Ha 32 anni, è sardo. Ha le idee chiare, il carisma e la stoffa di un vero meneur du jeu. La sua scuola è il cinema : Scorsese, Fellini, Leone, Cassavetes, Chaplin sono i modelli che ha fatto suoi, non in maniera superficiale e ossequiosamente debitoria, ma assimilandoli perfettamente e instaurando una filiazione ideale coi Maestri.
Quel che è certo è che questo fuoriclasse che si chiama Bonifacio Angius farà molta strada.
Il suo primo lungometraggio, Perfidia, selezionato al festival del film di Locarno, non ci consegna solamente un desolante e verace spaccato di provincia sassarese, ma anche un ritratto potente della relazione padre/figlio, della desolazione di un’intera generazione (quella dei trentenni italiani) spazzata via dalla storia, e della progressiva perdita di riferimenti istituzionali e spirituali nella vita del singolo.
Alla morte della madre, il trentacinquenne Angelino si ritrova tutto solo col padre Peppino. Quest’ultimo sembra accorgersi, forse troppo tardi, dello stato di assoluta catatonia in cui è immerso il figlio. Si adopera allora per trovargli un lavoro coi soli mezzucci di cui dispone, rivolgendosi a qualche vecchia conoscenza o affidandosi al favoritismo clientelare.
Ma Angelino non è fatto per lavorare, è un emarginato, un ‘alieno’ o, come lo definisce lo stesso Angius, “un personaggio buttato nel mondo, che non capisce e non viene capito”. Angelino parla a monosillabi, nel suo sguardo si coglie, di volta in volta, lo stupore di un bambino, la gravità del profeta, l’imperturbabilità dello stoico.
L’atmosfera cupa, desolante che aleggia nel film ed è mutuata da una prodigiosa luce metallica, viene stemperata dalle gags dei due compagni di ventura (che non cadono mai nel bozzettismo), dalla loro becera ignoranza, dalle azioni maldestre e goffe di Angelino e dalla sfortuna che lo perseguita. Il film non è giocato, cioè, sul tasto monoemozionale di una tristezza disperante ma è felicemente contrappuntato da schegge di tragicomicità che obbligano le labbra dello spettatore ad incresparsi in un sorriso ironico.
Si esperisce così, in questo film, l’esperienza del male come perversione: Perfidia ci dice (nel discorso del catechista alla radio che attraversa in filigrana tutto il film) che il Diavolo esiste, è dappertutto e ha un ghigno, si beffa di noi e mescola volentieri le carte, insinuando il Male laddove pensavamo ci fosse del Bene.
In questo film, dove ogni inquadratura è meditata, giusta e ottenuta attraverso un lavoro di sottrazione, anche quando indugia in una sorta di rêverie felliniana, il racconto dei singoli casi umani è talmente potente ed evocativa che attinge ad uno spessore universale.
Il cast del film è misto, formato da non attori, attori di teatro e semiprofessionisti, capeggiati dallo straordinario Stefano Deffenu (“la prima era quasi sempre buona”) e dal pregevolissimo Mario Olivieri.
Bonifacio Angius è prolifico, sta già lavorando alla sceneggiatura di un altro film, una storia d’amore tra tre reietti della società: lui è violento, pieno d’amore ed alcolizzato, lei è stralunata, internata in un ospedale psichiatrico ed è perseguitata dall’idea che qualcuno le abbia rapito il proprio figlio, una sorta di ‘pinocchietto’ costretto in un centro di accoglienza per minori. È con impazienza che attendiamo di vedere la storia di questi tre outsiders sul grande schermo.
Anche Stefano Deffenu lavora dietro la cinepresa e sta attualmente preparando un documentario a partire da alcune riprese che ha fatto in India e il cui soggetto è un gruppo di bambini indiani.