All’indomani della presentazione a Cannes del loro ultimo film, Due giorni una notte, la Cinemathèque Française omaggia i due cineasti belgi con una retrospettiva della loro opera e un incontro seguito alla proiezione del film Le fils (2002).
Un’occasione per riscoprire le origini del loro cinema, marcato dall’esperienza teatrale e dal genio di Armand Gatti, e approfondire, con la profondità e lo humour che li contraddistingue, le tecniche di regia adottate dai due cineasti, dalla direzione ‘bressoniana’ degli attori all’utilizzo privilegiato del piano sequenza.
Quali sono state le influenze nel vostro cinema? Siete passati per il genere documentario ma avete anche una formazione teatrale. Come siete approdati al cinema?
Jean-Pierre Dardenne: Siamo arrivati al cinema attraverso il teatro, grazie ad Armand Gatti. Abbiamo lavorato come assistenti, in realtà eravamo un pò dei tuttofare, avevamo diciotto e vent’anni. Gatti ci ha dato fiducia, è il nostro padre spirituale. Poi, naturalmente, ci si batte anche contro il proprio padre e noi, fortunatamente, eravamo in due!
Che cosa avete imparato da Gatti?
Luc Dardenne: Innanzitutto la precisione, il fatto che non esiste il pressapochismo. Con Gatti abbiamo fatto un film in Irlanda (Nous étions tous des noms des arbres (1982)). Abbiamo imparato osservando. I suoi attori non erano professionisti ma, per la maggior parte, irlandesi del luogo. Sul set ci è capitato uno che doveva interpretare un belligerante dell’IRA e doveva provocare un’esplosione con la dinamite. Ma questa persona, un vero sordomuto, si è rifiutato di girare la scena perché, sebbene irlandese e cattolico, era contrario a un tipo di intervento armato. Così Gatti si è trovato a dover riscrivere la scena: il film cambiava a seconda delle vite delle persone.
Lavorate spesso con gli stessi attori, con una coerenza quasi seriale, come in un’ ideale trasmissione dei ruoli. È il caso del “figlio” nell’omonimo film del 2002 (Le fils), che ritroviamo in veste di mafioso ne Le silence de Lorna (2008).
J.P.D: Spero che non ci sia troppa coerenza! Comunque avviene solo con gli uomini e non con le donne… Diciamo che questo tipo di scelta deriva dalla nostra formazione teatrale, e dal fatto che a teatro si lavora spesso con lo stesso gruppo di persone. E quindi cerchiamo di andare a ritrovare coloro con cui abbiamo già lavorato, anche se non si tratta che di una giornata di riprese.
Potete parlarci della direzione e della formazione degli attori?
L.D.: Con tutto il rispetto per la persona, noi consideriamo gli attori come della materia da modellare per diversi mesi. Lavoriamo con loro almeno quaranta giorni prima delle riprese. A seconda delle scene li guidiamo su come si devono sedere, cadere, correre, o azzuffare… così come i silenzi e i momenti in cui arriva la parola. Filmiamo tutto con la videocamera e, a fine giornata, guardiamo il materiale girato. In base a quello continuiamo il lavoro l’indomani. Eppoi li vestiamo tutte le mattine: il nostro principio è che quando un attore si trova bene in certi abiti, è bene cambiarli per rompere l’immagine di sé che si sono creati. Gli attori professionisti si identificano nelle immagini di se stessi come attori, mentre i non professionisti nell’immagine di sé come persone nella vita, soprattutto quando sono adolescenti. Per esempio, Emilie Dequenne, che interpreta Rosetta nell’omonimo film, non voleva camminare in strada con degli stivali in gomma. Ciascuno ha dei difetti o, meglio, qualcosa nel suo corpo che non vuole mostrare, questo vale soprattutto per gli attori non professionisti: bisogna fare tabula rasa di tutto ciò, solo così si è liberi. Ma questo vale anche per gli attori professionisti: è stato il caso di Cécile de France, che interpreta Samantha ne Le gamin au vélo (2011). Ad un certo punto lei non capiva più ciò che volevamo ed era vero, perché sia io che Jean-Pierre siamo in uno stato di perenne ricerca. Quando un attore non si pone più domande è un buon segno, vuol dire che è arrivata la libertà. Inoltre effettuiamo sempre le riprese nell’ordine della sceneggiatura proprio perché il personaggio è in divenire.
Immagino che l’utilizzo del piano sequenza nel vostro cinema richieda una coreografia molto precisa. Gli attori, colti nelle loro azioni e gesti, formano un balletto di energia.
J.P.D.: Ogni volta che cominciamo un nuovo film ci diciamo che non faremo più dei piani sequenza… ma alla fine non possiamo farne a meno, è più forte di noi. Forse è l’influenza del teatro. Ciò che ci interessa è registrare la presenza dell’attore ed è ottenibile facendo coincidere il tempo della ripresa col tempo della visione. Penso che il piano sequenza sia il nostro destino. Ad ogni modo so che bisogna cercare di evitare i pericoli insiti nel piano sequenza, ovvero l’ostentazione dell’abilità dell’attore, della prodezza, il virtuosismo.
Il piano sequenza registra il tempo ma anche lo spazio e la distanza tra i personaggi.
L.D.: Certamente… Le fils (2002) racconta proprio la distanza tra i due personaggi principali: il falegname Olivier e Francis, l’omicida del figlio d’Olivier. Abbiamo scritto la sceneggiatura attorno a questa distanza e, per le riprese, ci siamo serviti di una piccola cinepresa, maneggevole, leggera e dotata di bracci che ci ha consentito di distaccarci dai corpi e di dissociare l’occhio dalla visione.
J.P.D.: Nel film viene registrata anche un’altra distanza, quella tra i personaggi e le cose. Olivier non tocca le cose che, poco prima, sono state maneggiate da Francis. Ciò che ci ha sorpreso è che Olivier si dimostrava distaccato nei confronti del ragazzo anche al di fuori delle riprese. Non voleva che si avvicinasse, lo evitava. Abbiamo poi capito che si comportava così per aiutare se stesso e il ragazzo nel lavoro d’interpretazione. Solo alla fine, coerentemente alla riconciliazione prevista nella sceneggiatura, Olivier propende per un riavvicinamento.
Uno dei pregi del vostro cinema è quello di presentare dei personaggi complessi, non univoci, non riducibili ad alcuna formula sociale. Come costruite i vostri personaggi?
J.P.D.: Li consideriamo più come delle persone che come dei personaggi. È come se la cinepresa entrasse ed uscisse da una storia che è cominciata prima del suo arrivo. E poi lasciamo a ciascuno la sua chance. Non sappiamo nemmeno noi ciò che guida i personaggi. Abbiamo voluto conservare questa opacità, lasciare il mistero di ogni individuo. Non vogliamo delle silhouettes portatrici di un discorso.
A proposito del mistero e dell’opacità dei personaggi, ciò mi ha fatto pensare ad alcuni metodi del cinema americano, e in particolare al genere poliziesco, per il modo di entrare in una storia attraverso l’azione, la prova fisica dei personaggi. C’è, nei vostri film, un’ idea di serie B, nel senso che il tempo conta, bisogna iniziare prima di tutto con l’azione.
J.P.D.: Quando costruiamo una scena pensiamo, innanzitutto, a ciò che vogliamo nascondere. Ciò che organizza il piano è la posizione della cinepresa nello spazio e ciò che nascondiamo. Per creare la tensione tra Francis et Olivier, per esempio, abbiamo deciso di nascondere alla vista Francis per diverso tempo. Non ne vediamo che dei dettagli, un’ombra, in modo da far crescere la tensione e stimolare la curiosità nel pubblico.
Penso che il pubblico sia molto frustrato per questa fine brutale, per il fatto che il rapporto tra i due personaggi non si chiarifichi. Non si capisce ciò che Olivier cerca nel ragazzo, che è l’assassino di suo figlio.
J.P.D.: Il film appartiene più allo spettatore che al regista. Molti film di genere sono basati sulla vendetta… basti pensare ai western, ai polizieschi… Il nostro film non è basato sulla vendetta.
L.D.: Innanzitutto non si tratta di un assassino ma di un omicida. Premetto che non mi piace il perdono facile perché è inumano. Quando si incomincia a perdonare tutto non si sa più dove si è, non si sa più chi sono le vittime e i carnefici. Ma ciò che racconta il film è l’impossibilità dell’omicidio, della vendetta. Tale impossibilità rende Olivier un padre, perché è ciò che si insegna al proprio figlio: il divieto di uccidere. Il film racconta di come si può resistere alla vendetta.
Perché avete scelto questo attore dal volto angelico per interpretare un assassino? Non ne ha l’aspetto.
L.D.: Non esiste un “aspetto” di assassino!
Il personaggio dell’omicida, Francis, non conosce l’identità del suo insegnante, mentre l’attore che lo interpreta sì. Come si concilia questa consapevolezza durante il lavoro di interpretazione di un attore non professionista?
J.P.D.: Quando si sta girando un film, che siate attori professionisti o debuttanti, sì è nel presente e nel presente Francis è l’apprendista che deve indossare la salopette che il suo maestro gli ha consegnato, e non deve manifestare nient’altro che questo.
L.D.: Diamo delle indicazioni talmente precise all’attore, come “prendi quel bicchiere”, “conta fino a sei e siediti”, “alzati e poi girati” che lui è talmente assorbito dall’azione da eseguire che dimentica di essere un omicida. L’attore agisce senza memoria, ha la memoria di un pesce rosso!