Sceneggiatura: William Kennedy, Francis Coppola e Mario Puzo, ispirata al libro fotografico: The Cotton Club: a Pictorial and Social History of the Most Famous Symbol of the Jazz Era, di Jim Haskins
Fotografia (Technicolor): Stephen Goldblatt
Montaggio: Barry Malkin, Robert Q. Lovett
Suono: Edward Beyer
Scenografia: Richard Sylbert
Coreografia: Michael Smuin e Hanry Le Tang
Musica: John Barry, Bob Wilber (brani originali di Duke Ellington e Cab Calloway)
Produzione: Robert Evans per la Totally Indipendent Ltd.
Durata: 128’
Interpreti: Richard Gere (Dixie Dwyer), Nicholas Cage (Vincent ‘Mad Dog’ Dwyer), Gwen Verdon (mamma Dwyer), Gregory Hines (Sandman Williams), Maurice Hines (Clay Williams), James Remar ( Dutch Schultz), Julian Beck (Sol Weinstein), John Ryan (Joe Flynn), Diane Lane (Vera Cicero), Lonette McKee (Lila Rose Oliver), Bob Hoskins (Owney Madden), Fred Gwynne (Frenchy), Allen Garfield (Abbadabba Berman), Larry Fishburne (Bumpy Rhodes), Tom Waits (Irving Stark), Joe D’Alessandro (Lucky Luciano), Zane Mark (Duke Ellington), Larry Marshall (Cab Calloway), Gregory Rozakis (Charlie Chaplin), Vincent Jerosa (James Cagney).
Breve sinossi: Nel mitico locale di Harlem, il Cotton Club, in un arco di tempo che va dal 1928 al 1931, si avvicendano le vite di gangster, ballerini, cantanti, personaggi noti e meno noti che assistono agli spettacoli memorabili di Duke Ellington, Cab Calloway e altri artisti di fama mondiale. È l’era del proibizionismo e gruppi di gangster rivali si contendono il mercato illegale degli alcolici. Il famigerato gangster Dutch Schultz s’impone per efferatezza ma presto sconterà il suo debito con la morte, fatto fuori dai sicari di Lucky Luciano, alleatosi con Owney Madden, il proprietario del Cotton Club. La morte del gangster consentirà all’amante Vera Cicero di coronare l’amore per il trombettista Dixie Dwyer che nel frattempo farà carriera ad Hollywood interpretando ruoli di capimafia. Parallelamente si sviluppano le vicende della cantante mulatta Lila Rose Oliver e del ballerino di tip-tap nero Sandman Williams, entrambi determinati a sfondare nel mondo dello spettacolo anche a discapito degli affetti famigliari… Intorno a loro si muovono le vite di madri di famiglia, scugnizzi e scagnozzi sfortunati come il fratello di Dixie, Vincent “Mad Dog” Dwyer, destinato a finire trivellato di colpi come il suo capo, Dutch Schultz.
Sullo sfondo delle vicende narrate è la sottile segregazione tra bianchi e neri che vuole che sul palco del Cotton Club si esibiscano i neri mentre il pubblico sia costituito di soli bianchi.
In Cotton Club la componente meta-cinematografica informa tutta la pellicola e di questa Coppola si avvale per perpetrare un’operazione di sovvertimento delle logiche di produzione del sistema hollywoodiano. Cotton Club, a conti fatti, è un piano diabolico che ostenta buon viso a cattivo gioco. Con una metafora si potrebbe dire che è Coppola il vero ed abile gangster del film. Paradossalmente, sebbene si tratti di un gangster movie, sembra che egli ne voglia negare la legittimità erodendolo dall’interno. Basti pensare al film nel film, Mob Boss, il cui protagonista è interpretato da Dixie Dwyer, che del gangster non ha nulla se non, forse, la controfigura… Dixie è una mosca bianca non solo tra i musicisti neri coi quali si abbandona a informali jazz sessions ma anche per quella nota sentimental-malinconica, dal sapore di soap opera, che sortisce un effetto stridente in diverse occasioni: nel dialogo col fratello Vincent “Mad Dog” Dwyer alle prese con il rapimento di Frenchy, nell’intimità con Vera, e nel diverbio con Dutch nel locale della ragazza. Dixie si lancia in polpettoni moralisti che servono solo a sospendere temporaneamente l’azione producendo un effetto straniante, come se l’attore avesse sbagliato battuta e il suo interlocutore non sapesse come proseguire: «Cosa fai Dutch? Tu fai del male a tutti. Vuoi strapparle il cuore? E intrometterti sempre nella vita degli altri? Per l’amor di Dio, credi di essere Gengis Khan? Tu trasformi la vita delle persone in merda. Quanti ancora ne vuoi ammazzare?» (1). Ancora più disarmante è la confidenza che Dixie fa a Dutch, asserendo che tutto ciò che ha imparato sui gangster lo deve proprio a lui, spodestando così il più cattivo dei cattivi del titolo di capomafia. A tale operazione contribuisce anche la caratterizzazione del rapporto di Dutch con la moglie che lo tratta come uno zimbello, ridicolizzandolo attraverso le scenate di gelosia e dunque proiettandone la figura sullo sfondo della farsa. Che dire poi dell’improbabile coppia Owney/Frenchy? Paiono una rivisitazione di Stanlio e Ollio nelle due gag che li vedono protagonisti: quella in cui urinano serenamente nel bagno ammettendo l’impossibilità di vivere l’uno senza l’altro e quella veramente esilarante “dell’orologio” che segue il rilascio di Frenchy, rapito da “Mad Dog”.
Sgomberato il campo dai veri gangster, Coppola imbraccia il mitra e trivella di colpi una produzione da 50 milioni di dollari, aggirando sottilmente il “proibizionismo hollywoodiano”, vero bersaglio di questa operazione cinematografica: «Andare a proporre un film in America è come andare davanti ad una commissione dei Soviet. Guai se non rientri nelle categorie di ‘prodotto’ previste. Ormai in America o fai delle commedie demenziali o delle space operas, o delle soap operas. Dopo di che puoi usare lo stile e il linguaggio che vuoi, purché ci sia del naturalismo. Se provi ad uscire da questi schemi è la fine» (2). Ciò che importa è fare sold out al botteghino, ovvero ricevere i plausi del pubblico pagante come quelli che al vero inizio del film sono rivolti alle ballerine “alte, ambrate e fantastiche” che danzano sulla pista del Cotton Club, e ai titoli di testa, in cui i nomi degli attori e della produzione sono scritti obliquamente, in omaggio agli anni Trenta, e in un formato tridimensionale, tronfi di una gloria che deriva loro dall’essere assurti allo star system. Con una simmetria impeccabile, che non può non essere il frutto di un piano finemente premeditato, alla fine del film si ripete lo scroscio di applausi che suggella l’happy end e la straordinaria compenetrazione della dimensione reale (fittizia) con quella fantastica veicolata dal musical che in questa ultima parte diviene appunto debordante, eccessivo, contaminante. La realtà diviene un palcoscenico in cui le diverse trame e fili del film pervengono ad una risoluzione. E tra coloro che applaudono assume un ruolo chiave un uomo che ha probabilmente dormito per l’intera durata dello spettacolo e, una volta destatosi per il fragore delle mani battenti, preso nel vortice dell’euforia degli astanti, inizia ad applaudire pure lui… Senza cognizione di causa? Perché richiamato dal gregge? L’interrogativo è davvero cruciale per comprendere le ragioni che sottendono le intenzioni del regista.
Nonostante l’impeccabile struttura della trama, costruita sulle simmetrie dei plots delle coppie di bianchi e neri (Vera/Dixie, Angelina/Sandman, Mad Dog/Clay, Owney-Frenchy/Dutch) e la musica e le performance spettacolari che rendono gloria alla memoria del locale di Harlem, la maggior parte della critica ha riconosciuto che l’operazione coppoliana è stata fallimentare, non solo rispetto agli incassi ma anche per un «congelamento, questo rigor mortis di un progetto intellettualistico e cerebrale» per cui Cotton Club risulterebbe «raffreddato o meglio “freddato” […] da un’intelligenza da computer» (3). D’altra parte la cerebralità dell’operazione è apertamente dichiarata nella scena che segue il montage sequence dedicato alla carriera di Dixie nel cinema e alla grande depressione del 1929: Frances, la moglie di Dutch, sta completando un cruciverba inserendo la parola gangster, che non a caso s’incrocia con le parole rids e rages a descrivere il clima dei crime movies. Non solo, altri incroci di parole descrivono la costellazione dei significati entro cui si muovono le gang rivali impegnate nel traffico illecito di alcolici durante il proibizionismo (spar, paid, unite, beer, war) e l’ambiente ricco e raffinato della malavita (spas, oleos, chics).
Coppola ammicca giocosamente allo spettatore rivelandogli le regole dello spettacolo e importunandolo perché gli impedisce di abbandonarsi alla trama che ha confezionato appositamente per il piacere dell’entertainment. Lo mette puntualmente di fronte alla sua posizione di spettatore come nello straordinario «tip tap luttuoso» (4) in cui si esibisce Sandman Williams che, facendo le veci di un rullo di tamburi, scandisce i passi compiuti dai sicari di Lucky Luciano, il parvenue della nuova scena mafiosa, che segneranno la fine del vecchio boss, Dutch.
La performance di Sandman culmina nell’omicidio ‘trionfale’ di Dutch, suggellato dai soliti plausi dello spettatore in/out, fittizio/reale che, dietro il pretesto della finzione e della mendacità del simulacro, fonda la glorificazione e sacralizzazione della violenza, motivo ispiratore di Apocalypse Now (id., 1979). La spettacolarizzazione della violenza conduce alla sua inevitabile (e supposta) innocuità. Ciò viene ribadito in un’altra scena, certo più scanzonata, ma ugualmente potente. Si tratta del diverbio danzante tra Dixie e Vera al Bamville Club. I due si schiaffeggiano mentre ballano sulla pista, circondati da altre coppie, ma nessuno prende sul serio l’evento, anzi viene interpretato come un nuovo ballo, magari di ascendenza dadaista, che viene presto emulato! Così, per il semplice fatto di avvenire sullo stage, al cinema o a teatro, la realtà viene travisata, edulcorata, riaffermando il potere del simulacro.
Cotton Club è un film forse troppo bello, leccato, spasmodicamente filologico (basti pensare ai mascherini ad aride o a tendina che separano una scena dall’altra) ma anche “frankensteiniano”, non solo per la presenza fisica e vocale di Fred Gwynne, ma soprattutto per la maniacale, “fanatica” ricostruzione degli ambienti e dei personaggi che a cavallo degli anni Venti e Trenta popolavano il noto locale di Harlem e che suggeriscono a Coppola la sfilata dei sosia di Duke Ellington, di Cab Calloway, di Armstrong, di Charlie Chaplin, di Gloria Swanson e così via. Così il palcoscenico e il backstage del Cotton Club si trasformano in un sovraffollato museo delle cere che reca con sé un indelebile marchio mortifero, una delle cifre del cinema di Coppola che acquisirà sostanza concreta nel film Dracula di Bram Stocker (Bram Stocker’s Dracula, 1992).
Sebbene Coppola affidi, apparentemente, la buona riuscita del film ai godibilissimi spettacoli musicali e di danza e all’avvincente e ben orchestrato arrangiamento dei plots e subplots narrativi, tuttavia ne mina, dall’interno, il successo commerciale attraverso diversi accorgimenti: privando il personaggio del gangster di un’anima, nonché appiattendo tutti i comprimari attraverso un’estenuata estetizzazione o un gusto di tipo macchiettistico; chiamando in causa lo spettatore facendogli “scontare” il piacere della visione; disorientando la critica attraverso un’operazione di ibridazione condotta su due livelli, ovvero facendo convergere i due generi classici del cinema hollywoodiano, il musical e il gangster movie, e proponendo un rimescolamento del suo stesso cinema, tanto che Cotton Club parrebbe nascere dalla rilettura de Il padrino (The Godfather, 1972) attraverso Un sogno lungo un giorno (One from the Heart, 1982) (5).
di Rebecca Amanda Snyder