Il festival del film di Locarno riserva, come al solito, nella sezione « Cineasti del presente », delle belle sorprese. È il caso del piccolo gioiello di rohmeriana memoria Un jeune poète di Damien Manivel.
Il film del giovane cineasta francese racconta, in una cinquantina di scene, le erranze del flaneur e poeta diciottenne Rémi Taffanel nella cittadina marittima di Sète con rare freschezza e levità.
Rémi ricerca, insegue, provoca l’ispirazione : lo cogliamo in biblioteca mentre punta a caso il dito nel dizionario per trovare la parola d’oro che gli evochi nuovi orizzonti immaginativi ; si immerge in mare per domandare l’arcano ad un polpo di passaggio ; interroga i passanti o si attarda con gli avventori di un bar ; nomina le farfalle e gli oggetti del mondo con lo sguardo primigenio di un fanciullino pascoliano ; Rémi sogna, si innamora, si strugge per una cocente delusione amorosa e, allora, si rifugia nell’alcol o va a meditare, romantico giovane Foscolo, sulla ‘tomba del poeta’.
Questo piccolo capolavoro è stato girato in fretta e furia l’estate scorsa. Un mese prima delle riprese Manivel ha scritto una cinquantina di ‘situazioni’ eppoi, arrivato sul posto, ha lasciato che il caso e l’improvvisazione prendessero il sopravvento. E ciò nonostante, il film è di un rigore impressionante. Costruito alternativamente su piani fissi (alcuni dei quali sprigionano un magnetismo alla Kaurismaki) e sui piani sequenza, risponde alle necessità imposte dal film, e nella fattispecie, « al soggetto del film, Rémi, alla sua gestualità e a quel poco di denaro di cui disponevamo ».
Autoprodotto con un budjet ridotto all’osso e una équipe formata da quattro persone (tutti compresi) questa piccola meraviglia è nata grazie ad una videocamera, una pertica, dei microfoni cravatta e la luce di una calda estate mediterranea.
Manivel può vantare un indubbio talento, confortato da un occhio coltivato (ha frequentato il Fresnoy, istituto dedicato alla crezione artistica audiovisiva) e rivolto verso l’Oriente, in particolare ai cineasti taiwanesi Tsai Ming Lian e Hou Hsiao Hsien, o al cinema americano underground del primo Jim Jarmusch: Manivel dice di essersi ispirato a Permanent Vacation , non tanto sul piano artistico ma relativamente al procedimento adottato: «volevo fare un piccolo film modesto, dove non succedono tante cose ma che, tuttavia, rimangono bene in testa».