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“Lo sceneggiatore è un artigiano”, incontro con Noé Debré

Noé Debré, a soli 27 anni, può già vantare una carriera di tutto rispetto. Apprendista, dal 2007, di Thomas Bidegain, sceneggiatore dei film di Jacques Audiard Un Prophète (2009) et De rouille et d’os (2012), ha imparato al suo fianco il mestiere di sceneggiatore.

Nel 2011 inizia un progetto di lungometraggio: La Crème de la crème, realizzato da Kim Chapiron, Sheitan (2005), Dog Pound (2010), e uscito nelle sale francesi il 2 aprile. Il film ha suscitato scalpore e diversi malumori per l’approccio disincantato rispetto alla tematica del mercato sessuale.

Debré ha inoltre collaborato alla scrittura del primo lungometraggio di Anthony Marciano, Les Gamins, con Alain Chabat e Max Boublil, uscito in sala in Francia nella primavera del 2013 e che ha riscosso un grande successo al botteghino, superando il milione e mezzo di entrate.

Collabora tuttora con Thomas Bidegain e Jacques Audiard a diversi progetti di lungometraggio, tra i quali un film noir, e al primo film di Fred Grivois, girato lo scorso dicembre.

Iniziamo dall’inizio. L’idea di diventare sceneggiatore ti è venuta progressivamente o era un progetto di lunga data?
Non so esattamente perché ma volevo essere sceneggiatore fin dagli anni del liceo e mi ricordo che, alla fine delle scuole medie, mi son detto che volevo lavorare nel cinema. Credo di avere una certa affinità con un cinema in cui la scrittura è importante. All’epoca, mi ricordo che i film che mi erano piaciuti di più erano quelli dei fratelli Coen, di Carné-Prévert… dei film dove c’è un vero lavoro di scrittura; d’altronde si trattava di registi che erano nati come sceneggiatori.
Volevi essere sceneggiatore per poi divenire regista?
No, non penso troppo alla regia. Anche se è vero che quando sono arrivato a Parigi a diciott’anni, mi sentivo dire da ogni parte che fare gli sceneggiatori non è un vero mestiere, che si trattava di un’attività del week end e che il vero mestiere era quello di regista. Adesso, dopo nove anni, le cose sono radicalmente cambiate.
Ci sono stati dei progetti che hai proposto tu in quanto sceneggiatore?
È il caso de La crème de la crème, uscito nelle sale francesi il 2 aprile. Ho avuto io l’idea e ne ho sviluppato il trattamento con dei produttori. Con un trattamento di quaranta pagine siamo andati a proporre il film a Kim Chapiron. È stato il produttore, peraltro giovane, Benjamin Elalouf, che ha avuto l’idea che fosse un film adatto ad essere realizzato da Kim perché è un film di giovani che si ambienta in una prestigiosa scuola di commercio. Elalouf ha passato il trattamento all’agente di Kim, che lo ha letto, gli è piaciuto e ha deciso di realizzarlo.
Quali sono state le tappe del tuo percorso di studi per diventare sceneggiatore?
Ho frequentato la scuola di cinema ESEC (École Supériore d’ Études Cinématographiques), che è durata due anni e mi sono specializzato in “produzione”. Mi sono però subito messo a studiare manuali di sceneggiatura, come quello di Robert McKee.
Durante il primo anno è stato difficile, c’era il corso di riprese e io lo detestavo, ero inadatto, mentre quello di produzione mi interessava perché mi son detto che avrebbe avuto un ruolo strategico per la mia carriera: mi avrebbe permesso di capire come funziona l’ambiente del cinema, visto che non conoscevo assolutamente nessuno all’epoca. E poi ho scritto una sceneggiatura applicando le regole di McKee. Ho inviato questo lavoro all’associazione “Equinoxe” per partecipare ad un concorso per la selezione di progetti di lungometraggi. Nel frattempo sono partito per il Québec, in Canada, dove ho fatto un master e ho ottenuto un certificato per la scrittura scenaristica. Tornato in Francia, ho saputo che la sceneggiatura era stata selezionata da “Equinoxe” e che avrei avuto l’opportunità di accedere ad una residenza di scrittura scenaristica animata da professionisti che aiutavano nella riscrittura dei progetti selezionati. È stata un’occasione straordinaria. C’erano parecchi americani, dei grandi nomi, come David Web Peoples, lo sceneggiatore di Blade Runner (1982) e L’esercito delle 12 scimmie (Twelve Monkeys, 1995). Durante un’intera settimana ci hanno fatto progredire nello sviluppo del nostro progetto.
Certo, è stata una esperienza un po’ destabilizzante perché ciascuno di loro aveva il suo metodo, c’erano gli americani con la loro tecnicità hollywoodiana e altri approcci totalmente differenti.
Su cosa verteva la tua sceneggiatura?
Si trattava di qualcosa che assomigliava molto a La crème de la crème, la storia di una truffa, ma in borsa. Era qualcosa con un budget stratosferico, con centinaia di figuranti. All’epoca avevo immaginato la sala della borsa che traboccava di urla, senza sapere che era qualcosa che non esisteva più, visto che oggi tutte le transazioni si svolgono davanti ad un computer. Ma io trovavo quella scena bella, volevo tenerla. I francesi pensavano che fosse un errore insopportabile mentre gli americani se ne infischiavano dicendo che ogni anno escono in sala quattrocento film di spionaggio che non hanno niente a che vedere con quell’attività.
Dopo “Equinoxe” sono tornato a Parigi e ho provato a lavorare su delle serie di animazione. Dopo sei mesi mi sono ritrovato al salone del cinema, anche quello non esiste più… E là c’era una conferenza dove erano stati invitati degli sceneggiatori tra i quali Guillaume Laurant, sceneggiatore de Il favoloso mondo di Amelie (Le Fabuleux Destin d’Amélie Poulain, 2001) ed è stato là che ho incontrato Thomas Bidegain che, all’epoca, lavorava sulla sceneggiatura di Un profeta (Un prophète, 2009).
In quel momento mi dicevo che lo sceneggiatore non è un artista, penso che sia un concetto fraudolento, romantico… Lo sceneggiatore è, prima di tutto, un artigiano.
Attenzione, quella è la porta dell’uscita di emergenza, qualcuno qua dentro potrebbe cominciare a scaldarsi!
Mi son detto, allora, che avevo bisogno di qualcuno che mi formasse. Bidegain teneva la conferenza. Al termine gli ho parlato e lui, che è una persona amabile, mi ha dato la sua mail. Gli ho spedito una mail dicendo che cercavo qualcuno che mi formasse e gli ho mandato la mia sceneggiatura, quella su cui avevo lavorato ad “Equinoxe”. Come tutta risposta mi ha invitato a seguirlo nella scrittura di Un profeta, progetto di una vita. Mi ha messo alla prova su una grande sceneggiatura, ci ho lavorato per sei mesi, dopodiché mi ha presentato a diverse persone.
C’è una continuità, secondo te, tra il ruolo che Audiard ha giocato per lui e quello che lui sta rivestendo per te?
Lo spero! Audiard ha elaborato una concettualizzazione della scrittura cinematografica, nel senso che ha delle teorie, un suo approccio personale e penso che la collaborazione con Thomas Bidegain abbia funzionato bene perché Thomas ha fatto proprie le teorie di Audiard. E io stesso ho tentato di apprendere tale approccio da Bidegain. Alla fine si parla la stessa lingua.
Puoi dirci qualcosa di più su questa lingua comune, così prendiamo appunti?
In sostanza, l’idea è che la sceneggiatura e il film siano la stessa cosa. La sceneggiatura non è raccontare una storia, ma è progettare un film per il cinema, porre tutte le questioni della forma nella scrittura. È da diverso tempo che lavoro alla scrittura di una sceneggiatura con lui e Thomas e la prima vera domanda che ci siamo posti era relativa alla questione del genere cinematografico e a come questo possa essere modernizzato. Ci siamo interrogati, in particolare, sul film d’azione. In un film d’azione, oggi, l’eroe che viene preso a botte non ha più male. Perché ormai al cinema abbiamo visto talmente tanta di quella gente che se le dà che non c’è più transitività tra eroe e pubblico. Allora si comincia a teorizzare ed è in questo momento che si trova la storia.
Pensi che questo procedimento si possa applicare a qualcun altro che non sia Audiard?
Per esempio al film che ho scritto, La crème de la crème. È un teen movie sebbene questo genere non è usuale in Francia. Il che è una novità. Poi ecco, la cosa strana è che, andando bene a vedere, è un pitch tipico di un film di mafia. La crème de la crème è la storia di uno studente della HEC (École des Hautes Études Commerciales de Paris) che crea una rete di escort. Detto questo, abbiamo già in testa il rise and fall, come in Scarface (1983): i tre ragazzi metteranno su questa rete illecita di prostituzione che funzionerà talmente bene che il gruppo o esploderà o verrà assorbito da un elemento esterno. Ci sarà una fuga in avanti e poi un crollo. Infine, da questa esperienza, avranno appreso qualcosa.
Questo è un percorso relativamente classico…
Esattamente. Allora mi sono chiesto come uscire da questo schema. Dopo diverso tempo impiegato a riflettere, mi son detto che in effetti non si trattava di un film di mafia, ma di un film di genere romantico. Quello che mi son chiesto è quale fosse la visione di queste tre persone sull’amore e la sessualità. Di conseguenza la rete di prostituzione sarebbe diventata l’ostacolo alla loro storia d’amore.
Per ricapitolare, uno dei tre protagonisti ha un’idea, ovvero che c’è un mercato sessuale, ma loro si trovano in una posizione di debolezza rispetto a questo mercato: nessuno va a letto con loro e quindi inviano al mercato dei segnali negativi. È la logica del mercato: se tutti credono che un valore abbia un valore, lo si compra e questo valore acquista importanza. L’idea è che se tutte le ragazze incominciano a dirsi che uno è desiderabile, convinceranno tutte le altre di questo. È il personaggio del nerd che ha questa idea. Così i tre ragazzi scommettono su questa idea e la mettono in pratica, scoprendo che funziona incredibilmente bene. A questo punto qualcuno dall’esterno, testimone di tanto successo, interviene e propone di investire su questa idea creando una rete di escort. Questa è la loro visione, una maniera perversa di vedere la relazione tra le persone. Tuttavia, non sarà la morale che li frenerà ma la nascita del sentimento amoroso tra loro. E dunque la macchina che hanno creato diviene il vero ostacolo al loro amore.
Alla fine lo schema che proponi è piuttosto classico: c’è un intrigo principale, cioè la creazione della rete di prostituzione, e l’intrigo secondario amoroso. Voglio dire che uno sceneggiatore sviluppa sempre la sua scrittura nell’ambivalenza di questi due aspetti: da una parte c’è l’urgenza di attenersi ad un genere, diciamo poliziesco, dall’altra quella di sviluppare la personalità e il percorso dei personaggi coerentemente al loro desiderio…
La questione principale della forma è legata all’emozione che vogliamo suscitare nel pubblico. Se faccio un film di mafia so già come andrà a finire e non sarà interessante. Allora mi son detto che il film parlava di cosa è l’amore per queste persone, quindi è un film d’amore ed ha la struttura di un film romantico. Perciò, il vero pericolo non sarà costituito, per esempio, dall’amministazione dell’istituto che li vuole punire, ma dalla compromissione del loro amore.
Dunque, tecnicamente parlando, hai deciso di rinforzare gli aspetti che mettono a confronto il personaggio maschile a quello femminile?
Sì, assolutamente. E questo ha comportato, per esempio, l’eliminazione o la riduzione di scene che riguardavano strettamente le modalità di costituzione della rete di sfruttamento sessuale, a favore del confronto diretto, sul piano sentimentale, dei personaggi.
Tu e Chapiron avete valutato l’ipotesi di far terminare il film in maniera cupa, sinistra, invece che optare per la solita fine, che vuole che i personaggi, dopo il fallimento del progetto, imparino dai loro errori? Non avete contemplato la possibilità di risolvere l’intrigo con una soluzione cinica, con il più cattivo che la scampa mentre coloro che hanno un briciolo di morale vengono schiacciati?
Certo, c’è stata questa tentazione… perché questo pitch in realta distilla un’idea che è presente durante tutti gli anni Novanta e Duemila, e che fa capo a Bret Easton Ellis, ovvero la commedia trash disincantata, film come Déjà mort (1997). C’era la volontà, per affermare la modernità del film, di non fare un film disperato. Ma abbiamo deciso di non cominciare con la solita commedia trash, ma con le “leggi dell’attrazione” per poi sfociare nel vero romanticismo, scelta che si oppone ad una doppia ma complementare possibilità: quella di iniziare con delle persone buone e che poi vengono corrotte dal mondo o con delle persone ciniche che apprendono una certa innocenza.
Puoi ora parlarci delle diverse tappe del tuo progetto?
Non ce ne sono state molte, diciamo che l’idea ce l’avevo da diverso tempo. Ho scritto una sinossi che era un po’ uno sviluppo alla Bret Easton Ellis… diciamo, piuttosto, che era una versione scadente di Ellis, si trattava di una decina di pagine che ho inviato all’assistente del mio agente che l’ha data a tre o quattro produttori: alcune reazioni sono state di indignazione, una produttrice, addirittura, lo ha trovato inqualificabile. E quindi l’agente mi ha detto che non era la miglior sinossi da far passare subito ad un produttore. E allora l’ho messa da parte e due anni dopo, mentre lavoravo su Les gamins (2012)… l’ho riproposta.
Come è nata questa collaborazione con Max Boublil e Anthony Marciano a proposito di Les gamins?
Stavo tentando di scrivere delle battute comiche per Max Boublil ma non ne ero capace anche se l’intesa tra noi era buona. Allora un giorno mi hanno fatto leggere la sceneggiatura e mi hanno chiesto cosa ne pensavo e così è nata una collaborazione su nuove basi: ho dato loro una mano sulla struttura, in quanto consulente. Loro sanno scrivere prevalentemente delle battute di humour, ciò di cui hanno bisogno è qualcuno che indichi loro come proporre una situazione. E allora ho fatto passare la mia sceneggiatura ai produttori perché ho pensato che non sarebbero stati troppo disgustati ed infatti l’hanno adorata. A quel punto sono stato molto aiutato dall’uscita di Social network (2010).
Perché la struttura della storia è simile…
Non proprio, diciamo piuttosto che è la storia di un successo, che si ambienta ad Harvard dove c’è, appunto, “la crème de la crème”, era il contesto ad interessarli. Insomma, hanno acquistato il progetto, ho elaborato un trattamento e poi l’abbiamo proposto a Kim.
Mi piacerebbe tornare su questo punto, sul fatto che il progetto è stato presentato a dei produttori da uno sceneggiatore e solo alla fine è stato proposto ad un regista. Questa è un’anomalia perché molte volte mi è capitato di sentirmi dire che è complicato rifilare un progetto ad un produttore senza che vi sia un regista intenzionato a realizzarlo.
Psicologicamente è complicato, per un produttore, sentirsi dire che non c’è un regista. Vuol dire non sapere quale sarà il film che ne sortirà. Per esempio, proponendolo a Kim, sapevamo che il risultato ottenuto sarebbe stato del genere ‘trash tendenza’ mentre nelle mani di un altro regista, a cui lo abbiamo sottoposto e che peraltro non ha nemmeno letto la sceneggiatura, sarebbe diventato qualcosa sul genere di Risky business (1983).
Kim era disponibile e ci disse che avrebbe fatto il film nell’estate 2013 e ci trovavamo già a novembre del 2012. Abbiamo deciso di fare il film nonostante i tempi fossero stretti e così abbiamo fatto delle riunioni abbastanza intensive con Kim per due settimane consecutive. Ho cominciato subito a prendere note e a scrivere delle parti dialogate e, al termine delle due settimane, avevo i miei eroi. Visto che il trattamento era già elaborato, presentai la versione definitiva in marzo. E il film, come previsto, è stato girato in agosto. È stato un film fatto molto velocemente ma sul quale avevo meditato molto.
Ed è stato un film che ha necessitato di molta documentazione?
Diciamo che l’idea del progetto l’avevo maturata proprio perché avevo molti amici che facevano le Grandes Écoles (istituti di insegnamento superiore ai quali si accede tramite concorso e che offrono una formazione di alto livello n.d.r), mi sono documentato ispirandomi a quello che avviene nei campus.
Nella realtà troviamo delle cose molto più interessanti rispetto a ciò che si è immaginato. Per esempio, una persona che studiava alla scuola di commercio e che lavorava nel cinema, mi ha detto che lì le persone portano delle polo di colore differente, a seconda dell’associazione cui appartengono. Quindi se fate parte dell’associazione delle ‘star’, portate certi colori, se fate parte dello Yacht Club, ne porterete un altro: cinematograficamente parlando è geniale! Se lo avessi inventato io sarebbe stato uno scandalo!
Qual è il significato del titolo? Perché il film uscirà nelle sale il prossimo aprile quando, in realtà, era già pronto ad ottobre scorso? Eppoi come avete fatto a documentarvi senza aver fatto una scuola di commercio?
Volevamo che il titolo del film si potesse tradurre in francese e in inglese. In secondo luogo nel titolo c’è una connotazione erotica, eppoi, evidentemente, è un’espressione che significa “i migliori”. Quelli che entrano alla HEC sono i migliori, quelli che, al liceo, erano i primi della classe. Sono persone che non hanno mai avuto delle delusioni, in termini scolastici almeno…
Per quanto riguarda la data di uscita nelle sale, è stata posticipata per diverse ragioni. Il film era pronto nel periodo della ripresa delle scuole perciò il distributore ha preferito fare un po’ di promozione; quindi la data è slittata a novembre ma in questo periodo era prevista l’uscita di film con cui non potevamo competere, soprattutto a livello di cast. L’intenzione del distributore era quella di fare una grande uscita per un film con un cast di attori sconosciuti. Perciò la data è slittata in aprile, in concomitanza con l’inizio delle vacanze pasquali. Questo doveva consentire di fare ulteriore promozione dopo le vacanze natalizie: organizzare concerti, distribuire gadgets…
Per quanto riguarda l’ultima domanda, sottolineo che non si tratta di un film sulle scuole di commercio; queste ne costituiscono solo lo sfondo, l’importante è che vi sia una certa verosimiglianza. Lo stesso discorso è valido per un film su un agente segreto; la verità è che la vita che conduce questa gente non è molto appassionante visto che trascorrono la maggior parte del tempo a leggere dei documenti. Malgrado ciò, gli studenti della scuola di commercio che hanno letto la sceneggiatura di La crème de la crème, l’hanno trovata molto realistica. Ciò che è importante è che la gente si identifichi coi personaggi e non che gli esami siano in febbraio piuttosto che in giugno.
Puoi descrivere i personaggi principali del film?
Ci sono tre personaggi principali che corrispondono agli archetipi che ritroviamo nei teen movies americani: uno dei ragazzi viene da Versaille (il cliché del “Versaillais” definisce qualcuno che proviene dalla media borghesia cattolica e conservatorista n.d.r.), e corrisponde al quarterback dei film americani, dunque brillante e rubacuori, l’altro è il nerd parigino di famiglia benestante, mentre il terzo elemento è rappresentato dalla ragazza che ha avuto accesso alla prestigiosa scuola di commercio per merito, viene dal ceto popolare e incarna l’archetipo del freak, il disadattato.
È stato difficile trasporre questi archetipi americani nel contesto francese?
In realtà non li abbiamo trasposti. Me ne sono accorto dopo e mi sono reso conto che questa identificazione aveva il vantaggio di farci fare un po’ di economia sul piano della caratterizzazione dei personaggi perché la gente conosce già questi archetipi.
Hai tentato di andare oltre all’archetipo, al cliché?
C’è una cosa che Thomas Bidegain mi ripete spesso e che devo cercare di tenere bene in mente: le cose non sono mai come ci appaiono. Bisogna partire con la formulazione di un giudizio sul personaggio per poi farlo cambiare.
Puoi approfondire la questione della contaminazione dei generi?
È una maniera di riflettere che è divertente. La crème de la crème è un film romantico travestito da film di mafia. Quello che è interessante è ciò che è inatteso: si fa credere che si parla di una storia ed invece poi se ne racconta un’altra. È molto utile ed efficace.
Però è rischioso fare un film dove i generi si contaminano per la difficoltà di collocarlo in termini di marketing…
Certo. Infatti La crème de la crème è venduto come un film di mafia anche se non lo è! Tuttavia è importante far passare un messaggio, fare una promessa.
Eri presente durante le riprese del film?
Per La crème de la crème ero praticamente sempre presente perché era girato con attori debuttanti, inesperti, che hanno molto ego… Io stavo davanti al monitor combo e davo una mano a Kim per controllare la recitazione e poi discutevamo delle riprese.
Recentemente ho scritto un film assieme a Thomas ma la mia presenza non è necessaria sul set perché si tratta di attori professionisti.
Attualmente sto lavorando ad un film con Jacques Audiard: ciò che faccio è molto speciale perché devo guardare il girato proiettandomi nel film in divenire. Poiché il cinema è, prima di tutto, un esercizio di interpretazione, capita spesso che gli attori leggano e interpretino la storia che gli si propone in maniera differente da quella auspicata. Allora il mio compito è quello di tentare di rimediare a questo problema proponendo delle modifiche nelle scene che non sono ancora state girate o, addirittura, di scrivere delle nuove scene per ristabilire una certa coerenza e armonia con il giusto spirito della storia.