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Francis Ford Coppola, The Rain People (1969)
Un genere di posto che non potrebbe mai essere ricostruito negli studios hollywoodiani ma è come un objet trouvé, un tesoro prezioso, espressione della più verace cultura popolare americana, scovato da Coppola e dalla sua troupe che, per cinque mesi, girò il film on the road, in esterni, trasferendosi su un camioncino attraverso mezza America, dallo stato di New York al Wyoming, sotto l’egida del progetto rivoluzionario dell’American Zoetrope, che portava con sé «l’ideologia antihollywoodiana – sia dal punto di vista del modo di produzione sia da quello della “poetica”» e attraverso il quale esplodeva «l’Europa e il mito del regista consacrato alla critica alta» e si ribadiva «la ‘ribellione’ allo star system» (2).
Alain Resnais, Je t’aime je t’aime (1968)
Alain Resnais, Providence (1978)
Jim Jarmusch, Int. Trailer. Night (2002)
Jim Jarmusch, Year of the Horse (1997)
Locarno 2014, Pardo d’oro a Lav Diaz per From what is before
Pardo d’oro 2014 a Lav Diaz per il suo From what is before. Il festival del film di Locarno dà prova di grande apertura mentale, comprovata dall’aggiudicazione del massimo riconoscimento al regista filippino e alla sua monumentale opera di 338 minuti, quasi sfidando, di rimpallo, il festival di Cannes che, nella sua scorsa edizione, ha onorato della Palma d’oro Winter sleep, del turco Nuri Bilge Ceylan, di ‘soli’ 198 minuti. Un film lunghissimo, dunque, che assurge a stendardo di un festival che non fa concessioni a nessuno e che, a ogni nuova edizione, non perde occasione per dichiarare il suo incondizionato amore per il cinema o, meglio, il “film”, nastro fatto di immagini e suoni, velo di Maya che ci regala, a seconda dei casi, consolatorie, giubilatorie piuttosto che salvifiche esperienze estetiche.
Ponendosi in marcato dissenso (o assoluto disinteresse) con il cinema mainstream e le sue logiche di mercato, From what is before è un’opera che, per la sua lunghezza e lentezza, mutuate dall’assenza di movimento della macchina da presa, cristallizzata in silenti piani fissi, invita ad un’ esperienza estetica che si sgancia da una fruizione di tipo spettacolare, rappresentazionale e quindi, di per sé, mistificante ma va oltre, facendo coincidere il tempo della visione con quello della vita. Lo spettatore è libero (anche, letteralmente, di lasciare la sala) di impregnarsi di immagini e suoni, che investono qualcosa che è dell’ordine della sensazione piuttosto che dell’emozione. Una volta compiuto questo atto di fede, anche la nozione di tempo diviene relativa, perché non più esperito linearmente come concatenazione di causa ed effetto ma il suo trascorrere è funzionale ad un’intensificazione delle sensazioni.
Ciò che ci consegna, innanzitutto, From what is before, è il racconto del legame fusionale dell’uomo con la natura sottolineato da un magnifico bianco e nero in cui corpi umani e natura si compenetrano, bagnati, come sono, della stessa luce. Tale rapporto con la natura viene di volta in volta investito di sacralità (i canti tribali che inneggiano alla divinità della pioggia, Itang offerente di fronte al mare in burrasca) e di oscuro fatalismo (alcune capanne bruciano nella notte mentre il bestiame viene decimato per un’epidemia batterica). La comunione con la natura è sigillata nei lunghi piani fissi in cui l’uomo attraversa spazi sterminati o si rintana tra le frasche per ripararsi dal temporale in un silenzio estatico rotto solo dal ticchettio della pioggia.
Le Filippine, battute dai monsoni, da uragani, tifoni e, alternativamente, soggette a siccità o a piovisità prolungate e intense, diventano il luogo privilegiato della lotta dell’uomo con la natura.
Una natura che è spesso matrigna, imperscrutabile e che, alle volte, genera creature bizzarre, come l’indifesa Joselina, venere senza discernimento e mostro taumaturgo. Itang si prende cura, sacrificando tutta sé stessa, della sorella affetta da autismo. La consapevolezza di questa disgrazia e del destino crudele che l’attende, spingono Itang ad affidarsi ad una religione meticcia: la più intensa sequenza del film è forse quella in cui Itang si reca alla scogliera e, allargando le braccia al cielo, prega, di fronte al mare in burrasca, una Vergine ‘indigena’, alla quale fa un’offerta votiva per propiziare una miracolosa guarigione della sorella. Attraverso questo brano di sublime poesia Lav Diaz ci parla non solo della struggente tensione dell’uomo verso il trascendente ma anche del popolo filippino, un variegato di etnie in cui la cultura e confessione cristiane, importate dai conquistatori Spagnoli a partire dal Seicento, si sono ibridate a rituali tribali e superstizioni arcaiche.
Secondo le parole del regista, From what is before “si basa sulle mie memorie di infanzia, due anni prima che la Legge Marziale venisse dichiarata nelle Filippine. Fu l’avvento del periodo buio della nostra storia, fu catastrofico. Ogni cosa nel film proviene dalla mia memoria, tutti i personaggi sono veramente esistiti, ne ho solo cambiato i nomi”. Alla luce di questa dichiarazione, il soggetto principe del film dovrebbe essere la devastazione del villaggio filippino ad opera delle milizie di Marcos. In realtà, a parte l’ultimissima parte in cui una brigata di spietati boia cacciano con violenza dal villaggio gli ultimi resistenti, l’intervento dei soldati stanziali è piuttosto sporadico e, apparentemente, non troppo invasivo, lasciando che i destini dei singoli personaggi si compino autonomamente e indipendentemente dalla presenza dei miliziani. Per questo l’impressione è che ci sia uno scollamento tra i due assi narrativi, come se si trattasse di due galassie distinte che si sfiorano per caso, senza alcun rapporto di necessità, ma che confluiscono verso lo stesso scenario finale: la dissoluzione del villaggio.
D’altra parte, queste due macrostorie appartengono a ‘tempi’ diversi. Gli abitanti del bario filippino e i fatti che li riguardano sono investiti di un’aura sacra e agiscono in una dimensione mitica: Tony, il commerciante di vini, abusa di Joselina, definita ‘kapre’ (demone), dalle malevoci diffuse da Heding. Questo atto di profanazione segnerà il destino del villaggio conducendo tutti gli abitanti a macchiarsi di una colpa: l’oltraggio subito da Joselina menerà Itang all’omicidio della sorella e poi al suicidio; padre Guido, la guida spirituale del villaggio, mente sull’accaduto per ‘salvare’ la memoria delle due sorelle; Sito sopprime Tony dopo la delazione del piccolo Hacob.
L’altro asse narrativo, che costituisce un fatto storico, è rappresentato dall’ arrivo nel villaggio delle truppe di Marcos ed è formato dalla relazione triangolare di tre attori: l’insieme degli abitanti del villaggio ostili all’accampamento dei soldati, la spia infiltrata Heding e il general Perdido, due ‘emanazioni’ di Marcos. Secondo questo altro punto di vista la causa della fine della comunità è l’insofferenza e la paura degli abitanti che, uno dopo l’altro, abbandonano il villaggio lasciando il campo al dittatore.
La difficoltà o il mistero del film risiede nella convivenza della dimensione sospesa del mito, interpellante il sacro e l’umano, e della contingenza storica, ricostruita attraverso alcuni brani non sempre adeguati al tono tutto sommato lirico del film e, talvolta, scadenti nel grottesco. Si pensi all’incontro tra Heding, deposta dopo due anni dal suo incarico di agente segreto infiltrato nel villaggio per sondarne gli umori verso il regime, e il general Perdido: i due brindano all’avanzata delle truppe, burlandosi malignamente degli abitanti del villaggio.
L’impressione è che queste due istanze, invece di rafforzarsi l’un l’altra, rischino di far scivolare il film verso una deriva o confusione di significato che non gli giova.
A meno che si voglia leggere la vittoria delle truppe di Marcos e, dunque, della sua sanguinosa dittatura, attraverso lo specchio dell’ irriducibile isolamento esistenziale dei personaggi. Perché se l’impressione iniziale è quello di un corpo sociale coeso da riti e credenze comuni, di un villaggio di uomini e donne legati da genuini affetti familiari o di vicinato, che praticano prioritariamente il baratto senza che il denaro ne abbia deteriorato i rapporti, in realtà il film è una costellazione di solitudini e miserie private : l’alienazione mentale di Joselina è per Itang un calvario familiare cui non si può sottrarre ; Sito intrattiene con il figlio adottivo Hacob, che progetta segretamente di lasciare il villaggio per ricongiungersi coi genitori naturali, una relazione parentale basata sulla menzogna ; Tony è l’impunito profanatore di altari sacri e il violentatore di Joselina ; il maturo scrittore che torna nel villaggio natio dopo un lungo peregrinare, è ormai estraneo alla comunità e forse più devoto al passato, a trascriverne le memorie e a sigillare la fine di un’epoca.
Locarno 2014: “Perfidia” di Bonifacio Angius
Ha 32 anni, è sardo. Ha le idee chiare, il carisma e la stoffa di un vero meneur du jeu. La sua scuola è il cinema : Scorsese, Fellini, Leone, Cassavetes, Chaplin sono i modelli che ha fatto suoi, non in maniera superficiale e ossequiosamente debitoria, ma assimilandoli perfettamente e instaurando una filiazione ideale coi Maestri.
Quel che è certo è che questo fuoriclasse che si chiama Bonifacio Angius farà molta strada.
Il suo primo lungometraggio, Perfidia, selezionato al festival del film di Locarno, non ci consegna solamente un desolante e verace spaccato di provincia sassarese, ma anche un ritratto potente della relazione padre/figlio, della desolazione di un’intera generazione (quella dei trentenni italiani) spazzata via dalla storia, e della progressiva perdita di riferimenti istituzionali e spirituali nella vita del singolo.
Alla morte della madre, il trentacinquenne Angelino si ritrova tutto solo col padre Peppino. Quest’ultimo sembra accorgersi, forse troppo tardi, dello stato di assoluta catatonia in cui è immerso il figlio. Si adopera allora per trovargli un lavoro coi soli mezzucci di cui dispone, rivolgendosi a qualche vecchia conoscenza o affidandosi al favoritismo clientelare.
Ma Angelino non è fatto per lavorare, è un emarginato, un ‘alieno’ o, come lo definisce lo stesso Angius, “un personaggio buttato nel mondo, che non capisce e non viene capito”. Angelino parla a monosillabi, nel suo sguardo si coglie, di volta in volta, lo stupore di un bambino, la gravità del profeta, l’imperturbabilità dello stoico.
L’atmosfera cupa, desolante che aleggia nel film ed è mutuata da una prodigiosa luce metallica, viene stemperata dalle gags dei due compagni di ventura (che non cadono mai nel bozzettismo), dalla loro becera ignoranza, dalle azioni maldestre e goffe di Angelino e dalla sfortuna che lo perseguita. Il film non è giocato, cioè, sul tasto monoemozionale di una tristezza disperante ma è felicemente contrappuntato da schegge di tragicomicità che obbligano le labbra dello spettatore ad incresparsi in un sorriso ironico.
Si esperisce così, in questo film, l’esperienza del male come perversione: Perfidia ci dice (nel discorso del catechista alla radio che attraversa in filigrana tutto il film) che il Diavolo esiste, è dappertutto e ha un ghigno, si beffa di noi e mescola volentieri le carte, insinuando il Male laddove pensavamo ci fosse del Bene.
In questo film, dove ogni inquadratura è meditata, giusta e ottenuta attraverso un lavoro di sottrazione, anche quando indugia in una sorta di rêverie felliniana, il racconto dei singoli casi umani è talmente potente ed evocativa che attinge ad uno spessore universale.
Il cast del film è misto, formato da non attori, attori di teatro e semiprofessionisti, capeggiati dallo straordinario Stefano Deffenu (“la prima era quasi sempre buona”) e dal pregevolissimo Mario Olivieri.
Bonifacio Angius è prolifico, sta già lavorando alla sceneggiatura di un altro film, una storia d’amore tra tre reietti della società: lui è violento, pieno d’amore ed alcolizzato, lei è stralunata, internata in un ospedale psichiatrico ed è perseguitata dall’idea che qualcuno le abbia rapito il proprio figlio, una sorta di ‘pinocchietto’ costretto in un centro di accoglienza per minori. È con impazienza che attendiamo di vedere la storia di questi tre outsiders sul grande schermo.
Anche Stefano Deffenu lavora dietro la cinepresa e sta attualmente preparando un documentario a partire da alcune riprese che ha fatto in India e il cui soggetto è un gruppo di bambini indiani.
Locarno 2014: le erranze di Un jeune poète
Il festival del film di Locarno riserva, come al solito, nella sezione « Cineasti del presente », delle belle sorprese. È il caso del piccolo gioiello di rohmeriana memoria Un jeune poète di Damien Manivel.
Il film del giovane cineasta francese racconta, in una cinquantina di scene, le erranze del flaneur e poeta diciottenne Rémi Taffanel nella cittadina marittima di Sète con rare freschezza e levità.
Rémi ricerca, insegue, provoca l’ispirazione : lo cogliamo in biblioteca mentre punta a caso il dito nel dizionario per trovare la parola d’oro che gli evochi nuovi orizzonti immaginativi ; si immerge in mare per domandare l’arcano ad un polpo di passaggio ; interroga i passanti o si attarda con gli avventori di un bar ; nomina le farfalle e gli oggetti del mondo con lo sguardo primigenio di un fanciullino pascoliano ; Rémi sogna, si innamora, si strugge per una cocente delusione amorosa e, allora, si rifugia nell’alcol o va a meditare, romantico giovane Foscolo, sulla ‘tomba del poeta’.
Questo piccolo capolavoro è stato girato in fretta e furia l’estate scorsa. Un mese prima delle riprese Manivel ha scritto una cinquantina di ‘situazioni’ eppoi, arrivato sul posto, ha lasciato che il caso e l’improvvisazione prendessero il sopravvento. E ciò nonostante, il film è di un rigore impressionante. Costruito alternativamente su piani fissi (alcuni dei quali sprigionano un magnetismo alla Kaurismaki) e sui piani sequenza, risponde alle necessità imposte dal film, e nella fattispecie, « al soggetto del film, Rémi, alla sua gestualità e a quel poco di denaro di cui disponevamo ».
Autoprodotto con un budjet ridotto all’osso e una équipe formata da quattro persone (tutti compresi) questa piccola meraviglia è nata grazie ad una videocamera, una pertica, dei microfoni cravatta e la luce di una calda estate mediterranea.
Manivel può vantare un indubbio talento, confortato da un occhio coltivato (ha frequentato il Fresnoy, istituto dedicato alla crezione artistica audiovisiva) e rivolto verso l’Oriente, in particolare ai cineasti taiwanesi Tsai Ming Lian e Hou Hsiao Hsien, o al cinema americano underground del primo Jim Jarmusch: Manivel dice di essersi ispirato a Permanent Vacation , non tanto sul piano artistico ma relativamente al procedimento adottato: «volevo fare un piccolo film modesto, dove non succedono tante cose ma che, tuttavia, rimangono bene in testa».
Locarno 2014, “Sils Maria”: un formidabile trio al femminile
Il film di Olivier Assayas, presentato nella scorsa edizione del festival di Cannes e a Locarno per il premio Excellence award Moet & Chandon a Juliette Binoche, è stato qualificato dalla critica come, tutto sommato, un “buon film”. Nonostante la tiepida accoglienza che gli è stata riservata, non si può non ammirarlo per la grande intelligenza con cui è stato concepito e confezionato e per il sorprendente trio al femminile formato da Juliette Binoche, Kristen Stewart e Chloë Grace Moretz.
Il soggetto del film è stato suggerito ad Assayas dalla stessa Juliette Binoche e mette in scena la crisi di identità, sia sul piano esistenziale che professionale, di un’attrice quarantenne, Maria Enders, interpretata dalla stessa Binoche che, all’apice del proprio successo, si trova a dover fare i conti con l’età e le giovani leve dello star system hollywoodiano. L’istanza diegetica trova riscontro ideale nella scelta del cast: da una parte troviamo un’acclamata attrice francese, la Binoche, quintessenza del cinema d’autore europeo (premiata a Cannes, Venezia e Berlino, è passata davanti la cinepresa di registi del calibro di Godard, Kieslowski, Haneke, Dumont), dall’altra le due attrici statunitensi Kristen Stewart, portata alla ribalta per la sua interpretazione nella saga Twilight, e Chloë Grace Moretz, nel film l’antieroina Jo-Ann Ellis, che soffierà subdolamente alla Enders/Binoche il ruolo di vedette nella pièce teatrale Maloja Snake, decretando così l’ineluttabile declino della rivale. Quest’ultimo personaggio, interpretato dalla Moretz, è verosimilmente ispirato alla vita e alla carriera della giovane attrice americana, vero e proprio camaleonte artistico e mediatico: si è destreggiata nei ruoli e nei generi più diversi, passando dai film horror e di supereroi alle serie tv fino alle vette del cinema di Scorsese e Tim Burton, sempre, ben inteso, posando per la press people internazionale, in uno spasmodico quanto strategico desiderio di fagocitare lo spazio mediatico.
Ed è proprio questo uno dei tasti su cui preme, in maniera convincente, il film di Olivier Assayas: la carta del successo si gioca sul piano della popolarità mediatica, anche di bassa lega. Memorabile è la sequenza in cui le due attrici comprimarie e il regista della pièce si incontrano per un confronto professionale che, infine, non avrà luogo perché vanificato dall’emergenza dello scandalo amoroso originato dalla relazione segreta tra Jo-Ann e il suo amante: un’orda di paparazzi sorprende la giovane coppia clandestina, mentre Maria assiste alla scena ignorata da tutti e all’ombra del successo suscitato dalla sua rivale.
Ciò che interessa al pubblico è la notizia shock, ad effetto, la rivelazione di relazioni intime illegittime o poco ortodosse. Ed è così che Assayas asseconda il nostro desiderio, per poi sconfessarlo, attraverso un trailer che costituisce un intelligentissimo contrappunto al film. Nel trailer vengono suggeriti una relazione omosessuale tra la matura Maria Enders e la giovane assistente Valentine (“Ciò che ti tiene sveglia la notte è il desiderio per me”) e un atteggiamento sfrontato quanto ostile da parte di Jo-Ann nei confronti di Maria (“Te ne vai come se io non esistessi”, “E allora?”). In realtà ci si accorge, vedendo il film, del travisamento della realtà: le battute pronunciate da Maria e Valentine sono quelle del copione di Maloja Snake mentre, nel secondo caso, la risposta arrogante di Jo-Ann a Maria è di natura professionale e non personale.
Assayas ci invita a squarciare il velo delle apparenze e a decomporre la ‘fiction’ confezionata nel trailer, per scoprire la realtà e complessità delle relazioni umane in un progetto che lui stesso ha definito come “un documentario in forma di fiction”. Ciò che avviene nelle coulisses del mondo dello spettacolo sarà allora più banale di ciò che il trailer dava ad intendere ma, non per questo, meno drammatico e crudele. Secondo questa nuova prospettiva, la porta che si schiude sulle natiche di Valentine dormiente non traduce il desiderio sessuale di Maria ma l’infrazione dell’intimità di una giovane assistente defraudata della propria vita privata per assistere, sostenere e compiacere l’ego di una celebrità, servendo, alternativamente, da confidente e capro espiatorio, fino al crudele epilogo: Valentine sparisce e viene sostituita da una nuova assistente. Non diversamente, Jo-Ann non è la ragazzina ribelle e apparentemente immatura che Maria scopre in rete o in tv, ma una scaltra ‘trasformista’ in grado di interpretare nell’arte come nella vita i ruoli più diversi alternando, a suo vantaggio, sfrontatezza, audacia e aplomb politicamente corretto.
Insomma, un film che merita plausi per la sorprendente interpretazione del trio femminile e la sua capacità di sedurre il pubblico in maniera sapiente, lenta ma efficace come quelle nuvole di Sils Maria che, come un serpente, si avviluppano attorno alle montagne svizzere e si impadroniscono del paesaggio fino a cancellarlo.
Il film uscirà nelle sale francesi il 20 agosto e sarà distribuito in Italia dalla Good Films in date ancora da definire.