Pardo d’oro 2014 a Lav Diaz per il suo From what is before. Il festival del film di Locarno dà prova di grande apertura mentale, comprovata dall’aggiudicazione del massimo riconoscimento al regista filippino e alla sua monumentale opera di 338 minuti, quasi sfidando, di rimpallo, il festival di Cannes che, nella sua scorsa edizione, ha onorato della Palma d’oro Winter sleep, del turco Nuri Bilge Ceylan, di ‘soli’ 198 minuti. Un film lunghissimo, dunque, che assurge a stendardo di un festival che non fa concessioni a nessuno e che, a ogni nuova edizione, non perde occasione per dichiarare il suo incondizionato amore per il cinema o, meglio, il “film”, nastro fatto di immagini e suoni, velo di Maya che ci regala, a seconda dei casi, consolatorie, giubilatorie piuttosto che salvifiche esperienze estetiche.
Ponendosi in marcato dissenso (o assoluto disinteresse) con il cinema mainstream e le sue logiche di mercato, From what is before è un’opera che, per la sua lunghezza e lentezza, mutuate dall’assenza di movimento della macchina da presa, cristallizzata in silenti piani fissi, invita ad un’ esperienza estetica che si sgancia da una fruizione di tipo spettacolare, rappresentazionale e quindi, di per sé, mistificante ma va oltre, facendo coincidere il tempo della visione con quello della vita. Lo spettatore è libero (anche, letteralmente, di lasciare la sala) di impregnarsi di immagini e suoni, che investono qualcosa che è dell’ordine della sensazione piuttosto che dell’emozione. Una volta compiuto questo atto di fede, anche la nozione di tempo diviene relativa, perché non più esperito linearmente come concatenazione di causa ed effetto ma il suo trascorrere è funzionale ad un’intensificazione delle sensazioni.
Ciò che ci consegna, innanzitutto, From what is before, è il racconto del legame fusionale dell’uomo con la natura sottolineato da un magnifico bianco e nero in cui corpi umani e natura si compenetrano, bagnati, come sono, della stessa luce. Tale rapporto con la natura viene di volta in volta investito di sacralità (i canti tribali che inneggiano alla divinità della pioggia, Itang offerente di fronte al mare in burrasca) e di oscuro fatalismo (alcune capanne bruciano nella notte mentre il bestiame viene decimato per un’epidemia batterica). La comunione con la natura è sigillata nei lunghi piani fissi in cui l’uomo attraversa spazi sterminati o si rintana tra le frasche per ripararsi dal temporale in un silenzio estatico rotto solo dal ticchettio della pioggia.
Le Filippine, battute dai monsoni, da uragani, tifoni e, alternativamente, soggette a siccità o a piovisità prolungate e intense, diventano il luogo privilegiato della lotta dell’uomo con la natura.
Una natura che è spesso matrigna, imperscrutabile e che, alle volte, genera creature bizzarre, come l’indifesa Joselina, venere senza discernimento e mostro taumaturgo. Itang si prende cura, sacrificando tutta sé stessa, della sorella affetta da autismo. La consapevolezza di questa disgrazia e del destino crudele che l’attende, spingono Itang ad affidarsi ad una religione meticcia: la più intensa sequenza del film è forse quella in cui Itang si reca alla scogliera e, allargando le braccia al cielo, prega, di fronte al mare in burrasca, una Vergine ‘indigena’, alla quale fa un’offerta votiva per propiziare una miracolosa guarigione della sorella. Attraverso questo brano di sublime poesia Lav Diaz ci parla non solo della struggente tensione dell’uomo verso il trascendente ma anche del popolo filippino, un variegato di etnie in cui la cultura e confessione cristiane, importate dai conquistatori Spagnoli a partire dal Seicento, si sono ibridate a rituali tribali e superstizioni arcaiche.
Secondo le parole del regista, From what is before “si basa sulle mie memorie di infanzia, due anni prima che la Legge Marziale venisse dichiarata nelle Filippine. Fu l’avvento del periodo buio della nostra storia, fu catastrofico. Ogni cosa nel film proviene dalla mia memoria, tutti i personaggi sono veramente esistiti, ne ho solo cambiato i nomi”. Alla luce di questa dichiarazione, il soggetto principe del film dovrebbe essere la devastazione del villaggio filippino ad opera delle milizie di Marcos. In realtà, a parte l’ultimissima parte in cui una brigata di spietati boia cacciano con violenza dal villaggio gli ultimi resistenti, l’intervento dei soldati stanziali è piuttosto sporadico e, apparentemente, non troppo invasivo, lasciando che i destini dei singoli personaggi si compino autonomamente e indipendentemente dalla presenza dei miliziani. Per questo l’impressione è che ci sia uno scollamento tra i due assi narrativi, come se si trattasse di due galassie distinte che si sfiorano per caso, senza alcun rapporto di necessità, ma che confluiscono verso lo stesso scenario finale: la dissoluzione del villaggio.
D’altra parte, queste due macrostorie appartengono a ‘tempi’ diversi. Gli abitanti del bario filippino e i fatti che li riguardano sono investiti di un’aura sacra e agiscono in una dimensione mitica: Tony, il commerciante di vini, abusa di Joselina, definita ‘kapre’ (demone), dalle malevoci diffuse da Heding. Questo atto di profanazione segnerà il destino del villaggio conducendo tutti gli abitanti a macchiarsi di una colpa: l’oltraggio subito da Joselina menerà Itang all’omicidio della sorella e poi al suicidio; padre Guido, la guida spirituale del villaggio, mente sull’accaduto per ‘salvare’ la memoria delle due sorelle; Sito sopprime Tony dopo la delazione del piccolo Hacob.
L’altro asse narrativo, che costituisce un fatto storico, è rappresentato dall’ arrivo nel villaggio delle truppe di Marcos ed è formato dalla relazione triangolare di tre attori: l’insieme degli abitanti del villaggio ostili all’accampamento dei soldati, la spia infiltrata Heding e il general Perdido, due ‘emanazioni’ di Marcos. Secondo questo altro punto di vista la causa della fine della comunità è l’insofferenza e la paura degli abitanti che, uno dopo l’altro, abbandonano il villaggio lasciando il campo al dittatore.
La difficoltà o il mistero del film risiede nella convivenza della dimensione sospesa del mito, interpellante il sacro e l’umano, e della contingenza storica, ricostruita attraverso alcuni brani non sempre adeguati al tono tutto sommato lirico del film e, talvolta, scadenti nel grottesco. Si pensi all’incontro tra Heding, deposta dopo due anni dal suo incarico di agente segreto infiltrato nel villaggio per sondarne gli umori verso il regime, e il general Perdido: i due brindano all’avanzata delle truppe, burlandosi malignamente degli abitanti del villaggio.
L’impressione è che queste due istanze, invece di rafforzarsi l’un l’altra, rischino di far scivolare il film verso una deriva o confusione di significato che non gli giova.
A meno che si voglia leggere la vittoria delle truppe di Marcos e, dunque, della sua sanguinosa dittatura, attraverso lo specchio dell’ irriducibile isolamento esistenziale dei personaggi. Perché se l’impressione iniziale è quello di un corpo sociale coeso da riti e credenze comuni, di un villaggio di uomini e donne legati da genuini affetti familiari o di vicinato, che praticano prioritariamente il baratto senza che il denaro ne abbia deteriorato i rapporti, in realtà il film è una costellazione di solitudini e miserie private : l’alienazione mentale di Joselina è per Itang un calvario familiare cui non si può sottrarre ; Sito intrattiene con il figlio adottivo Hacob, che progetta segretamente di lasciare il villaggio per ricongiungersi coi genitori naturali, una relazione parentale basata sulla menzogna ; Tony è l’impunito profanatore di altari sacri e il violentatore di Joselina ; il maturo scrittore che torna nel villaggio natio dopo un lungo peregrinare, è ormai estraneo alla comunità e forse più devoto al passato, a trascriverne le memorie e a sigillare la fine di un’epoca.