone che negli Stati Uniti. L’estensione delle vendite al mercato internazionale è stata una scelta dettata dal fatto che in Francia l’attività di marketing è molto più onerosa che all’estero.

Pyramide

 Per quanto riguarda, più specificamente, la distribuzione dei film in Francia, Pyramide ne assicura l’uscita in sala rivestendo la funzione di intermediario tra produttori, agenti intermediari ed esercenti. Una società di distribuzione controlla ogni singola tappa del processo di diffusione e presentazione di un’opera cinematografica, dai rapporti con la stampa alla locandina, dal trailer alla definizione del numero di copie del film fino all’individuazione del pubblico a cui l’opera è destinata. Decide ugualmente la data di uscita del film perché anche la scelta della stagione è importante per ottimizzare l’insieme delle operazioni di marketing.

Il distributore riveste un ruolo chiave per assicurare non solo il successo del film ma anche la sua realizzazione. Infatti, in Francia il produttore di un’opera cinematografica ha interesse a coinvolgere un distributore quando il progetto è ancora giovane, essenzialmente per due motivi: innanzitutto per ricevere un primo finanziamento dal distributore e poi per trovare altri partners finanziari, come CanalPlus, la televisione terrestre e le Sofica (Società di Finanziamento dell’Industria cinematografica e dell’Audiovisivo) che richiedono imperativamente il coinvolgimento di un distributore nel progetto. A volte è indispensabile la presenza di un distributore per chiedere fondi di sostegno a livello europeo (Eurimages).

Considerato il peso preponderante che riveste il distributore nella produzione del film e il rischio economico e finanziario che ne consegue, Eric Lagesse richiede di poter verificare con mano il valore dei progetti che gli vengono proposti dedicando, assieme al suo socio, una parte del tempo alla lettura diretta degli script: vengono vagliati ben trecento progetti all’anno di cui solo una dozzina vedranno la luce! Una terza persona seleziona i progetti che vengono dall’estero sottoponendo all’attenzione di Lagesse solo i più validi. La maggior parte dei progetti esaminati sono proposti da produttori con cui Pyramide ha già lavorato e che hanno dimostrato in passato serietà e concretezza. Tuttavia Pyramide accetta proposte anche da produttori e registi non conosciuti purché possano dimostrare di aver fatto un percorso di formazione adeguato. In ogni caso i requisiti essenziali sono la serietà del produttore e la qualità dello script, sui cui criteri Lagesse non si attarda troppo adducendo, laconico, che uno script convince quando si ha l’impressione che si tratti di un «vero film di cinema» e che, in fin dei conti, si tratta di una «questione di feeling». Tuttavia, questa formula non si rivela sempre vincente e così gli è capitato di rifiutare progetti di cui ha sottostimato la qualità, come il film Louise Wimmer (2013) di Cyril Mennegun, prodotto dalla Zadig Films e ricompensato da un César per il miglior primo lungometraggio. All’epoca non aveva voluto distribuirlo perché, nonostante lo script promettesse «molto cinema», la storia era troppo triste. Tuttavia Lagesse non si è fatto sfuggire l’ennesima occasione per lavorare con la Zadig Films e ha deciso di impegnarsi nella distribuzione del film Hope di Boris Lojkine, in competizione a Cannes.

L’impegno finanziario di Pyramide per la distribuzione di un lungometraggio varia, in media, tra i 150 e i 350mila euro ma può raggiungere anche i 600 o 700mila euro. Questa somma, senza considerare i fondi pubblici CNC (Centre National du Cinéma et de l’image animée) di sostegno alla distribuzione che devono comunque essere reinvestiti in opere cinematografiche successive, viene prelevata direttamente dalle casse della società senza nessuna garanzia di recupero di tale somma al box office. Il distributore deve dunque contare essenzialmente sulle sue forze e sui propri fondi che vengono alimentati, oltre che dalle entrate al box office, dalla vendita dei diritti sui film alle televisioni e da un catalogo di film venduti alla televisione via cavo.
Lagesse sottolinea come il margine di rischio per un distributore che decide di investire in un film sia molto superiore rispetto a quello di un produttore, il cui obiettivo è quello di raccogliere quanto più denaro possibile per assicurare la produzione del film e minimizzare eventuali perdite. In Francia, un produttore può costituire il proprio piano di finanziamento in diversi modi: c’è chi agisce in maniera selvaggia e decide di lanciarsi nella produzione anche se non dispone di tutto il budget, chi decide di restringerlo al minimo, chi ‘partecipa’ il proprio salario nella produzione, e coloro che accolgono diversi partner finanziari per pagarsi il film. In ogni caso, il produttore ha, da una parte, un preventivo di budget e, dall’altra, il denaro che è riuscito a recuperare. Se il preventivo di budget è stato calcolato correttamente, il rischio di un fallimento finanziario è ridotto al minimo: o il progetto non è attuabile o lo si realizza con gli introiti ottenuti. Se poi il film si rivela un successo, tanto meglio per il produttore, che intascherà un bonus sugli incassi.

Per un distributore, invece, prevedere il recupero del denaro investito attraverso i guadagni in sala, è assolutamente aleatorio. Non si può prevedere facilmente il successo che riscuoterà il film in sala. E nonostante ciò, la quota di guadagno spettante al distributore, al netto delle spese sostenute per la distribuzione (compreso un eventuale acconto versato al produttore all’inizio del progetto), corrisponde ad una commissione del 25%, mentre il restante 75% è percepito dal produttore.
Il rischio assunto dal distributore in termini economici e finanziari è talmente importante che quest’ultimo si arroga il diritto di intervenire nelle scelte artistiche del film al fine di garantirne il successo commerciale. Questo intervento non si limita alla realizzazione del trailer e della locandina. Lagesse, pur non avendo delle competenze artistiche, assiste e partecipa a tutte le fasi di produzione del film privilegiando la fase di riscrittura dello script e quella di montaggio e prendendo parte così, attivamente, a quella grande opera collettiva e polifonica che è il cantiere di un film.

Il personaggio e la “situazione”. Incontro con l’attore Philippe Duclos

Philippe Duclos è conosciuto come uno degli interpreti di Engrenages (Spiral in Italia), serie di Canal+ nella quale incarna il giudice Roban.
Al cinema ha recitato nei film di Arnaud Desplechin (La Sentinelle, Comment je me suis disputé), Nicole Garcia (Le Fils préféré), Bertrand Tavernier (L’Appat, Laisser-Passer), Jacques Audiard (Un héros très discret), Bruno Podalydès (Dieu seul me voit), Christophe Honoré (Ma Mère), Claude Chabrol (La Demoiselle d’honneur, L’Ivresse du Pouvoir), Pascal Bonitzer (Cherchez Hortense), Costa-Gavras (Capital), Matthieu Delaporte (Un illustre inconnu), Patrice Chéreau (La Reine Margot).A teatro ha interpretato alcuni ruoli sotto la direzione di diversi autori e registi teatrali, da Laurent Fréchuret (Caldéron, Le Roi Lear) à Daniel Mesguich (Le Diable et le Bon Dieu, Tête d’Or, Hamlet, Andromaque, Le Prince travesti) passando per Marc Paquien (La Mère, Le Baladin du Monde Occidental).Ha insegnato anche al CNSAD (Conservatoire National Superior d’Art Dramatique).
 Philippe-Duclos
Sei un attore polivalente, hai lavorato per cinema teatro e televisione.
Sì, ho fatto del teatro per una quindicina di anni e poi sono approdato al cinema abbastanza tardi, con un ruolo minore nel film La sentinelle di Desplechin. Ho interpretato diversi ruoli minori per altrettanti registi e poi ho cominciato a lavorare in Engrenages (Spiral in Italia), una serie su CanalPlus che va in onda da dieci anni ormai.
Potremmo dire che ho una doppia vita!
L’incontro con Desplechin e la partecipazione al suo film, La sentinelle, è avvenuto per caso?
Sì, proprio così. Conoscevo un regista di teatro con cui lavoravo e che stava facendo il casting per il film di Desplechin. È stato lui che mi ha presentato a Desplechin.
C’è una differenza, per te, tra un testo di teatro e uno script, dal punto di vista del lavoro dell’attore?
Sì, il testo teatrale è una materia sulla quale l’attore può appoggiarsi saldamente e di cui si nutre; mentre al cinema non si tratta di un testo ma di un dialogo che può, eventualmente cambiare, e di cui non ci si nutre ma l’attenzione è portata agli elementi della stilizzazione che, evidentemente, si trovano anche a teatro…
Quando preparo un testo per il cinema c’è un grande lavoro a monte, ho interesse a conoscere la mia parte mentre invece per il teatro, inizialmente, non ho nessuna idea di quella che sarà la mia interpretazione, a volte non conosco nemmeno interamente il mio testo, si tratta di un grande lavoro collettivo. Preparare un testo per il cinema, invece, è un lavoro solitario, che peraltro amo moltissimo, al di là del rapporto e degli scambi che si possono avere con lo sceneggiatore o il regista.
Quando ricevi una sceneggiatura, inizi a lavorarci direttamente o ci sono degli incontri preliminari finalizzati a dare delle indicazioni?
No, diciamo che quando ricevo un testo sono un lettore come gli altri, leggo la storia senza avere un punto di vista tecnico sulla sceneggiatura.
Se devi decidere di interpretare un ruolo che ti è stato proposto quali sono i requisiti che il testo deve avere per farti accettare?
Quello che è importante non è tanto il ruolo ma la materia da interpretare perché ciò che importante non è solo l’aspetto lucrativo ma la soddisfazione, ciò che si pensa di poter effettivamente apportare col proprio lavoro.
Poi c’è un altro elemento che è la personalità del regista.
Di cosa è fatta la materia dell’interpretazione?
Ciò che mi fa interpretare un ruolo è la situazione. Insomma, per me il personaggio è determinato dalla situazione. La situazione è un insieme di realtà fittizie che esercitano una pressione su qualcuno e l’obbligano a reagire, e sono queste situazioni che fanno emergere il personaggio. Un giorno Hitchcock ha domandato a Truffaut: «Perché i film di Renoir sono così mal fatti?» E Truffaut ha risposto: «Vedi, Hitchcock, voi lavorate in maniera differente: Renoir parte dai personaggi e dagli attori, sono questi che lo ispirano, mentre lei, Hitchcock, parte dalla situazione!»
Io non parto mai dai personaggi. Per esempio, per quel che concerne il ruolo che ricopro nella serie Spiral, il giudice di istruzione, la domanda che mi pongo non è quale sia la funzione di un giudice ma quali sono i suoi problemi, e quindi i casi giudiziari specifici che deve risolvere. Cerco di comprendere i dati della situazione, e da lì nascono delle azioni che costruiscono i personaggi. Spesso i dialoghi, le scene di esposizione si oppongono alla situazione, all’azione.
Io credo che sia importante verificare che i personaggi che si creano siano adatti alle situazioni nelle quali li si cala. E così si rinforzano mutualmente sia i personaggi che la storia. Non penso che ci sia una scuola da preferire ad un’altra ma che entrambi gli approcci siano importanti.
Ma tu stai parlando di una sceneggiatura che è in divenire, che si sta fabbricando. Io non sono sceneggiatore! Però penso di aver capito. Diciamo che, all’inizio, prendo l’esempio della serie, l’attore eredita la sceneggiatura ma, quando comincia a farla propria, apporta un colore al personaggio e questo elemento influisce sulla sceneggiatura e la modifica.
Ho un altro esempio concreto: per avere delle indicazioni sul ruolo del giudice Roban in Engranages (Spiral) mi sono rivolto ad un vero giudice di istruzione per sapere quale fosse il comportamento tipo di un giudice e lui ha risposto che dipende dagli individui… per me è stato molto liberatorio! Questo per dire che l’idea di un personaggio che si crea al di fuori di me e nel quale mi devo identificare non esiste. La costruzione del personaggio si fa poco a poco.
Infatti, quando si scrive una sceneggiatura, molti elementi che riguardano il personaggio rimangono invisibili, anche se hanno contribuito al risultato finale. Tu, in quanto attore, fai lo stesso tipo di lavoro, cioè indaghi, lavori sul personaggio, ne redigi un diario? Fai un lavoro di scrittura?
Sì sì, io scrivo moltissimo! Attraverso la scrittura cerco di comprendere il personaggio, anzi riscrivo un vero e proprio film sul personaggio ma impegnato in situazioni specifiche. In altre parole, creo un sottotesto che costituisce la vita del personaggio e che è il film immaginario che guida la mia interpretazione.
Giorno dopo giorno fabbrico il personaggio, e quindi tutto questo lavoro di scrittura mi rende molto vicino al lavoro dello sceneggiatore. Inoltre, su una serie molto lunga come quella su cui lavoro, ho bisogno di avere una consapevolezza molto chiara della progressione della storia e quindi anche per questo ho bisogno di scrivere molto. Ma ciò di cui parlo è vero per me, non si può estendere a tutti!
Al di là di tutto questo lavoro che tu fai, c’è qualcuno che ti dirige però!
Certo! Questo è il materiale di partenza su cui lavoro ma poi chiaramente c’è il regista, e gli altri partner. Naturalmente la direzione degli attori è fondamentale anche se dipende dal regista. All’inizio della mia carriera cinematografica sono stato fortunato e il lavoro è stato facile perché avevo Desplechin, che è talmente immaginativo e vicino all’attore! Invece, per quanto riguarda la serie Spiral, è stato più difficile perché il regista con cui lavoravo non era il creatore della serie e non aveva scelto gli attori. In questo secondo caso direi che il lavoro del regista si apparenta a quello di un grande tecnico!
Per la serie Spiral c’era qualcuno che si occupava della direzione artistica?
C’era un responsabile artistico, che era presente fin dall’elaborazione del soggetto fino alle riprese e quindi era lì durante tutte le tappe, ed era il guardiano dei personaggi e con lui dialogavo e gli ponevo delle domande precise sulle scene. Per esempio ponevo delle domande sulla situazione. Faccio un esempio. Mi è capitata una scena in cui una ragazza arriva per denunciare uno stupro. Bisogna sapere che la metà delle denunce per stupro sono false. E quindi il giudice di istruzione ha questo in testa ed è la ragione per la quale non ha dell’empatia con la presunta vittima ma ciò che gli interessa è la ricerca della verità. Questi sono elementi che non conoscevo. Eppoi alle volte alcune scene e dialoghi sono talmente ellittici che sono costretto a chiedere chiarimenti sul sottotesto. I dialoghi non sono sempre informativi, e non devono necessariamente esserlo, anche se purtroppo si tratta della maggioranza dei casi.
È un difetto francese.
È patetico. I dialoghi, alle volte, sono talmente poveri. Un giorno un cineasta mi ha rivelato che non riusciva a scrivere i dialoghi perché la situazione non era chiara. Quando un attore riceve un dialogo e questo è ‘giusto’, viene condotto, in maniera naturale, verso la buona interpretazione. Penso che alle volte i dialoghisti non facciano nemmeno lo sforzo di pronunciare a voce alta quello che scrivono. Spesso i dialoghi sono espositivi, informano lo spettatore su ciò che il personaggio sta vivendo. Per un attore essere obbligato a dire “sono in collera”, è una catastrofe.
I momenti di chiarimento con gli sceneggiatori si svolgono in maniera soddisfacente?
Dipende dagli sceneggiatori. Senza voler generalizzare, devo dire che il lavoro dell’attore è molto più vicino a quello dello sceneggiatore rispetto a quello del regista. Per entrambi la scrittura passa attraverso il loro corpo, la loro immaginazione. L’attore vive nella scrittura.
In che cosa consiste il contenuto delle pagine che scrivete sul personaggio? In questa sorta di diario scrivete anche della sua infanzia? O è circostanziato alle situazioni proposte nel film?
Dipende dai ruoli. In linea di massima immagino il personaggio a partire dalle situazioni che vive.
Prima delle riprese vere e proprie ci sono delle sedute preparatorie di lettura con gli autori, con lo sceneggiatore?
Per esempio, per la serie Spiral, abbiamo cominciato a fare questo genere di lavoro solo a partire dall’ultima stagione ed è stata una rivelazione. Gli sceneggiatori erano molto contenti di questo perché per loro è l’occasione di sentir parlare i loro testi. Quando gli attori si appropriano del testo apportano un colore, lo fanno vivere ed è commovente.

“Lo sceneggiatore è un artigiano”, incontro con Noé Debré

Noé Debré, a soli 27 anni, può già vantare una carriera di tutto rispetto. Apprendista, dal 2007, di Thomas Bidegain, sceneggiatore dei film di Jacques Audiard Un Prophète (2009) et De rouille et d’os (2012), ha imparato al suo fianco il mestiere di sceneggiatore.

Nel 2011 inizia un progetto di lungometraggio: La Crème de la crème, realizzato da Kim Chapiron, Sheitan (2005), Dog Pound (2010), e uscito nelle sale francesi il 2 aprile. Il film ha suscitato scalpore e diversi malumori per l’approccio disincantato rispetto alla tematica del mercato sessuale.

Debré ha inoltre collaborato alla scrittura del primo lungometraggio di Anthony Marciano, Les Gamins, con Alain Chabat e Max Boublil, uscito in sala in Francia nella primavera del 2013 e che ha riscosso un grande successo al botteghino, superando il milione e mezzo di entrate.

Collabora tuttora con Thomas Bidegain e Jacques Audiard a diversi progetti di lungometraggio, tra i quali un film noir, e al primo film di Fred Grivois, girato lo scorso dicembre.

Iniziamo dall’inizio. L’idea di diventare sceneggiatore ti è venuta progressivamente o era un progetto di lunga data?
Non so esattamente perché ma volevo essere sceneggiatore fin dagli anni del liceo e mi ricordo che, alla fine delle scuole medie, mi son detto che volevo lavorare nel cinema. Credo di avere una certa affinità con un cinema in cui la scrittura è importante. All’epoca, mi ricordo che i film che mi erano piaciuti di più erano quelli dei fratelli Coen, di Carné-Prévert… dei film dove c’è un vero lavoro di scrittura; d’altronde si trattava di registi che erano nati come sceneggiatori.
Volevi essere sceneggiatore per poi divenire regista?
No, non penso troppo alla regia. Anche se è vero che quando sono arrivato a Parigi a diciott’anni, mi sentivo dire da ogni parte che fare gli sceneggiatori non è un vero mestiere, che si trattava di un’attività del week end e che il vero mestiere era quello di regista. Adesso, dopo nove anni, le cose sono radicalmente cambiate.
Ci sono stati dei progetti che hai proposto tu in quanto sceneggiatore?
È il caso de La crème de la crème, uscito nelle sale francesi il 2 aprile. Ho avuto io l’idea e ne ho sviluppato il trattamento con dei produttori. Con un trattamento di quaranta pagine siamo andati a proporre il film a Kim Chapiron. È stato il produttore, peraltro giovane, Benjamin Elalouf, che ha avuto l’idea che fosse un film adatto ad essere realizzato da Kim perché è un film di giovani che si ambienta in una prestigiosa scuola di commercio. Elalouf ha passato il trattamento all’agente di Kim, che lo ha letto, gli è piaciuto e ha deciso di realizzarlo.
Quali sono state le tappe del tuo percorso di studi per diventare sceneggiatore?
Ho frequentato la scuola di cinema ESEC (École Supériore d’ Études Cinématographiques), che è durata due anni e mi sono specializzato in “produzione”. Mi sono però subito messo a studiare manuali di sceneggiatura, come quello di Robert McKee.
Durante il primo anno è stato difficile, c’era il corso di riprese e io lo detestavo, ero inadatto, mentre quello di produzione mi interessava perché mi son detto che avrebbe avuto un ruolo strategico per la mia carriera: mi avrebbe permesso di capire come funziona l’ambiente del cinema, visto che non conoscevo assolutamente nessuno all’epoca. E poi ho scritto una sceneggiatura applicando le regole di McKee. Ho inviato questo lavoro all’associazione “Equinoxe” per partecipare ad un concorso per la selezione di progetti di lungometraggi. Nel frattempo sono partito per il Québec, in Canada, dove ho fatto un master e ho ottenuto un certificato per la scrittura scenaristica. Tornato in Francia, ho saputo che la sceneggiatura era stata selezionata da “Equinoxe” e che avrei avuto l’opportunità di accedere ad una residenza di scrittura scenaristica animata da professionisti che aiutavano nella riscrittura dei progetti selezionati. È stata un’occasione straordinaria. C’erano parecchi americani, dei grandi nomi, come David Web Peoples, lo sceneggiatore di Blade Runner (1982) e L’esercito delle 12 scimmie (Twelve Monkeys, 1995). Durante un’intera settimana ci hanno fatto progredire nello sviluppo del nostro progetto.
Certo, è stata una esperienza un po’ destabilizzante perché ciascuno di loro aveva il suo metodo, c’erano gli americani con la loro tecnicità hollywoodiana e altri approcci totalmente differenti.
Su cosa verteva la tua sceneggiatura?
Si trattava di qualcosa che assomigliava molto a La crème de la crème, la storia di una truffa, ma in borsa. Era qualcosa con un budget stratosferico, con centinaia di figuranti. All’epoca avevo immaginato la sala della borsa che traboccava di urla, senza sapere che era qualcosa che non esisteva più, visto che oggi tutte le transazioni si svolgono davanti ad un computer. Ma io trovavo quella scena bella, volevo tenerla. I francesi pensavano che fosse un errore insopportabile mentre gli americani se ne infischiavano dicendo che ogni anno escono in sala quattrocento film di spionaggio che non hanno niente a che vedere con quell’attività.
Dopo “Equinoxe” sono tornato a Parigi e ho provato a lavorare su delle serie di animazione. Dopo sei mesi mi sono ritrovato al salone del cinema, anche quello non esiste più… E là c’era una conferenza dove erano stati invitati degli sceneggiatori tra i quali Guillaume Laurant, sceneggiatore de Il favoloso mondo di Amelie (Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain, 2001) ed è stato là che ho incontrato Thomas Bidegain che, all’epoca, lavorava sulla sceneggiatura di Un profeta (Un prophète, 2009).
In quel momento mi dicevo che lo sceneggiatore non è un artista, penso che sia un concetto fraudolento, romantico… Lo sceneggiatore è, prima di tutto, un artigiano.
Attenzione, quella è la porta dell’uscita di emergenza, qualcuno qua dentro potrebbe cominciare a scaldarsi!
Mi son detto, allora, che avevo bisogno di qualcuno che mi formasse. Bidegain teneva la conferenza. Al termine gli ho parlato e lui, che è una persona amabile, mi ha dato la sua mail. Gli ho spedito una mail dicendo che cercavo qualcuno che mi formasse e gli ho mandato la mia sceneggiatura, quella su cui avevo lavorato ad “Equinoxe”. Come tutta risposta mi ha invitato a seguirlo nella scrittura di Un profeta, progetto di una vita. Mi ha messo alla prova su una grande sceneggiatura, ci ho lavorato per sei mesi, dopodiché mi ha presentato a diverse persone.
C’è una continuità, secondo te, tra il ruolo che Audiard ha giocato per lui e quello che lui sta rivestendo per te?
Lo spero! Audiard ha elaborato una concettualizzazione della scrittura cinematografica, nel senso che ha delle teorie, un suo approccio personale e penso che la collaborazione con Thomas Bidegain abbia funzionato bene perché Thomas ha fatto proprie le teorie di Audiard. E io stesso ho tentato di apprendere tale approccio da Bidegain. Alla fine si parla la stessa lingua.
Puoi dirci qualcosa di più su questa lingua comune, così prendiamo appunti?
In sostanza, l’idea è che la sceneggiatura e il film siano la stessa cosa. La sceneggiatura non è raccontare una storia, ma è progettare un film per il cinema, porre tutte le questioni della forma nella scrittura. È da diverso tempo che lavoro alla scrittura di una sceneggiatura con lui e Thomas e la prima vera domanda che ci siamo posti era relativa alla questione del genere cinematografico e a come questo possa essere modernizzato. Ci siamo interrogati, in particolare, sul film d’azione. In un film d’azione, oggi, l’eroe che viene preso a botte non ha più male. Perché ormai al cinema abbiamo visto talmente tanta di quella gente che se le dà che non c’è più transitività tra eroe e pubblico. Allora si comincia a teorizzare ed è in questo momento che si trova la storia.
Pensi che questo procedimento si possa applicare a qualcun altro che non sia Audiard?
Per esempio al film che ho scritto, La crème de la crème. È un teen movie sebbene questo genere non è usuale in Francia. Il che è una novità. Poi ecco, la cosa strana è che, andando bene a vedere, è un pitch tipico di un film di mafia. La crème de la crème è la storia di uno studente della HEC (École des Hautes Études Commerciales de Paris) che crea una rete di escort. Detto questo, abbiamo già in testa il rise and fall, come in Scarface (1983): i tre ragazzi metteranno su questa rete illecita di prostituzione che funzionerà talmente bene che il gruppo o esploderà o verrà assorbito da un elemento esterno. Ci sarà una fuga in avanti e poi un crollo. Infine, da questa esperienza, avranno appreso qualcosa.
Questo è un percorso relativamente classico…
Esattamente. Allora mi sono chiesto come uscire da questo schema. Dopo diverso tempo impiegato a riflettere, mi son detto che in effetti non si trattava di un film di mafia, ma di un film di genere romantico. Quello che mi son chiesto è quale fosse la visione di queste tre persone sull’amore e la sessualità. Di conseguenza la rete di prostituzione sarebbe diventata l’ostacolo alla loro storia d’amore.
Per ricapitolare, uno dei tre protagonisti ha un’idea, ovvero che c’è un mercato sessuale, ma loro si trovano in una posizione di debolezza rispetto a questo mercato: nessuno va a letto con loro e quindi inviano al mercato dei segnali negativi. È la logica del mercato: se tutti credono che un valore abbia un valore, lo si compra e questo valore acquista importanza. L’idea è che se tutte le ragazze incominciano a dirsi che uno è desiderabile, convinceranno tutte le altre di questo. È il personaggio del nerd che ha questa idea. Così i tre ragazzi scommettono su questa idea e la mettono in pratica, scoprendo che funziona incredibilmente bene. A questo punto qualcuno dall’esterno, testimone di tanto successo, interviene e propone di investire su questa idea creando una rete di escort. Questa è la loro visione, una maniera perversa di vedere la relazione tra le persone. Tuttavia, non sarà la morale che li frenerà ma la nascita del sentimento amoroso tra loro. E dunque la macchina che hanno creato diviene il vero ostacolo al loro amore.
Alla fine lo schema che proponi è piuttosto classico: c’è un intrigo principale, cioè la creazione della rete di prostituzione, e l’intrigo secondario amoroso. Voglio dire che uno sceneggiatore sviluppa sempre la sua scrittura nell’ambivalenza di questi due aspetti: da una parte c’è l’urgenza di attenersi ad un genere, diciamo poliziesco, dall’altra quella di sviluppare la personalità e il percorso dei personaggi coerentemente al loro desiderio…
La questione principale della forma è legata all’emozione che vogliamo suscitare nel pubblico. Se faccio un film di mafia so già come andrà a finire e non sarà interessante. Allora mi son detto che il film parlava di cosa è l’amore per queste persone, quindi è un film d’amore ed ha la struttura di un film romantico. Perciò, il vero pericolo non sarà costituito, per esempio, dall’amministazione dell’istituto che li vuole punire, ma dalla compromissione del loro amore.
Dunque, tecnicamente parlando, hai deciso di rinforzare gli aspetti che mettono a confronto il personaggio maschile a quello femminile?
Sì, assolutamente. E questo ha comportato, per esempio, l’eliminazione o la riduzione di scene che riguardavano strettamente le modalità di costituzione della rete di sfruttamento sessuale, a favore del confronto diretto, sul piano sentimentale, dei personaggi.
Tu e Chapiron avete valutato l’ipotesi di far terminare il film in maniera cupa, sinistra, invece che optare per la solita fine, che vuole che i personaggi, dopo il fallimento del progetto, imparino dai loro errori? Non avete contemplato la possibilità di risolvere l’intrigo con una soluzione cinica, con il più cattivo che la scampa mentre coloro che hanno un briciolo di morale vengono schiacciati?
Certo, c’è stata questa tentazione… perché questo pitch in realta distilla un’idea che è presente durante tutti gli anni Novanta e Duemila, e che fa capo a Bret Easton Ellis, ovvero la commedia trash disincantata, film come Déjà mort (1997). C’era la volontà, per affermare la modernità del film, di non fare un film disperato. Ma abbiamo deciso di non cominciare con la solita commedia trash, ma con le “leggi dell’attrazione” per poi sfociare nel vero romanticismo, scelta che si oppone ad una doppia ma complementare possibilità: quella di iniziare con delle persone buone e che poi vengono corrotte dal mondo o con delle persone ciniche che apprendono una certa innocenza.
Puoi ora parlarci delle diverse tappe del tuo progetto?
Non ce ne sono state molte, diciamo che l’idea ce l’avevo da diverso tempo. Ho scritto una sinossi che era un po’ uno sviluppo alla Bret Easton Ellis… diciamo, piuttosto, che era una versione scadente di Ellis, si trattava di una decina di pagine che ho inviato all’assistente del mio agente che l’ha data a tre o quattro produttori: alcune reazioni sono state di indignazione, una produttrice, addirittura, lo ha trovato inqualificabile. E quindi l’agente mi ha detto che non era la miglior sinossi da far passare subito ad un produttore. E allora l’ho messa da parte e due anni dopo, mentre lavoravo su Les gamins (2012)… l’ho riproposta.
Come è nata questa collaborazione con Max Boublil e Anthony Marciano a proposito di Les gamins?
Stavo tentando di scrivere delle battute comiche per Max Boublil ma non ne ero capace anche se l’intesa tra noi era buona. Allora un giorno mi hanno fatto leggere la sceneggiatura e mi hanno chiesto cosa ne pensavo e così è nata una collaborazione su nuove basi: ho dato loro una mano sulla struttura, in quanto consulente. Loro sanno scrivere prevalentemente delle battute di humour, ciò di cui hanno bisogno è qualcuno che indichi loro come proporre una situazione. E allora ho fatto passare la mia sceneggiatura ai produttori perché ho pensato che non sarebbero stati troppo disgustati ed infatti l’hanno adorata. A quel punto sono stato molto aiutato dall’uscita di Social network (2010).
Perché la struttura della storia è simile…
Non proprio, diciamo piuttosto che è la storia di un successo, che si ambienta ad Harvard dove c’è, appunto, “la crème de la crème”, era il contesto ad interessarli. Insomma, hanno acquistato il progetto, ho elaborato un trattamento e poi l’abbiamo proposto a Kim.
Mi piacerebbe tornare su questo punto, sul fatto che il progetto è stato presentato a dei produttori da uno sceneggiatore e solo alla fine è stato proposto ad un regista. Questa è un’anomalia perché molte volte mi è capitato di sentirmi dire che è complicato rifilare un progetto ad un produttore senza che vi sia un regista intenzionato a realizzarlo.
Psicologicamente è complicato, per un produttore, sentirsi dire che non c’è un regista. Vuol dire non sapere quale sarà il film che ne sortirà. Per esempio, proponendolo a Kim, sapevamo che il risultato ottenuto sarebbe stato del genere ‘trash tendenza’ mentre nelle mani di un altro regista, a cui lo abbiamo sottoposto e che peraltro non ha nemmeno letto la sceneggiatura, sarebbe diventato qualcosa sul genere di Risky business (1983).
Kim era disponibile e ci disse che avrebbe fatto il film nell’estate 2013 e ci trovavamo già a novembre del 2012. Abbiamo deciso di fare il film nonostante i tempi fossero stretti e così abbiamo fatto delle riunioni abbastanza intensive con Kim per due settimane consecutive. Ho cominciato subito a prendere note e a scrivere delle parti dialogate e, al termine delle due settimane, avevo i miei eroi. Visto che il trattamento era già elaborato, presentai la versione definitiva in marzo. E il film, come previsto, è stato girato in agosto. È stato un film fatto molto velocemente ma sul quale avevo meditato molto.
Ed è stato un film che ha necessitato di molta documentazione?
Diciamo che l’idea del progetto l’avevo maturata proprio perché avevo molti amici che facevano le Grandes Écoles (istituti di insegnamento superiore ai quali si accede tramite concorso e che offrono una formazione di alto livello n.d.r), mi sono documentato ispirandomi a quello che avviene nei campus.
Nella realtà troviamo delle cose molto più interessanti rispetto a ciò che si è immaginato. Per esempio, una persona che studiava alla scuola di commercio e che lavorava nel cinema, mi ha detto che lì le persone portano delle polo di colore differente, a seconda dell’associazione cui appartengono. Quindi se fate parte dell’associazione delle ‘star’, portate certi colori, se fate parte dello Yacht Club, ne porterete un altro: cinematograficamente parlando è geniale! Se lo avessi inventato io sarebbe stato uno scandalo!
Qual è il significato del titolo? Perché il film uscirà nelle sale il prossimo aprile quando, in realtà, era già pronto ad ottobre scorso? Eppoi come avete fatto a documentarvi senza aver fatto una scuola di commercio?
Volevamo che il titolo del film si potesse tradurre in francese e in inglese. In secondo luogo nel titolo c’è una connotazione erotica, eppoi, evidentemente, è un’espressione che significa “i migliori”. Quelli che entrano alla HEC sono i migliori, quelli che, al liceo, erano i primi della classe. Sono persone che non hanno mai avuto delle delusioni, in termini scolastici almeno…
Per quanto riguarda la data di uscita nelle sale, è stata posticipata per diverse ragioni. Il film era pronto nel periodo della ripresa delle scuole perciò il distributore ha preferito fare un po’ di promozione; quindi la data è slittata a novembre ma in questo periodo era prevista l’uscita di film con cui non potevamo competere, soprattutto a livello di cast. L’intenzione del distributore era quella di fare una grande uscita per un film con un cast di attori sconosciuti. Perciò la data è slittata in aprile, in concomitanza con l’inizio delle vacanze pasquali. Questo doveva consentire di fare ulteriore promozione dopo le vacanze natalizie: organizzare concerti, distribuire gadgets…
Per quanto riguarda l’ultima domanda, sottolineo che non si tratta di un film sulle scuole di commercio; queste ne costituiscono solo lo sfondo, l’importante è che vi sia una certa verosimiglianza. Lo stesso discorso è valido per un film su un agente segreto; la verità è che la vita che conduce questa gente non è molto appassionante visto che trascorrono la maggior parte del tempo a leggere dei documenti. Malgrado ciò, gli studenti della scuola di commercio che hanno letto la sceneggiatura di La crème de la crème, l’hanno trovata molto realistica. Ciò che è importante è che la gente si identifichi coi personaggi e non che gli esami siano in febbraio piuttosto che in giugno.
Puoi descrivere i personaggi principali del film?
Ci sono tre personaggi principali che corrispondono agli archetipi che ritroviamo nei teen movies americani: uno dei ragazzi viene da Versaille (il cliché del “Versaillais” definisce qualcuno che proviene dalla media borghesia cattolica e conservatorista n.d.r.), e corrisponde al quarterback dei film americani, dunque brillante e rubacuori, l’altro è il nerd parigino di famiglia benestante, mentre il terzo elemento è rappresentato dalla ragazza che ha avuto accesso alla prestigiosa scuola di commercio per merito, viene dal ceto popolare e incarna l’archetipo del freak, il disadattato.
È stato difficile trasporre questi archetipi americani nel contesto francese?
In realtà non li abbiamo trasposti. Me ne sono accorto dopo e mi sono reso conto che questa identificazione aveva il vantaggio di farci fare un po’ di economia sul piano della caratterizzazione dei personaggi perché la gente conosce già questi archetipi.
Hai tentato di andare oltre all’archetipo, al cliché?
C’è una cosa che Thomas Bidegain mi ripete spesso e che devo cercare di tenere bene in mente: le cose non sono mai come ci appaiono. Bisogna partire con la formulazione di un giudizio sul personaggio per poi farlo cambiare.
Puoi approfondire la questione della contaminazione dei generi?
È una maniera di riflettere che è divertente. La crème de la crème è un film romantico travestito da film di mafia. Quello che è interessante è ciò che è inatteso: si fa credere che si parla di una storia ed invece poi se ne racconta un’altra. È molto utile ed efficace.
Però è rischioso fare un film dove i generi si contaminano per la difficoltà di collocarlo in termini di marketing…
Certo. Infatti La crème de la crème è venduto come un film di mafia anche se non lo è! Tuttavia è importante far passare un messaggio, fare una promessa.
Eri presente durante le riprese del film?
Per La crème de la crème ero praticamente sempre presente perché era girato con attori debuttanti, inesperti, che hanno molto ego… Io stavo davanti al monitor combo e davo una mano a Kim per controllare la recitazione e poi discutevamo delle riprese.
Recentemente ho scritto un film assieme a Thomas ma la mia presenza non è necessaria sul set perché si tratta di attori professionisti.
Attualmente sto lavorando ad un film con Jacques Audiard: ciò che faccio è molto speciale perché devo guardare il girato proiettandomi nel film in divenire. Poiché il cinema è, prima di tutto, un esercizio di interpretazione, capita spesso che gli attori leggano e interpretino la storia che gli si propone in maniera differente da quella auspicata. Allora il mio compito è quello di tentare di rimediare a questo problema proponendo delle modifiche nelle scene che non sono ancora state girate o, addirittura, di scrivere delle nuove scene per ristabilire una certa coerenza e armonia con il giusto spirito della storia.

Miraggio all’italiana: “Cerchi lavoro? L’Alaska ti aspetta!”. Incontro con Alessandra Celesia

Torino, 2010: quattrocento persone rispondono ad un annuncio per andare a pulire il salmone in Alaska. La regista Alessandra Celesia si serve di questo annuncio-escamotage come barometro della crisi italiana. Gente disoccupata, smarrita e arrabbiata si presenta a colloquio per realizzare un sogno di evasione e di speranza all’altro capo del mondo.
Solo cinque candidati potranno compiere un viaggio che sarà, prima di tutto, un’odissea interiore: c’è Giovanna, ex tossicodipendente e disoccupata che si serve di un dittafono per comunicare ai figli, da cui è separata, il suo amore materno; c’è la bohème Camilla, che sublima il proprio sogno frustrato di divenire attrice, travestendosi da Marlène Dietrich; eppoi Dario, meccanico di giorno e drag queen di notte; il ‘fascio’ Ivan, ex-militare in Irak e in Afghanistan e morbosamente affezionato alla sua nonna; e infine Riccardo, pubblicitario e benestante la cui vita è stata sconvolta dalla morte del figlio.

Il quattro febbraio scorso Alessandra Celesia, già vincitrice nel 2011 del premio “Miglior Documentario” al Festival dei Popoli di Firenze con Le libraire de Belfast, è stata invitata a Parigi dall’associazione Toiles&Toiles a presentare Mirage à l’italienne (2013) e a discuterne con il pubblico. Un’occasione per approfondire il processo di lavorazione di un docu-film imperfetto ma che, dalle maglie del reale, ha saputo distillare pura poesia.

Scheda tecnica:

Anno: 2012
Durata: 90′
Regista : Alessandra Celesia
Produzione : Zeugma Films
Fotografia : Laurent Fénart
Suono : Damien Turpin
Montaggio : Danielle Anezin
Festivals : Compétition Française au Cinéma du Réel 2013 (Paris), Festival internazionale del Film di Milano 2013 (Italia), Salina DocFest 2013 (Italia)
Prix: Premio Aprile et Menzione Speciale della giuria al Milano Film Festival (2013), Menzione speciale della giuria al Salina Doc Fest (2013)

Mi piacerebbe sapere quale sia stata la parte di finzione e quella di realtà nel film. Un vero lavoro attendeva queste persone o sono state vittime di una truffa?

Penso che sia stata un’avventura talmente folle che non avrebbe potuto essere controllata in nessun modo. Io ho l’impressione che sia una favola, ed in effetti era questa l’intenzione che avevo sin dall’inizio.
Il film è nato perché nel 1995 è circolato un annuncio pubblicitario a Torino per andare a pescare il salmone in Alaska. C’erano diversi miei amici che, insospettabilmente, avrebbero aderito all’iniziativa e quindi questa cosa mi ha profondamente colpito. Le ragioni che li motivavano non erano solo economiche ma c’era anche la voglia di vivere un’avventura e di cambiare qualcosa nelle proprie vite.
Per quel che mi riguarda, gli altri due motivi propulsori di questa esperienza sono stati il compimento dei miei quarant’anni e la crisi italiana. Mi sono resa conto che avevo passato più della metà della mia vita all’estero. Ero partita a diciott’anni e son tornata in Italia diverse volte ma senza avere l’intenzione di viverci. Mi sono detta che non ero più tornata perché se vuoi realizzare i tuoi sogni non è possibile in Italia ma bisogna andare altrove. Volevo raccontare l’Italia di questi anni e lo spunto mi è venuto ripensando a quel vecchio annuncio: era una metafora straordinaria anche se l’annuncio, evidentemente, non esisteva più! Così sono andata al salone del pesce di Bruxelles con un assistente. C’erano diversi stand, tra cui quello dell’Alaska, e così abbiamo preso accordi con un’azienda che ci avrebbe aiutato a realizzare questo film. L’accordo era che loro avrebbero concesso ai personaggi di lavorare presso l’azienda affinché il film potesse essere fatto; dall’altra parte, la produzione del film avrebbe pagato i salari dei lavoratori a condizione che potessimo scegliere, non i lavoratori migliori, ma quelli che ci avrebbero colpito di più e che ci sembrassero più adatti per il film. Quindi, in un certo senso, si è trattato di una truffa. Sapevamo che ci sarebbero stati cinque impieghi e che sarebbero stati pagati una certa somma. Era vero e non vero allo stesso tempo… Per me era comunque fondamentale che ci fosse un lavoro remunerato dietro a questa faccenda.
Abbiamo messo questo annuncio e, al di là di tutte le aspettative, abbiamo ricevuto, solo il primo giorno, quattro o cinque mail. Abbiamo selezionato cinque persone. Fin dalla prima mail erano stati messi al corrente che sarebbe stato realizzato un film sul lavoro che andavano a fare in Alaska. Penso che avessero immaginato un film d’impresa. Ci siamo conosciuti e poco a poco i personaggi sono cominciati ad entrare nello spirito di quest’avventura.
Abbiamo dunque deciso di partire per l’Alaska anche se da qualche giorno non avevamo più notizie dall’azienda. Una volta sbarcati abbiamo scoperto che alcuni marinai erano morti in mare qualche giorno prima. L’azienda era in lutto e, inoltre, era soggetta a diversi controlli da parte delle autorità. Dunque l’ultima cosa di cui avevano voglia era che si facessero delle riprese da loro. Ciononostante ci hanno offerto di aiutarci anche se il mio progetto di sceneggiatura era ormai irrealizzabile perché, inizialmente, avevo previsto che i personaggi dormissero assieme agli operai e mangiassero assieme a loro alla mensa comune.
Per me è stata una catastrofe, ho dovuto annunciare ai personaggi che non c’era lavoro anche se sarebbero stati pagati ugualmente. Ne erano contenti! Io invece ero annientata. Ho pure chiamato il mio produttore che mi ha detto di arrangiarmi.
I personaggi mi hanno detto una cosa che mi ha fatto riflettere: anche se non fossi stata io ad organizzare questa iniziativa, probabilmente sarebbe finita per essere una truffa. In effetti, in Italia, nel 1995 nessuno ha risposto all’annuncio, che io sappia. In Italia funziona così: spesso le imprese ricevono dei fondi dalla comunità europea per fare delle formazioni, incassano il denaro, vi fanno vedere come preparare il pesce eppoi… sì, come in un film di Ken Loach. Dunque sono stati i personaggi che hanno ricreato la sceneggiatura e mi hanno invitato a seguirli in questa nuova avventura. Solo dopo ho realizzato che questo disguido, per me, è stato una grande occasione perché non avrei ottenuto lo stesso risultato se i personaggi avessero lavorato otto ore al giorno.

Come avete concepito delle scene molto intime e spontanee come il coming out di Diario? Questa scena mi ha colpito molto perché è autentica. Volevo sapere se l’ha fatta accadere o se, semplicemente, si è svolta sotto i suoi occhi senza nessun intervento da parte sua.

Io ho avuto l’impressione che tutto il processo del film sia avvenuto sotto il segno della speranza. Speravo che certe cose si sarebbero prodotte. Per questo ho scelto molto accuratamente i personaggi, tentando di individuare delle tracce di possibili relazioni e conflitti. Per esempio, quando si sceglie una persona di destra, un ‘fascio’ come Ivan e, dall’altra, un omosessuale come Dario, ti immagini che qualcosa debba accadere. È vero che Dario ed Ivan si sono subito presi ma Ivan non aveva capito che Dario fosse omosessuale. Quello che ho potuto fare io è stato solo comprendere dove li avrebbe condotti la scia dei loro sentimenti.
Il coming out di Dario è arrivato verso la fine del viaggio. Sapeva che, quando sarebbe tornato a Torino, Ivan avrebbe saputo che era omosessuale ma non voleva che lo apprendesse da altre persone perché ciò avrebbe compromesso la loro amicizia. E dunque desiderava dirglielo ma aveva molta paura di parlargli. Quel giorno avevamo fatto una cena, era tardi, tutti erano mezzi addormentati e ubriachi e Dario parlava di motori. A quel punto gli ho detto che era arrivato il momento per parlare a Ivan. Ho spento la videocamera perché per lui sarebbe stato come vendere questo momento. Dario ha rivelato la sua omosessualità ad Ivan e, subito dopo, ho riacceso la videocamera.

Non trova che sia un modo di filmare violento? Si sono ritrovati in una trappola, e questo è vero sia per Dario che per Ivan.

Non so. Quando ci si lascia filmare per due mesi, in quella maniera, accade qualcosa. Io penso che i personaggi siano coscienti, che non siano del tutto innocenti davanti alla videocamera, anzi penso che i personaggi ti manipolano completamente. Credo che Dario abbia voluto questa scena. Allo stesso tempo, devo dire che non l’avrei filmata se Ivan non si fosse dimostrato così amabile: era diventato… non dico ‘di sinistra’, ma è maturato molto grazie a questa esperienza. Ivan è venuto all’anteprima parigina del film sapendo che c’era questa scena e si è fatto accompagnare da un amico ‘fascio’. Penso che fosse fiero di questo perché faceva parte del percorso che ha fatto.
È importante che questa questione della violenza, concernente il genere documentaristico, sia stata sollevata. Più guardo il film e più mi capacito del fatto che nessuno si lascia filmare gratuitamente ma che, anzi, sceglie per sé il buon momento. I personaggi ti utilizzano per degli scopi.
Penso anche che non tutti son fatti per essere filmati in questa maniera, io stessa non potrei. Ci sono delle persone che sono trasparenti e altre che non lo sono.

I personaggi sono stati filmati ininterrottamente durante le due settimane del viaggio? La loro personalità cambiava quando venivano filmati? Penso a Big Brother e ai reality show…

Mi piace questo riferimento a Big Brother. Ma dipende a che tipo di reality pensiamo. Io lavoro sempre con la stessa équipe e, di conseguenza, si creano delle relazioni forti coi personaggi. Per esempio Ivan era molto amico dell’ingegnere del suono, che era francese e che aveva la passione per il suono, ma era anche interessato alle macchine ed era dotato di muscoli per tenere l’asta del microfono: questo piaceva a Ivan. Insomma eravamo una grande colonia di vacanze.
È importante considerare che la differenza con i reality show è che, nel nostro caso, l’équipe viene coinvolta umanamente. Trovo che questo sia giusto per me e per le persone filmate perché, alla fine, anche io ho voluto restituire loro qualcosa in cui si siano riconosciuti e che possano conservare nel tempo. Si tratta di uno scambio.

Penso che questo film si collochi perfettamente nella linea del genere documentaristico: il riferimento a Nanouk l’Esquimau (1922) di Robert Flaherty non è là per caso. Similmente, nel film Pour la suite du monde (1963) il documentarista Pierre Perrault installa un dispositivo che ‘fa comunità’. Il suo film è in questa linea, anche se completamente contemporaneo.

Oggi abbiamo il vantaggio di poter filmare per ore e ore, allora la concezione del documentario era differente, innanzitutto per le risorse…

Forse i popoli che filmava Flaherty erano più ‘innocenti’. La gente che lei ha filmato nel suo film ha vissuto l’era dei reality e quindi è più smaliziata nel senso del rapporto con la videocamera.

Sì, è senz’altro vero: in questo film, per un mese intero, prima di partire per l’Alaska, ho spento la videocamera e non ho filmato nulla al fine di restare coi personaggi e prenderli per la mano per condurli verso un altro universo e per far loro capire il senso di quest’avventura comune e che non li filmavo per qualcosa di ‘rapido’.

Quanto tempo siete rimasti sul posto?

In Alaska era stato previsto un soggiorno di due settimane: avevamo già acquistato i biglietti di andata e ritorno. Se avessi avuto più soldi per la produzione saremmo rimasti di più.

Qual è stata l’ accoglienza della popolazione indigena? È realtà o parte romanzata? Mi sembra che i personaggi siano stati accolti a braccia aperte.

Vi porto un esempio. C’è stata una scena che non ho filmato perché quella, sì, l’avrei ritenuta violenta e non rispettosa della sensibilità delle persone. I genitori di un marinaio morto avevano intagliato un totem nel legno nella foresta e, visto che erano a conoscenza del fatto che il figlio di Riccardo era morto, l’hanno invitato a vederlo.
Detto ciò, credo che i personaggi non siano voluti restare perché la società là è molto violenta, gli indigeni sono pochi, la maggior parte sono americani bianchi e molto armati.
E poi la natura stessa è violenta. Per esempio c’era la donna dell’uomo che ci affittava l’auto che faceva dello sci di fondo sulla spiaggia con il fucile in spalla per difendersi da eventuali attacchi di orsi.
O, ancora, il fatto che Dario fosse omosessuale non era ben accolto: nel villaggio c’era un solo altro omosessuale: una donna che era stata bandita dal villaggio perché aveva lasciato il marito per andare a vivere con un’altra donna.

Ma la stessa cosa sarebbe potuta capitare in Italia per quando riguarda l’accettazione dell’ omosessualità di Dario, se è vero che a Torino Dario avrebbe avuto paura!

Certo, l’Italia non è la Francia! Ma, in ogni caso, è più sicura dell’Alaska!

Io pensavo che sarebbero partiti sulla piccola casina sull’acqua e che là avrebbero cominciato una piccola vita di comunità.

Alcuni sono venuti al colloquio con l’idea di ricreare lontano una piccola comunità utopica. Visto che le ragazze che facevano il colloquio non erano delle professioniste ma erano lì perché interessate al lato umano delle persone, alcuni dei candidati si sono sfogati: le storie che raccontavano erano sempre le stesse, storie di gente che si sentiva schiacciata dal sistema, dall’economia, c’erano anche dei manager, come quel signore che dice che a quarantotto anni avrebbe voluto fare una strage nella sua ex azienda. Non aveva lavoro eppure era un quadro… E considerate che le interviste sono state fatte a Torino, che non è Napoli!

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Trovo che non insista abbastanza sul rapporto dei personaggi con questo nuovo mondo e su come quest’ultimo li abbia cambiati. Là essere omosessuali o ‘fasci’ non conta più niente. Avrei voluto sognare di più!

Non è stato possibile rimanere di più, anche se avrei voluto… ma penso che al centro del film sia il desiderio di partire. Anzi, penso che il film avrebbe potuto terminare prima di partire in Alaska.
È stato veramente difficile organizzare le riprese perché non abbiamo potuto fare dei sopralluoghi e non conoscevamo bene le persone dell’azienda. Avevo proposto al produttore di andare in Islanda dove ho degli amici e dove avrei potuto organizzare più facilmente ogni cosa. Inoltre gli sarebbe costato anche meno ma lui è stato intransigente sulla scelta della destinazione del viaggio: era convinto che proprio questa grande distanza avrebbe prodotto un cambiamento. Ci abbiamo impiegato due giorni per arrivare!

Il procedimento del dittafono l’ha introdotto lei o è stata un’idea di Giovanna?

Giovanna scriveva molte lettere ai propri figli, ci siamo chieste se avesse voluto leggerle o parlare direttamente davanti alla videocamera, ma questa seconda proposta è stata accantonata subito visto che era difficile per lei sostenere lo sguardo in macchina per più di trenta secondi. Un giorno, camminando per strada, ho visto questo dittafono e le ho proposto di utilizzarlo senza sapere che lei fosse poeta. Con questo strumento è stato molto più facile per lei parlare ai suoi figli perché le permetteva di estraniarsi da noi e dal mondo.

Perché dà del ‘fascio’ ad Ivan? Ha l’aria talmente amabile!

Lo dico con affetto ma basta vedere i tatuaggi che ha sul braccio per convincersene: vi ha marchiate la “folgore” e la scritta “Dux”…
D’altronde io volevo un fascista nel cast, lo dico perché penso che sia uno dei problemi dell’Italia. Penso che Ivan abbia il problema di tutti i fascisti che sono in Italia e di tutti quelli che hanno vissuto il fascismo: abbiamo bisogno di un padre in Italia, siamo talmente orfani! Ci troviamo nel caos e, appena viene qualcuno che ci dice “questo è quello che dobbiamo fare”, si dice subito “sì papà, ti seguo”. Questo è tanto più vero per Ivan, che non ha avuto un padre: non avrei mai immaginato che si sarebbe avvicinato talmente a Riccardo, poi ho capito che si completavano.

I personaggi sono tornati a casa o sono rimasti in Alaska?

È un buon segno che vi interessiate ai personaggi perché vuol dire che vi siete affezionati a loro. Purtroppo son tornati tutti. In effetti Camilla ha veramente esitato e pure Giovanna.
I biglietti di ritorno erano già stati acquistati e là eravamo nel bel mezzo del nulla: gli unici mezzi per arrivare a Yakutat erano la nave o l’aereo. Delle volte abbiamo voglia di fare delle cose nella vita ma ci vuole coraggio. Il problema è che avrebbero dovuto avere del denaro da parte se avessero deciso di tornare e Giovanna e Camilla non avevano i soldi necessari per acquistare un biglietto di ritorno. Questa esperienza ha cambiato tutti, interiormente, ma non la loro vita quotidiana.

Jean Charles Fitoussi: «Il caso è la vera matrice della mia opera cinematografica»

Nel mese di gennaio 2014 la Cinématheque di Parigi ha dedicato una retrospettiva all’opera di Jean-Charles Fitoussi, cineasta atipico, che ama mescolare realtà, poesia e fantasia, interrogando il tempo, l’esistenza e il caso.
Fitoussi ha realizzato, a partire da I giorni in cui non esisto (Les jours où je n’existe pas, 2002), una serie di film raggruppati sotto il titolo “Le Château de Hasard (Il Castello del Caso, t.d.r.)”, per rendere omaggio al caso, vera matrice della sua opera cinematografica.
Il suo primo lungometraggio, che racconta la vicenda di un uomo che esiste un giorno su due, ottiene due premi al festival di Belfort (Gran Premio del miglior film francese e il Premio Gérard Frot-Coutaz), e al festival di Torino (miglior lungometraggio). Ne Il Dio Saturno (Le Dieu Saturne, 2003) un figlio fa visita al padre che vive rinchiuso nella foresta e la cui ossessione è quella di uccidere i propri figli per evitare loro le miserie della vita. Nell’opera di Fitoussi i personaggi si ritrovano e si incrociano da un film all’altro. Assistente di Jean-Marie Straub et Danièle Huillet, tra il 1996 e il 2007, mutua dai due cineasti la volontà di girare i suoi film con mezzi ridotti al minimo (presa del suono diretta, attori non professionisti), privilegiando i piani sequenza o le inquadrature fisse. La sua opera si crea sovente nell’improvvisazione permanente, senza dialoghi e sceneggiatura preliminari, lasciando spazio alla scelta del caso e girando corto e lungometraggi in 35 mm, col video, in digitale o sul telefono cellulare (come il film Nocturnes pour le roi de Rome, girato nel 2005 e selezionato al festival di Cannes nel 2006). Nel 2008 realizza Je ne suis pas morte (Non sono morta, t.d.r.), nel quale una donna inizia la sua esistenza a ventisette anni e parte alla ricerca della sola cosa che non le è possibile provare: il sentimento amoroso. Nel 2013 Fitoussi ottiene il premio Jean-Vigo per il film L’enclos du temps (Il recinto del tempo, t.d.r.).

Il 25 gennaio, in occasione della retrospettiva a lui dedicata alla Cinémathèque di Parigi, Fitoussi è stato invitato da Bernard Benoliel a parlare della sua opera.

Fitoussi

Come è nato il progetto “Le Château de Hasard”?
Il progetto è nato per ringraziare il caso perché è a lui che devo quasi tutto. All’inizio non c’era che l’idea di testimoniare del potere del caso nel processo creativo. Dopo aver terminato Il dio saturno mi ritrovavo, sul posto, con qualche attore. Mi son detto che bisognava continuare la storia dei personaggi. Così ho ridonato loro vita nel film successivo e, a posteriori, ho deciso di riunirli tutti, come se si trattasse di una serie, nel progetto “Le Château de Hasard”. Poco a poco si sono instaurati dei legami tra i film, creando delle serie e ispirandone il seguito, come se si trattasse della disposizione delle stanze di un castello. Il piano terra è finito (otto film e mezzo), il primo piano è in fase di costruzione (un film realizzato e due abbozzati su un totale di otto film), infine c’è qualche dépandance, nel doppio senso del termine.
Questa idea si lega al piacere che si prova quando si legge Balzac o Zola. I miei personaggi tornano in altre storie, ricoprendo primi ruoli o semplicemente come figuranti. Quando li vediamo li riconosciamo e sappiamo che possiamo ritrovarli in altri film. Un po’ come avviene per la serie dei Duhamel nei film di Truffaut.
Per esempio, ne L’enclos du temps, il bambino che aveva cinque anni, nel film seguente ne ha undici.
Proprio rispettando questo principio, ci sono delle necessità che si vengono a creare. Per esempio, ne Il dio saturno, il padre che parte per dare la caccia ai suoi figli, afferma che ha tre figlie e tre figli perché il dio saturno ha effettivamente avuto sei figli. Nel mio film c’erano solo due maschi che recitavano, quindi mi rimanevano da trovare i nomi delle figlie e del terzo figlio. E li ho trovati: colui che  avrebbe interpretato il terzo figlio ne Il dio saturno si sarebbe chiamato Roger. Poiché i personaggi, nei miei film, prendono il nome dell’attore che li interpreta, lo avremmo ritrovato anche nel film L’enclos du temps. Solo che, nel frattempo, il ruolo del terzo figlio era stato assegnato ad un altro attore di nome Bernard. È per questa ragione che ne L’enclos du temps c’è una battuta un po’ strana pronunciata da Bernard che domanda alla madre il motivo per cui suo padre lo chiama sempre Roger. Naturalmente, la madre risponde che non lo sa visto che le ragioni sono estranee al racconto.
Questa regola assurda di necessità altra ha fatto sì che abbia cercato anche le altre sorelle e così in Je ne suis pas morte una di loro è presente e si chiama Alix.
La famiglia de “Le Château de Hasard” si costruisce così, progressivamente e secondo il caso fortuito degli incontri.

Come è nata l’idea del film I giorni in cui non esisto (Les jours où je n’existe pas, 2002)?
Il film I giorni in cui non esisto è il primo lungometraggio e il quarto episodio de “Le Château de Hasard”. Per questo film mi sono ispirato liberamente ad un racconto di Marcel Aymé. In realtà è stato soprattutto un motivo ispiratore perché alcuni alcuni personaggi sono inventati ex novo (lo zio e il bambino) mentre altri personaggi ed episodi, presenti nel racconto di Aymé, spariscono. La volontà di ispirarsi al racconto nacque dal fatto che, all’epoca, non avevo voglia di scrivere una sceneggiatura ma di girare un film, un piacere che ritengo più completo. Per me la volontà di fare un film nasce dal desiderio di riprendere un luogo. Questo film è dunque l’incontro tra un luogo, nello specifico l’appartamento di un’amica, e il racconto di Marcel Aymé. È la storia di un uomo che vive la sua vita a metà perché non esiste che un giorno su due. Il mio intento era quello di far sentire allo spettatore lo strano privilegio, al quale ci si è ormai abituati, dell’esistenza delle cose.
Un personaggio intermittente è eminentemente cinematografico perché si riallaccia al mistero per eccellenza del cinema che è il raccordo. Il raccordo è qualcosa di magico che appartiene solo al cinema e che stimola il piacere della creazione. Mi sono sempre posto il problema del tempo scomparso nello spazio del raccordo e dunque questo personaggio, nato dalla penna di Aymé, si prestava perfettamente alle mie esigenze creative e speculative perché aveva, appunto, un problema di raccordi, era un uomo con dei buchi.
Il film è stato girato nell’appartamento che un’amica era in procinto di lasciare. Avevo solo dieci giorni per girare il film perché l’abitazione sarebbe stata poi occupata dai nuovi inquilini. Mi sono rivolto ad un produttore che mi ha chiesto di scrivere una sceneggiatura. Ma non c’era tempo perché l’appartamento era libero solo per quei dieci giorni del mese di febbraio del 2000. Così  ho deciso di prendermi la responsabilità di cominciare a girare senza sceneggiatura. In quel momento non conoscevo né l’inizio né la fine del film.
Dopo la prima settimana di riprese ho scritto un abbozzo di sceneggiatura, una quindicina di pagine sulla base delle quali la regione Île-de-France ha finanziato quello che doveva essere un mediometraggio.

Come ti è venuto in mente di iniziare questo film, e quindi di assumere un gruppo di tecnici e professionisti, non avendo che una bozza di sceneggiatura?
Per me si trattava di una certezza che il film ci sarebbe stato. Ho cominciato quasi tutti i miei film in questo modo. Può sembrare folle ma è così.
Nonostante ciò la sua realizzazione è stata molto difficile per gli imprevisti e i piccoli incidenti che si sono succeduti durante la lavorazione del film.
Durante la prima settimana abbiamo girato tutte le scene dell’appartamento. A questo punto avevo un’idea più precisa del film e ho potuto cominciare a scrivere la sceneggiatura sebbene non vi fosse ancora un progetto per lungometraggio.
Un anno dopo, nella primavera del 2001, abbiamo ricominciato le riprese dopo aver racimolato qualche finanziamento qua e là. A partire da questo momento è iniziata una serie di piccole catastrofi nonostante le apparentemente favorevoli congiunture astrali di cui mi aveva messo a parte Jean Paul Bonheur, che interpreta un ruolo minore nel film.
Il film è stato girato in pellicola 35 mm. Durante la prima settimana di riprese abbiamo cambiato la cinepresa che avevamo preso in affitto perché era difettosa e gettato nella spazzatura il girato. Alla fine della settimana ci attendeva nuovamente una brutta sorpresa: parte del girato è stato danneggiato involontariamente dal laboratorio di sviluppo delle immagini. Durante la seconda settimana di riprese anche la pellicola Kodak ci abbandona: era tutta macchiata di punti bianchi, assomigliava ad una tela di Pollok. La Kodak riconobbe che il problema era loro, un difetto della pellicola davvero raro che si presenta una volta ogni cento anni.
Insomma, dopo la terza settimana di riprese mi ritrovavo con la metà del girato, tanto per essere coerente col personaggio del film!
A partire da questo momento, effettivamente, le cose hanno preso una buona piega. Abbiamo mostrato le riprese del film a dei produttori, gli stessi che stavano producendo il primo lungometraggio di Alain Guiraudie, Pas de repos pour les braves, che hanno finanziato la parte restante del film, destinato ormai a divenire un lungometraggio. Nei sei mesi seguenti ho rielaborato la sceneggiatura e nell’estate del 2001 abbiamo ricominciato le riprese. Ma poiché era l’inizio dell’estate alcuni attori mancavano. Così mi sono ritrovato a confrontarmi di nuovo con degli imprevisti. Il caso mi metteva alla prova ancora una volta. Riflettendo sul mio progetto, mi son detto che il principio stesso del film si basava sul racconto di una presenza intermittente e di persone che alternano la loro esistenza. Questo mi ha spinto a girare dei campo-controcampo con gli attori che si rivolgevano a persone inesistenti.
Nel caso di Je ne suis pas morte è il caso che ha costruito la narrazione. Il film è nato dalla volontà di tornare in un luogo dove ero stato dieci anni prima e dove avevo filmato D’ici là (1997).
Abbiamo girato una scena e poi un’altra alla fine dell’estate, tutto era bruciato. Siamo tornati in settembre.
Ho chiesto agli attori chi fosse disponibile a riprendere il lavoro. Ho fatto l’appello, come a scuola. Ho caricato in macchina i due che erano liberi. A noi tre si sono aggiunti un amico, curioso di assistere alle riprese, e la bimba neonata dell’attrice.
Ci siamo ritrovati sul luogo delle riprese dove avevo immaginato una scena di picknick immaginaria, che si è trasformata radicalmente a causa della nuova compagnia che si era venuta a creare. Avendo notato delle affinità fisiche e intellettuali tra l’attrice e il mio amico, ho chiesto a quest’ultimo di entrare in scena per far la parte del nuovo compagno della ex del personaggio principale. La bimba dell’attrice è entrata anche lei in scena, coronando così l’idillio coniugale mentre il personaggio principale si strugge per il dolore dovuto all’abbandono della sua donna.
Ho tentato, attraverso questa sequenza, di far capire al produttore che non si può prevedere un film. Gli ho anche scritto un testo: “Come non ho scritto alcuni miei film”1.

Tu dici che bisognerebbe far venire i produttori sul luogo di ripresa perché è il luogo che suggerisce il film…
Quella era più che altro una provocazione. Quel che voglio dire è che bisogna darmi fiducia perché quel che accade finisce col diventare quel che deve essere.

Je ne suis pas morte è il film in cui ti sei spinto più lontano riguardo a questa pratica di affidamento al caso perché è un film spalmato su più stagioni…
Certamente… Rispetto a I giorni in cui non esisto dove sono stati effettuati 4 cicli di riprese in due anni, in questo ce ne sono stati 7 su 3 anni…

Ma avevi almeno una linea direttrice? Ti sentivo perso o avevi individuato delle cerniere nel racconto che ti permettessero di ritrovarti più tardi?
C’è un compositore, Luciano Berio, che ha scritto un testo esemplare in questo senso, intitolato Points of a courve to find. Conosco, effettivamente, alcuni dei punti, degli elementi del racconto ma la curva si conoscerà solo dopo.

Nonostante gli imprevisti e gli incidenti si ha la sensazione che I giorni in cui non esisto sia un film unito, che ci si trovi di fronte all’opera di un vero cineasta. Da dove viene questa sensazione di unità e coerenza?
Proprio perché il film è stato girato in più tempi, c’era la necessità dell’unità. Tuttavia, in altri film, per esempio in Je ne suis pas morte, costituito da tre parti, dove c’è un’idea di progressione della forma filmica, l’unità è molto minore.

Potremmo dire che la parola d’ordine del tuo modo di fare cinema è il caso. Tu credi al caso come altri credono in Dio?
Si tratta semplicemente di dirsi che si ha a che fare con ciò che esiste e con quello bisogna cavarsela. In questo mi conforta il pensiero di un filosofo che amo molto, Clément Rosset, che ha scritto su questa questione del reale: «ciò che esiste esiste, e ciò che non esiste, non esiste». È semplice. Provo un po’ di pietà per quei registi che, durante le riprese, tentano di lottare con tutte le loro forze contro le necessità che si impongono loro e che decidono, di conseguenza, di disfare e rifare, invece di privilegiare un atteggiamento di apertura, di calma, domandandosi, piuttosto, se la tegola che è caduta loro in testa non sia più interessante di ciò che avevano previsto.
Mi si dice che ciò che filmo ha l’aria di essere molto controllato ma non è poi così vero. Faccio un esempio. Nel film I giorni in cui non esisto, Antoine acquista, nei giorni in cui esiste, dei quotidiani presso un chiosco di giornali per informarsi degli avvenimenti del giorno prima. La scena era stata girata nel 2000. L’anno dopo il chiosco, per caso, non c’era più, così ho approfittato di questa assenza per girare una scena in cui Antoine si reca presso il chiosco e con stupore si accorge della sua mancanza. In questo modo ho marcato il gap temporale che esperisce il personaggio dopo un anno dalla sua scomparsa.
Ci si diverte molto di più quando ci si pone in un atteggiamento di accettazione del caso, di sottomissione alla realtà, è un misto di volontà e non volontà.

Se, per quanto riguarda la scrittura della sceneggiatura e la fase delle riprese, ne inverti la causalità, che succede quando si tratta di montare il film? Anche il montaggio si rivela un’ulteriore tappa di sperimentazione?
Dipende dai film. In Nocturnes pour le roi de Rome (2006) è il montaggio che ha creato il film. Ne I giorni in cui non esisto, invece, è molto classico perché il raccordo è al centro del film. Nell’altro progetto, invece, Il dio Saturno (Le dieu Saturne, 2004), che non riuscivo a far finanziare e che è stato riscritto, ho steso la sceneggiatura come si faceva fino ad un certo momento, ovvero  scrivendo il découpage, con l’indicazione delle inquadrature e della loro concatenazione. Ciò che mi sorprende, nel cinema contemporaneo, è che si è perso il piacere dei raccordi, a parte i grandi film naturalmente. I film non sono più scritti descrivendo le inquadrature, ma le sequenze.
Avevo inviato la sceneggiatura scritta in découpage e la rifiutarono perché mi dissero che gli autori della CNC (Centre National du Cinéma e de l’image animée) non riuscivano a leggerla. Ciò mi ha sorpreso molto, solo poco tempo prima lessi una sceneggiatura di Straub, scritta in découpage, che ho trovato di una limpidezza estrema. È questo il cinema. Perché non deve essere scritto così? La CNC rifiutò dunque il découpage e ottenni, così, le sovvenzioni per la riscrittura della sceneggiatura al fine di emendarla di inquadrature e raccordi, e fui affiancato da scriptdoctors, la cui funzione era quella di darmi delle ‘medicine’ per impedirmi di fare cinema!
Ci sono delle cose che giro e che poi presento a dei produttori per cercare dei finanziamenti. Ma purtroppo le regole attuali, come per esempio la formula dell’anticipo sulle entrate (avance sur recette), e che riguardano i finanziamenti delle regioni e delle televisioni, impediscono di incominciare le riprese, assolutamente niente deve essere girato. Io ho delle difficoltà perché il mio metodo di lavoro vuole che la sola cosa che ho da mostrare ad un produttore sia del girato e allora devo trovare altre maniere per finanziare i miei film…
Per tornare alla questione del montaggio, anche in questa fase c’è l’intervento del caso perché durante le riprese entrano nel campo di visione tutta una serie di cose che non si possono controllare. Al montaggio vediamo gli imprevisti, ciò che è entrato e che costituisce un limite. Mi viene in mente allora questa frase che dice Clément Rosset e che è una citazione da Stravinsky: «qui monte une contrainte, monte une force (chi pone un limite, crea una forza, t.d.r.)». E questo aforisma si riallaccia a Luis Buñuel e al suo rifiuto della libertà: è meglio fare dei film non liberi ma che abbiano dei vincoli, a patto che li rendano interessanti.
Con Pauline Gaillard, la montatrice del film, facemmo un primo montaggio de I giorni in cui non esisto. La fine del film non era soddisfacente, c’era una sensazione di durata che può disturbare ma, dopo tutto, quello era il nostro fine. Per un uomo che mancava di durata, abbiamo volutamente insistito sulla dilatazione temporale, affinché lo spettatore si rendesse conto del passaggio dalla cosa percepita all’esistenza della cosa. Questa era la sfida.
Poi Pauline ha proposto un altro assemblaggio di inquadrature. Il risultato fu meraviglioso. Era come se fosse stato previsto dall’inizio ma la montatrice del film l’ha trovato nella materia, perché la materia suggerisce delle soluzioni. È il caso della fine del film. Antoine si ritrova sulla sua tomba di giorno e poi di notte, e tutta la serie di piani che si frapponevano tra questi due momenti sono stati eliminati.
I raccordi uniti dal caso ‘tengono’ molto di più. L’accostamento di cose assolutamente azzardate può, alle volte, manifestare una fortissima necessità. È vero anche per un’ inquadratura. Un’inquadratura che ‘tiene’ dipende da piccole cose che dipendono dall’attore, dall’istante di congiunzione tra gli attori, tra gli attori e le cose, tra gli attori e l’inquadratura. E non si sa perché. Penso che fosse un jazzista che dicesse così: «That’s it for that’s it».
Dopo I giorni in cui non esisto ho girato Il dio saturno, film che è stato finanziato prima dell’inizio delle riprese e che doveva far parte di una collezione intitolata “Portrait” per Arte2. È il film che mi ha dato il minor piacere nelle riprese, ad eccezione dell’ultima sequenza perché fu la sola a non essere stata scritta. Non l’ho amato tanto perché c’era un direttore di produzione che voleva interrompere le riprese prima a causa dei costi di produzione. Così ho acquistato io stesso delle bobine per continuare la sua lavorazione. Ecco, i vincoli delle spese di produzione sono di quel genere che non giova al cinema.
Nocturnes pour le roi de Rome (2006) è stato un film che è nato da circostanze particolari. Nel 2005 erano stati lanciati sul mercato i cellulari con videocamera. In occasione del primo Festival dei film  realizzati con telefoni portatili, l’ideatore del festival, Benoît Labournette mi diede uno di questi telefoni, sebbene sapesse che io girassi esclusivamente in 35 mm. Me ne servii durante i sopralluoghi di Je ne suis pas morte, utilizzandolo come un taccuino. Fu una rivelazione. La qualità delle immagini era pessima ma ho scoperto che, proiettandole sul grande schermo, erano magnifiche proprio perché i difetti venivano ingranditi: le linee sparivano  mentre si evidenziavano forme di colore puro. Spesso al cinema il colore svanisce a profitto della linea. Qui invece ero affascinato dall’effetto plastico, da una specie di biologia cellulare che appariva sullo schermo.
Durante una cena di gala a Villa Medici a Roma, dove ero ospite, ho filmato il balletto dei camerieri. Ero là come l’improvvisatore di musica, seguivo le ‘comparse’ senza nessun progetto. Le riprese effettuate durante questa occasione mi ispirarono il film Nocturnes pour le roi de Rome.
L’interesse del telefono risiedeva anche nel fatto che potevo effettuare delle riprese molto lunghe e lavorare sulla continuità, sulla fluidità, il che trasmette un sentimento di gioia, come nel cinema di Otar Iosseliani.

Veniamo ora all’impiego della musica nei tuoi film. La musica rappresenta un elemento di necessità nei tuoi film? 
È delicata la questione. Sovente è penosa la musica al cinema. Fa invecchiare i film. Due cineasti molto importanti per me, Bresson e Buñuel, dicevano che la musica non deve essere impiegata, a meno che non sia eseguita nel film, come ne L’argent (1983) di Bresson e Il fantasma della libertà (1974) di Buñuel.
Il primo testo teorico che ho scritto, fortunatamente scomparso perché orribile, si chiamava Cinéma-musique. Qui cercavo di  descrivere questo piacere cinematografico che è il raccordo delle inquadrature e parlavo dell’aspetto musicale della loro concatenazione.
Dunque, se in un film si utilizza la musica, bisogna essere coscienti che si esegue della musica su un’altra musica, che è quella delle inquadrature, e che quindi si tratta di una musica supplementare, che ha spesso lo svantaggio di cancellare la musica che risiede nel raccordo. Se la musica è là, è perché si afferma in quanto musica ed è lì per essere ascoltata.
In Je ne suis pas morte, per esempio, la musica è eseguita realmente nel film. Fa parte integrante del film. Visto che questo film rifletteva la percezione di un essere che non aveva corpo, ma che percepiva solo le cose presenti, era fuori questione che introducessi un montaggio sonoro, della musica aggiunta.

Ci sono degli attori buñuelliani nel film Les jours où je n’existe pas. Che cosa ha motivato questa scelta?
Nel film vediamo, durante il primo travelling musicale dove si avvicendano musiche di Haydn, Webern, Stravinsky e Mozart, un anziano signore che passa: è Paul Le Person. Mentre lo zio è impersonato da Bernard Musson. Ho un amore infinito per questi attori e per i film di Buñuel. Potrei vederne tutti i giorni!
È un piacere vedere quello che son diventati i due attori perché non sono più filmati, nessuno li faceva più lavorare. Le Person ha accettato di fare il figurante. Visto che non avevo altre idee gli ho detto che l’unica cosa che potevo fargli fare era passare. E lui ha risposto che gli andava benissimo fare il figurante.

Non ti pare violento domandare a questi attori di fare delle apparizioni così brevi?
No, non è violento. Loro sono là. É ciò che importa. Quello che è bello di questi attori è che non hanno ego e questa è una grande cosa.

Nel film I giorni in cui non esisto ho l’impressione che ci siano attori che recitano e altri no. Per esempio il personaggio principale, Antoine, ho l’impressione che reciti, ma non la sua compagna, Clémentine. Gli attori buñuelliani, a loro volta, si sente che recitano… C’è qualcosa che ti sfugge o c’è un’altra spiegazione? Ci puoi parlare della direzione degli attori?
È qualcosa di veramente complicato. All’inizio del film, diciamo che avevo qualche idea sulla dizione perché precedentemente avevo lavorato con Straub-Huillet e per loro la questione della dizione è fondamentale.
Diciamo che ne I giorni in cui non esisto avevo voglia di dissociare le parole dal corpo, di dare ai personaggi un aspetto un po’ sonnambolico, in maniera che sembrasse che non sapessero di cosa parlassero, che fossero un po’ degli automi. Di qui l’effetto un po’ strano: che la recitazione sia artificiale o meno, questo mi interessa molto.  Poi qualcosa è cambiato…
Diciamo che non ci sono regole, dipende dalle persone che ci sono nel film. A seconda della loro natura possono avere voglia o bisogno di essere diretti in maniera differente. Per esempio, in Je ne suis pas morte, all’inizio del film i dialoghi sono scritti ma alla fine del film non lo sono. In generale preferisco non scrivere i dialoghi, o meglio vengono scritti ma trovati sul posto, in scena. Per questo dicevo che questo film conserva le tracce di un cambiamento di metodo. All’inizio di questo film i testi sono scritti, come ne I giorni in cui non esisto e Il dio Saturno, qui tutto era scritto. In Je ne suis pas morte, ci sono attori come Gabriel Matzneff che  mi chiese di non imparare il testo. Mi son detto: molto bene, improvviserà! Mi interessa che ogni persona mi possa dire ciò che gli va o meno. La natura umana della persona, in questo modo, resiste alla volontà del regista e crea delle interpretazioni differenti. Ciò che trovo meraviglioso nel mondo è la sua fondamentale eterogeneità, questa diversità che tutti hanno alla bocca ma che poi, in realtà, non si vede nei film. Quello che mi piace è che i miei film, seppur conservando l’unità, mostrino questo aspetto variopinto, dissonante, dissimile, con attori che recitano, e altri che non recitano. È per questo che mi piace tornare negli stessi luoghi e girare in maniera diversa. La realtà può apparire diversa a partire dallo stesso occhio. È questo che mi dà voglia di girare.

Ho l’impressione che nel tuo modo di fare cinema ci sia quasi un rifiuto dell’effetto speciale alla Méliès3. A parte l’ellissi temporale ne I giorni in cui non esisto dove, in effetti, viene subito alla mente tale effetto, in realtà mi sembra che, affinché ci sia raccordo nell’apparizione e nella sparizione, tu vada sempre a cercare un’inquadratura già filmata per utilizzarla nel raccordo, senza fabbricarla ex novo. 
Non avviene sistematicamente. Diciamo che mi interessa sperimentare come far sparire e riapparire il personaggio nel raccordo senza utilizzare l’effetto Méliès.
Nell’ultima sequenza di Je ne suis pas morte ciò che mi interessava era un raccordo nel movimento tra una scena di giorno e una di notte. Avevamo a disposizione 200 metri di pellicola e abbiamo filmato diverse scene di giorno e di notte e poi in sede di montaggio ci siamo resi conto che una ripresa di giorno si raccordava perfettamente, al millimetro, con una di notte e così abbiamo ottenuto il raccordo perfetto nella continuità pura del gesto, senza effetti speciali.

Quindi tu utilizzi la pellicola come un bloc-notes, come faceva Chaplin… Senza badare a sprechi…
Non ho inventato l’acqua calda! Quello che uso è un metodo impiegato a partire dal cinema muto. Allora il film si creava durante le riprese, questo è vero per Chaplin come per Keaton.  Invece oggi è la sceneggiatura che più di tutto determina il film. Nella sceneggiatura non sono più descritte le inquadrature. Tuttavia non direi che sprechiamo della pellicola, ne abbiamo talmente poca… Anche se è vero che alle volte la si spreca laddove non lo si sarebbe previsto… Come è successo per una delle riprese di Je ne suis pas morte. Si trattava di una scena in cui un medico doveva fare una diagnosi. Ho deciso di chiamare un vero medico e avevo previsto di utilizzare 100 metri di pellicola, e invece se ne è andato quasi tutto lo stock …Pareva la cosa più naturale del mondo ed invece…. Se ci fosse stato un produttore avrebbe detto «stop»… ma io sono voluto arrivare fino alla fine. È stata un po’ una follia.

Quale è il senso dell’ultima inquadratura di I giorni in cui non esisto?
Sapete, per tornare a Buñuel… lui detestava spiegare… È possibile che si abbia un’ idea in testa ma che poi la si dimentichi. Non è una civetteria, veramente. È una necessità del montaggio, dell’inquadratura… che non si riesce sempre a spiegare ma che rientra nella sfera della sensazione o della non sensazione: qualcuno può rimanere anche indifferente. Lo stesso film può essere visto due volte in maniera differente e avere qualcosa di univoco allo stesso tempo…