Torino, 2010: quattrocento persone rispondono ad un annuncio per andare a pulire il salmone in Alaska. La regista Alessandra Celesia si serve di questo annuncio-escamotage come barometro della crisi italiana. Gente disoccupata, smarrita e arrabbiata si presenta a colloquio per realizzare un sogno di evasione e di speranza all’altro capo del mondo.
Solo cinque candidati potranno compiere un viaggio che sarà, prima di tutto, un’odissea interiore: c’è Giovanna, ex tossicodipendente e disoccupata che si serve di un dittafono per comunicare ai figli, da cui è separata, il suo amore materno; c’è la bohème Camilla, che sublima il proprio sogno frustrato di divenire attrice, travestendosi da Marlène Dietrich; eppoi Dario, meccanico di giorno e drag queen di notte; il ‘fascio’ Ivan, ex-militare in Irak e in Afghanistan e morbosamente affezionato alla sua nonna; e infine Riccardo, pubblicitario e benestante la cui vita è stata sconvolta dalla morte del figlio.
Il quattro febbraio scorso Alessandra Celesia, già vincitrice nel 2011 del premio “Miglior Documentario” al Festival dei Popoli di Firenze con Le libraire de Belfast, è stata invitata a Parigi dall’associazione Toiles&Toiles a presentare Mirage à l’italienne (2013) e a discuterne con il pubblico. Un’occasione per approfondire il processo di lavorazione di un docu-film imperfetto ma che, dalle maglie del reale, ha saputo distillare pura poesia.
Scheda tecnica:
Anno: 2012
Durata: 90′
Regista : Alessandra Celesia
Produzione : Zeugma Films
Fotografia : Laurent Fénart
Suono : Damien Turpin
Montaggio : Danielle Anezin
Festivals : Compétition Française au Cinéma du Réel 2013 (Paris), Festival internazionale del Film di Milano 2013 (Italia), Salina DocFest 2013 (Italia)
Prix: Premio Aprile et Menzione Speciale della giuria al Milano Film Festival (2013), Menzione speciale della giuria al Salina Doc Fest (2013)
Mi piacerebbe sapere quale sia stata la parte di finzione e quella di realtà nel film. Un vero lavoro attendeva queste persone o sono state vittime di una truffa?
Penso che sia stata un’avventura talmente folle che non avrebbe potuto essere controllata in nessun modo. Io ho l’impressione che sia una favola, ed in effetti era questa l’intenzione che avevo sin dall’inizio.
Il film è nato perché nel 1995 è circolato un annuncio pubblicitario a Torino per andare a pescare il salmone in Alaska. C’erano diversi miei amici che, insospettabilmente, avrebbero aderito all’iniziativa e quindi questa cosa mi ha profondamente colpito. Le ragioni che li motivavano non erano solo economiche ma c’era anche la voglia di vivere un’avventura e di cambiare qualcosa nelle proprie vite.
Per quel che mi riguarda, gli altri due motivi propulsori di questa esperienza sono stati il compimento dei miei quarant’anni e la crisi italiana. Mi sono resa conto che avevo passato più della metà della mia vita all’estero. Ero partita a diciott’anni e son tornata in Italia diverse volte ma senza avere l’intenzione di viverci. Mi sono detta che non ero più tornata perché se vuoi realizzare i tuoi sogni non è possibile in Italia ma bisogna andare altrove. Volevo raccontare l’Italia di questi anni e lo spunto mi è venuto ripensando a quel vecchio annuncio: era una metafora straordinaria anche se l’annuncio, evidentemente, non esisteva più! Così sono andata al salone del pesce di Bruxelles con un assistente. C’erano diversi stand, tra cui quello dell’Alaska, e così abbiamo preso accordi con un’azienda che ci avrebbe aiutato a realizzare questo film. L’accordo era che loro avrebbero concesso ai personaggi di lavorare presso l’azienda affinché il film potesse essere fatto; dall’altra parte, la produzione del film avrebbe pagato i salari dei lavoratori a condizione che potessimo scegliere, non i lavoratori migliori, ma quelli che ci avrebbero colpito di più e che ci sembrassero più adatti per il film. Quindi, in un certo senso, si è trattato di una truffa. Sapevamo che ci sarebbero stati cinque impieghi e che sarebbero stati pagati una certa somma. Era vero e non vero allo stesso tempo… Per me era comunque fondamentale che ci fosse un lavoro remunerato dietro a questa faccenda.
Abbiamo messo questo annuncio e, al di là di tutte le aspettative, abbiamo ricevuto, solo il primo giorno, quattro o cinque mail. Abbiamo selezionato cinque persone. Fin dalla prima mail erano stati messi al corrente che sarebbe stato realizzato un film sul lavoro che andavano a fare in Alaska. Penso che avessero immaginato un film d’impresa. Ci siamo conosciuti e poco a poco i personaggi sono cominciati ad entrare nello spirito di quest’avventura.
Abbiamo dunque deciso di partire per l’Alaska anche se da qualche giorno non avevamo più notizie dall’azienda. Una volta sbarcati abbiamo scoperto che alcuni marinai erano morti in mare qualche giorno prima. L’azienda era in lutto e, inoltre, era soggetta a diversi controlli da parte delle autorità. Dunque l’ultima cosa di cui avevano voglia era che si facessero delle riprese da loro. Ciononostante ci hanno offerto di aiutarci anche se il mio progetto di sceneggiatura era ormai irrealizzabile perché, inizialmente, avevo previsto che i personaggi dormissero assieme agli operai e mangiassero assieme a loro alla mensa comune.
Per me è stata una catastrofe, ho dovuto annunciare ai personaggi che non c’era lavoro anche se sarebbero stati pagati ugualmente. Ne erano contenti! Io invece ero annientata. Ho pure chiamato il mio produttore che mi ha detto di arrangiarmi.
I personaggi mi hanno detto una cosa che mi ha fatto riflettere: anche se non fossi stata io ad organizzare questa iniziativa, probabilmente sarebbe finita per essere una truffa. In effetti, in Italia, nel 1995 nessuno ha risposto all’annuncio, che io sappia. In Italia funziona così: spesso le imprese ricevono dei fondi dalla comunità europea per fare delle formazioni, incassano il denaro, vi fanno vedere come preparare il pesce eppoi… sì, come in un film di Ken Loach. Dunque sono stati i personaggi che hanno ricreato la sceneggiatura e mi hanno invitato a seguirli in questa nuova avventura. Solo dopo ho realizzato che questo disguido, per me, è stato una grande occasione perché non avrei ottenuto lo stesso risultato se i personaggi avessero lavorato otto ore al giorno.
Come avete concepito delle scene molto intime e spontanee come il coming out di Diario? Questa scena mi ha colpito molto perché è autentica. Volevo sapere se l’ha fatta accadere o se, semplicemente, si è svolta sotto i suoi occhi senza nessun intervento da parte sua.
Io ho avuto l’impressione che tutto il processo del film sia avvenuto sotto il segno della speranza. Speravo che certe cose si sarebbero prodotte. Per questo ho scelto molto accuratamente i personaggi, tentando di individuare delle tracce di possibili relazioni e conflitti. Per esempio, quando si sceglie una persona di destra, un ‘fascio’ come Ivan e, dall’altra, un omosessuale come Dario, ti immagini che qualcosa debba accadere. È vero che Dario ed Ivan si sono subito presi ma Ivan non aveva capito che Dario fosse omosessuale. Quello che ho potuto fare io è stato solo comprendere dove li avrebbe condotti la scia dei loro sentimenti.
Il coming out di Dario è arrivato verso la fine del viaggio. Sapeva che, quando sarebbe tornato a Torino, Ivan avrebbe saputo che era omosessuale ma non voleva che lo apprendesse da altre persone perché ciò avrebbe compromesso la loro amicizia. E dunque desiderava dirglielo ma aveva molta paura di parlargli. Quel giorno avevamo fatto una cena, era tardi, tutti erano mezzi addormentati e ubriachi e Dario parlava di motori. A quel punto gli ho detto che era arrivato il momento per parlare a Ivan. Ho spento la videocamera perché per lui sarebbe stato come vendere questo momento. Dario ha rivelato la sua omosessualità ad Ivan e, subito dopo, ho riacceso la videocamera.
Non trova che sia un modo di filmare violento? Si sono ritrovati in una trappola, e questo è vero sia per Dario che per Ivan.
Non so. Quando ci si lascia filmare per due mesi, in quella maniera, accade qualcosa. Io penso che i personaggi siano coscienti, che non siano del tutto innocenti davanti alla videocamera, anzi penso che i personaggi ti manipolano completamente. Credo che Dario abbia voluto questa scena. Allo stesso tempo, devo dire che non l’avrei filmata se Ivan non si fosse dimostrato così amabile: era diventato… non dico ‘di sinistra’, ma è maturato molto grazie a questa esperienza. Ivan è venuto all’anteprima parigina del film sapendo che c’era questa scena e si è fatto accompagnare da un amico ‘fascio’. Penso che fosse fiero di questo perché faceva parte del percorso che ha fatto.
È importante che questa questione della violenza, concernente il genere documentaristico, sia stata sollevata. Più guardo il film e più mi capacito del fatto che nessuno si lascia filmare gratuitamente ma che, anzi, sceglie per sé il buon momento. I personaggi ti utilizzano per degli scopi.
Penso anche che non tutti son fatti per essere filmati in questa maniera, io stessa non potrei. Ci sono delle persone che sono trasparenti e altre che non lo sono.
I personaggi sono stati filmati ininterrottamente durante le due settimane del viaggio? La loro personalità cambiava quando venivano filmati? Penso a Big Brother e ai reality show…
Mi piace questo riferimento a Big Brother. Ma dipende a che tipo di reality pensiamo. Io lavoro sempre con la stessa équipe e, di conseguenza, si creano delle relazioni forti coi personaggi. Per esempio Ivan era molto amico dell’ingegnere del suono, che era francese e che aveva la passione per il suono, ma era anche interessato alle macchine ed era dotato di muscoli per tenere l’asta del microfono: questo piaceva a Ivan. Insomma eravamo una grande colonia di vacanze.
È importante considerare che la differenza con i reality show è che, nel nostro caso, l’équipe viene coinvolta umanamente. Trovo che questo sia giusto per me e per le persone filmate perché, alla fine, anche io ho voluto restituire loro qualcosa in cui si siano riconosciuti e che possano conservare nel tempo. Si tratta di uno scambio.
Penso che questo film si collochi perfettamente nella linea del genere documentaristico: il riferimento a Nanouk l’Esquimau (1922) di Robert Flaherty non è là per caso. Similmente, nel film Pour la suite du monde (1963) il documentarista Pierre Perrault installa un dispositivo che ‘fa comunità’. Il suo film è in questa linea, anche se completamente contemporaneo.
Oggi abbiamo il vantaggio di poter filmare per ore e ore, allora la concezione del documentario era differente, innanzitutto per le risorse…
Forse i popoli che filmava Flaherty erano più ‘innocenti’. La gente che lei ha filmato nel suo film ha vissuto l’era dei reality e quindi è più smaliziata nel senso del rapporto con la videocamera.
Sì, è senz’altro vero: in questo film, per un mese intero, prima di partire per l’Alaska, ho spento la videocamera e non ho filmato nulla al fine di restare coi personaggi e prenderli per la mano per condurli verso un altro universo e per far loro capire il senso di quest’avventura comune e che non li filmavo per qualcosa di ‘rapido’.
Quanto tempo siete rimasti sul posto?
In Alaska era stato previsto un soggiorno di due settimane: avevamo già acquistato i biglietti di andata e ritorno. Se avessi avuto più soldi per la produzione saremmo rimasti di più.
Qual è stata l’ accoglienza della popolazione indigena? È realtà o parte romanzata? Mi sembra che i personaggi siano stati accolti a braccia aperte.
Vi porto un esempio. C’è stata una scena che non ho filmato perché quella, sì, l’avrei ritenuta violenta e non rispettosa della sensibilità delle persone. I genitori di un marinaio morto avevano intagliato un totem nel legno nella foresta e, visto che erano a conoscenza del fatto che il figlio di Riccardo era morto, l’hanno invitato a vederlo.
Detto ciò, credo che i personaggi non siano voluti restare perché la società là è molto violenta, gli indigeni sono pochi, la maggior parte sono americani bianchi e molto armati.
E poi la natura stessa è violenta. Per esempio c’era la donna dell’uomo che ci affittava l’auto che faceva dello sci di fondo sulla spiaggia con il fucile in spalla per difendersi da eventuali attacchi di orsi.
O, ancora, il fatto che Dario fosse omosessuale non era ben accolto: nel villaggio c’era un solo altro omosessuale: una donna che era stata bandita dal villaggio perché aveva lasciato il marito per andare a vivere con un’altra donna.
Ma la stessa cosa sarebbe potuta capitare in Italia per quando riguarda l’accettazione dell’ omosessualità di Dario, se è vero che a Torino Dario avrebbe avuto paura!
Certo, l’Italia non è la Francia! Ma, in ogni caso, è più sicura dell’Alaska!
Io pensavo che sarebbero partiti sulla piccola casina sull’acqua e che là avrebbero cominciato una piccola vita di comunità.
Alcuni sono venuti al colloquio con l’idea di ricreare lontano una piccola comunità utopica. Visto che le ragazze che facevano il colloquio non erano delle professioniste ma erano lì perché interessate al lato umano delle persone, alcuni dei candidati si sono sfogati: le storie che raccontavano erano sempre le stesse, storie di gente che si sentiva schiacciata dal sistema, dall’economia, c’erano anche dei manager, come quel signore che dice che a quarantotto anni avrebbe voluto fare una strage nella sua ex azienda. Non aveva lavoro eppure era un quadro… E considerate che le interviste sono state fatte a Torino, che non è Napoli!
Trovo che non insista abbastanza sul rapporto dei personaggi con questo nuovo mondo e su come quest’ultimo li abbia cambiati. Là essere omosessuali o ‘fasci’ non conta più niente. Avrei voluto sognare di più!
Non è stato possibile rimanere di più, anche se avrei voluto… ma penso che al centro del film sia il desiderio di partire. Anzi, penso che il film avrebbe potuto terminare prima di partire in Alaska.
È stato veramente difficile organizzare le riprese perché non abbiamo potuto fare dei sopralluoghi e non conoscevamo bene le persone dell’azienda. Avevo proposto al produttore di andare in Islanda dove ho degli amici e dove avrei potuto organizzare più facilmente ogni cosa. Inoltre gli sarebbe costato anche meno ma lui è stato intransigente sulla scelta della destinazione del viaggio: era convinto che proprio questa grande distanza avrebbe prodotto un cambiamento. Ci abbiamo impiegato due giorni per arrivare!
Il procedimento del dittafono l’ha introdotto lei o è stata un’idea di Giovanna?
Giovanna scriveva molte lettere ai propri figli, ci siamo chieste se avesse voluto leggerle o parlare direttamente davanti alla videocamera, ma questa seconda proposta è stata accantonata subito visto che era difficile per lei sostenere lo sguardo in macchina per più di trenta secondi. Un giorno, camminando per strada, ho visto questo dittafono e le ho proposto di utilizzarlo senza sapere che lei fosse poeta. Con questo strumento è stato molto più facile per lei parlare ai suoi figli perché le permetteva di estraniarsi da noi e dal mondo.
Perché dà del ‘fascio’ ad Ivan? Ha l’aria talmente amabile!
Lo dico con affetto ma basta vedere i tatuaggi che ha sul braccio per convincersene: vi ha marchiate la “folgore” e la scritta “Dux”…
D’altronde io volevo un fascista nel cast, lo dico perché penso che sia uno dei problemi dell’Italia. Penso che Ivan abbia il problema di tutti i fascisti che sono in Italia e di tutti quelli che hanno vissuto il fascismo: abbiamo bisogno di un padre in Italia, siamo talmente orfani! Ci troviamo nel caos e, appena viene qualcuno che ci dice “questo è quello che dobbiamo fare”, si dice subito “sì papà, ti seguo”. Questo è tanto più vero per Ivan, che non ha avuto un padre: non avrei mai immaginato che si sarebbe avvicinato talmente a Riccardo, poi ho capito che si completavano.
I personaggi sono tornati a casa o sono rimasti in Alaska?
È un buon segno che vi interessiate ai personaggi perché vuol dire che vi siete affezionati a loro. Purtroppo son tornati tutti. In effetti Camilla ha veramente esitato e pure Giovanna.
I biglietti di ritorno erano già stati acquistati e là eravamo nel bel mezzo del nulla: gli unici mezzi per arrivare a Yakutat erano la nave o l’aereo. Delle volte abbiamo voglia di fare delle cose nella vita ma ci vuole coraggio. Il problema è che avrebbero dovuto avere del denaro da parte se avessero deciso di tornare e Giovanna e Camilla non avevano i soldi necessari per acquistare un biglietto di ritorno. Questa esperienza ha cambiato tutti, interiormente, ma non la loro vita quotidiana.